E dire che il marzucchino di Vezzoli a me era piaciuto. Il leone rampante con tra i denti il capo della statua che giace ai suoi piedi mi era sembrato una riflessione irridente e perciò vera sul presente che rimastica il passato, anzi la testa del passato: vale a dire le sue idee, su cui, come su dei binari morti, incespica la storia. Mi affascinava quel suo ergersi sulle zampe posteriori come Cornacchia, il cane di Caravaggio, da saltimbanco ammaestrato a suon di bocconcini. Sembrava l’agguato di un micio un po’ cresciuto, uno di quegli scherzi divertenti proprio perché durano poco.
Invece no. Ieri l’altro la battuta si è trasformata in pistolotto, in sermone morale. La Pietà – questo il titolo dell’intervento site specific pensato dall’artista per Piazza Signoria a Firenze tra il 2021 e il 2022 nell’ambito di un progetto di “incontro” tra l’antico e il contemporaneo che ha visto come protagonisti, con gli altri, il tartarugone di Jan Fabre e lo pseudo coprolite di Urs Fischer – ha infatti acquisito una collocazione permanente a Palazzo Vecchio all’interno del terzo cortile, detto anche Cortile Nuovo, progettato dal Vasari e realizzato dal Buontalenti e dall’Ammannati. Secondo l’atletico sindaco Nardella, il leone ha trovato così una nuova casa, che “lo protegga” non si capisce da cosa: dai nemici attivisti o dall’inevitabile oblio? E chi mai proteggerà i visitatori dalla sua ironica ferocia? Un leone che, poco dopo essere apparso, scompare, è insieme denuncia di un’assenza e ipotesi di ricomposizione coi fantasmi cittadini, dal Marzucco di Donatello al Leone che svetta sulla Torre di Arnolfo ai Leoni della Loggia. Ma che dire di una bestia che si ostina a restare, sia pure, come dichiara ad Artribune Sergio Risaliti, curatore del progetto, in uno spazio un tempo adibito ad esotico serraglio? Condannata a diventare monumento, Pietàfinisce quindi per certificare una sconfitta: afferma che il passato non passa, che le icone di ieri sono le stesse di oggi, che il nuovo è già vecchio. Dichiara, incontrovertibilmente, un’assoluta incapacità di elaborare un pensiero autonomo, che non neghi l’eredità dei classici riscrivendola in forme chiare e originali.
Non so perché, ma tutta la vicenda mi ha ricordato la barzelletta del missionario che, dopo aver istruito sui precetti della chiesa, dall’astinenza al digiuno, un gruppo di nativi americani, li aveva battezzati: “tu da oggi in poi non ti chiamerai più Noshi, ti chiamerai Martino”. Si narra che, tornato dopo un anno al suo gregge di proseliti, lo avesse trovato a banchettare il venerdì di Quaresima a base di montone. “Ma come, vi avevo raccomandato di non consumare carne in questo giorno sacro!”, “Ma capo, noi, prima di mangiare la carne, la abbiamo battezzata: ‘tu non ti chiamerai più carne, ti chiamerai insalata’”. Bene, una singola barzelletta sdrammatizza, fa sorridere di sé stessi, infonde speranza nel futuro. Induce persino a credere che il presente attualizzi i misteri del passato.
Un’ironia protratta – e in quale altro modo definire la musealizzazione di una trovata spiritosa? – diventa sarcasmo: esprime la cattiveria senza limiti di chi è vittima – credetemi, sono un esperto in materia – di frustrazioni lungamente trascurate.