Installation view "Thybris - Il fiume eterno" di Roberto Ghezzi alla Galleria Nazionale di Roma, ph. Gaetano Marcanio

THYBRIS di Roberto Ghezzi. Nel velo poietico della sedimentazione

Il 26 novembre 2023, si è conclusa la personale THYBRIS – Il fiume eterno di Roberto Ghezzi, tappa romana delle Naturografie, con la curatela di Cristian Porretta e di Davide Silvioli, la collaborazione tecnica della project manager Linda Simioli, la promozione della galleria d’arte FABER e il partenariato scientifico con il Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile e Ambientale dell’Università Sapienza di Roma, il Dipartimento di Scienze dell’Università Roma Tre, l’ARPA Lazio, Greenpeace, ed è realizzata con la collaborazione de Il Giornale dell’Ambiente, con il supporto di Phoresta ETS, e con l’Ufficio Stampa Amalia Di Lanno, alla Galleria Nazionale di Roma.

Sta per terminare il doppio mandato della Direttrice Cristiana Collu, mentre si apre agli occhi dei visitatori un duplice intervento espositivo tra i più sentiti e fascinosi del suo incarico alla Galleria Nazionale di Roma. Superato l’atrio e giunti nel salone centrale, il nostro corpo e la nostra vista sono immediatamente portati allo scoprimento di un doppio deposito, quello immaginifico di Panorama XIX – l’Ottocento nelle collezioni della Galleria Nazionale, allestita con una selezione di opere dell’Ottocento delle collezioni della Galleria Nazionale, e quello del deposito naturale e di rilevanza artistico-scientifica, nonché storico-culturale di Thybris – Il fiume eterno dell’artista Roberto Ghezzi.

Due mostre temporanee che tendono a racchiudere, congenitamente, un portato enorme e recondito di significazioni, impossibili da esplorare dettagliatamente in un testo che tenterà di cogliere le principali voci afferenti a una loro comunicazione di espressione simbiotica. Lungi dall’essere un luogo, in cui la ferocia sublime di un’immensurabile azione poetica viene spenta da una campana di vetro che ne vuole arrestare lo sconfinamento, la Galleria nazionale di Arte Moderna e Contemporanea è e sarà sempre il luogo, come voluto sin dal principio da Palma Bucarelli, in grado di far emergere il suono della complessità umana che abita il nostro presente, e di cui la natura è compagna fedele.

Lontani dall’essere luoghi polverosi, i depositi sono ambienti costruiti secondo rigorose regole scientifiche che custodiscono beni da conservare e da cui attingere per ricerche, prestiti di opere e scambi tra le istituzioni. È quanto è stato scritto sul sito ufficiale della Galleria, per presentare l’iniziativa delle visite guidate ai depositi che hanno preso il titolo di “#Dietrolequinte…” al posto di “Oltrelapolvere. Visite guidate ai depositi della GNAM”.
Nel deposito del XIX secolo, tra le rastrelliere con apertura angolare, si nasconde un tesoro narrativo del tempo. Una storia che ebbe inizio con il progetto di Cesare Bazzani che, nel 1911, destinò a tale funzione il seminterrato posto nell’ala sinistra del palazzo, con entrata da via Gramsci: sei vasti ambienti denominati “Depositi provvisori opere d’arte” e tre denominati “Accettazione e catalogazione delle opere”. Fu Palma Bucarelli, succeduta alla direzione a Papini che, nel 1946 scrisse al Genio Civile, chiedendo interventi di urgenza per i difetti di costruzione dell’edificio e l’incolumità delle opere, a seguito dell’alluvione. Il suo genio inaugurò il nuovo ordinamento dell’Ottocento, accantonando quella divisione tra parte scelta e documentaria, colpevole di aver escluso dal percorso principale, per mancanza di spazio, opere degne di farne parte. Nel 1961 chiese, all’architetto Ezio De Felice, la sistemazione dei depositi della Galleria, con pannelli metallici scorrevoli, e con la suddivisione delle opere tra il XIX e il XX secolo. Purtroppo, alla fine del suo incarico e ancora fino agli anni Ottanta, le condizioni erano indesiderabili. I Sovrintendenti Giorgio De Marchis e Dario Durbé continuarono l’opera di sistemazione, e lo stesso Durbé installò, nel seminterrato sud-est, ottantotto pannelli di ferro, da cui la definizione del deposito del XIX secolo come deposito dei “pannelli di ferro”, in cui confluirono la quasi totalità dei dipinti non esposti e provenienti da sale espositive e da altri ambienti precedentemente adibiti a deposito temporaneo. Numerosi sono stati gli interventi seguenti, come quello della Sovrintendente Augusta Monferini che creò un ulteriore ambiente di deposito, destinato ai soli dipinti. Tra il 1995 e il 1999 tutto l’edificio venne sottoposto a grandi lavori di restauro e si procedette al riordinamento delle collezioni che fecero riemergere il carattere ottocentesco originario, sotto l’egida della sovrintendente Sandra Pinto. Nel 2003 iniziarono i lavori e la messa a norma degli ambienti che proseguirono fino a febbraio 2011, sotto la guida della Direttrice Maria Vittoria Marini Clarelli. Nel 2011 i curatori pensarono, per le sale espositive, un ordinamento per raggruppamenti tematici e cronologici, pur mantenendo l’impianto tradizionale. Nel 2016, il ridimensionamento dei dipinti dell’Ottocento trovò, invece, posto nei depositi visitabili. Tra i dipinti dell’Ottocento e del primo decennio del Novecento riemersero dai depositi, durante la direzione di Cristiana Collu, capolavori come il Ritratto di giovinetta di Scipione Vannutelli (1890), Mammina di Gaetano Previati (1908), Irene di Ignacio Zulo Aga y Zabaleta (1910), Sulla porta del granaio di Anders Leonard Zorn (1910) e molti altri.


Dal deposito del XIX secolo al deposito visivo di Panorama XIX e naturale di THYBRIS

Il corpo del visitatore è attratto dall’antro della Galleria verso il salone centrale per l’accumulo di opere dell’Ottocento – acquisite da privati presso le Esposizioni Nazionali, le Promotrici d’arte e le Biennali di Venezia, provenienti da lasciti, o da donazioni – in un moto che, come afferma la Direttrice Cristiana Collu, rivela la varietà e commistione tra i generi di un secolo che apre alla modernità. Dopo la camera oscura, lo specchio Claude, le lanterne magiche e gli stereoscopi, il diciannovesimo secolo ha voluto esprimere – anche attraverso l’illusionismo dei panorama – la complessità dei processi della visione che concorreranno alla nascita del cinema… . Oggi, nel XXI secolo, le esperienze artistiche immersive continuano a evolversi con l’uso delle nuove tecnologie. I visori per la realtà virtuale e l’intelligenza artificiale hanno trasformato il modo in cui le persone interagiscono con il mondo. L’immersione è un’esperienza soggettiva dentro lo spazio costruito dalla presenza e dalla disposizione delle immagini.

Non solo il tempo incide sulla visione del mondo esterno, secondo un tema che ha caratterizzato l’intera ragione espositiva della Direzione di questi ultimi anni, ma soprattutto il nostro corpo introduce la rivelazione del mondo fenomenico circostante. Come afferma Maurice Merleau-Ponty nella “Fenomenologia della percezione”: …La presenza e l’assenza degli oggetti esterni non sono se non variazioni, all’interno di un campo di presenza primordiale, di un dominio percettivo sui quali il mio corpo ha potere. Non solo la permanenza del mio corpo non è un caso particolare della permanenza nel mondo degli oggetti esterni, ma la seconda non è comprensibile se non per mezzo della prima… (p. 143), e ciò avviene, in quanto la coscienza si proietta in un mondo fisico e ha un corpo, così come si proietta in un mondo culturale e ha degli “habitus”: perché non può essere coscienza se non agendo su significati dati nel passato assoluto della natura o nel suo passato personale, perché ogni forma vissuta tende verso una certa generalità, sia poi quella dei nostri “Habitus” oppure quella delle nostre funzioni corporee (p.193). Così riconosciamo che la Gestalt di un circolo non ne è la legge matematica, ma la fisionomia. Il riconoscimento dei fenomeni come ordine originale condanna sì l’empirismo in quanto spiegazione dell’ordine e della ragione in base all’incontro dei fatti e ai capricci della natura, ma conserva la ragione all’ordine stessi il carattere della fatticità (p.105). Gli occhi stessi divengono frammento di materia e sono assimilati nel medesimo spazio oggettivo, in cui si situa l’oggetto esterno, dimodoché la prospettiva percepita sorga con la proiezione degli oggetti sul ciglio stesso. La storia percettiva individuale diviene risultato dei rapporti con il mondo oggettivo, il presente muta in punto di vista sul tempo e momento del tempo stesso fra tutti gli altri, mentre la durata è un riflesso o tempo astratto del tempo universale e il corpo un modo dello spazio oggettivo (p. 117).

Di una medesima intellegibilità di affondo si propala la solidità storico-culturale, artistica e scientifica dell’operato di Roberto Ghezzi. La natura, colta dai dipinti del salone centrale, prende forma in maniera medesima “nella realtà reale”. Nella sala “Alda Merini” i contrasti luminosi della sedimentazione tiberina convogliano, in un’apertura al nostro presente, intricate velature di frazioni del nostro passato che, come protettori di nuovi terreni, ci accingiamo a coltivare in una nuova azione vigente e in un contatto leggerissimo e intangibile nella commozione delle pieghe materiche. Nel 2022, l’artista inizia il percorso di ricerca lungo la dimora di Tiberino, prelevando gli elementi dell’habitat autoctono nel colore del disegno della natura stessa. È negli anni di una rovina ecologica che il nostro decide di far riemergere dalle acque del Thybris, come un demiurgo, sublimi nuances di cieli che accarezzano la gradazione di tracce tonali, fragili pupille nate dalla distensione microbiologica della sostanza basale.

Il suo interesse è legato, sin dagli albori pittorici, al paesaggio naturale che, negli ultimi anni, si è evoluto nelle Naturografie, germogli di una risultanza estetica senza precedenti ma con radici artistico-culturali che dai bassorilievi, monete e statue del tipo greco dà iniziamento, nel Seicento, alla storia dei due generi del paesaggio e della veduta del soggetto tiberino nell’arte. In quel secolo – scrive l’antiquario Giancarlo Belardi nel catalogo della mostra Il Tevere dell’800, Immagini tiberine di Roma e della sua campagna colte dai pittori dell’800, Olii, Acquerelli e Tempere, (Roma 1996) – il Tevere svolse un ruolo importante poiché venne subito eletto protagonista di importanti dipinti sia dall’iniziatore di qualunque paesaggismo, Claude Lorrain (1600-1682), sia da un altro pittore, amico di Lorrain, anch’egli stabilitosi a Roma, Nicolas Poussin (1584-1665), il quale talmente amava l’ansa tiberina tra Ponte Milvio e l’Acqua Acetosa da far suggerire per quel tratto di campagna il nome di «valle del Pussino» e per la passeggiata lungo quella sponda l’angolo di “La promenade de Poussin”. Anche in tutto il secolo successivo il Tevere fu uno dei motivi pittorici più praticati, grazie all’identificazione del paesaggio con la veduta e viceversa e riuscì a mediare le concezioni artistiche settecentesche del “pittoresco” e del “sublime”. Verso la metà dell’800, la natura sottomessa all’arte ribalta il suo rapporto. Sono gli anni di Nino Costa, dei grandi della campagna romana come Raggio, Tiratelli, Vertunni, Barucci, Carlandi, Coleman, Sartorio, fino al Gruppo dei XXV, e degli stranieri che operavano a Roma come Knebel, Glennie, Dessoulavy, Bénonuville, Parsons Rivière, Strutt, i Corrodi, e tantissimi altri. E sempre Belardi ci ricorda come il nome di Roma deriverebbe dal termine etrusco rùmon ossia fiume, o dalla radice del verbo ru ossia scorrere, e sarebbe quindi “la città del fiume”, come Romolo è “il signore del fiume” e proprio “fiume”, nel gergo popolaresco romano, viene detto il Tevere, cioè con il termine più semplice possibile ma usato come nome di persona. Parliamo quindi di fiume: una persona con il suo carattere, pregi, difetti, slanci, calme, irruenze, generosità…  .

Dunque, l’esposizione non poteva trovare collocazione e tempistica più adepte di quanto sia stato designato dai curatori e professionisti che hanno tracciato le fila di un percorso predisposto sempre a un rigenerativo scorrimento nel futuro. Ciò trae evidenza anche dall’allestimento scelto: al cospetto della sacralità di un dittico centrale si dislocano, sulle pareti laterali, un supporto tessile teverino intelaiato sulla sinistra, mentre sulla destra la rigidità dello stesso si scioglie nella flessuosità della forma dell’opera, rispettando la mutabilità della sostanza acquosa e delle possibilità percettive della visione. L’opera, disponendosi sulla pavimentazione della sala, attrae il visitatore alla consacrazione del percorso, al rinvenimento delle molteplici variazioni e insite nella dichiarazione della natura, tanto della sua resistenza, quanto delle sue ferite visibili nelle lacerazioni delle trame tessili.  

Link alle foto e alla documentazione di Panorama XIX – l’Ottocento nelle collezioni della Galleria Nazionale, un progetto di Cristiana Collu con la collaborazione di Chiara Stefani, alla Galleria Nazionale: https://lagallerianazionale.com/mostra/panorama-xix-l-ottocento-nelle-collezioni-della-galleria-nazionale

Roberto GHEZZI | THIBRIS il fiume eterno
a cura di Cristian Porretta e di Davide Silvioli
con la collaborazione tecnica della project manager Linda Simioli
7 – 26 novembre 2023
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Viale delle Belle Arti, 131 – Roma
Ingresso accessibile – Via Gramsci, 71