ARCO Lisboa

Sull’arte vuota, o sulla cosiddetta NFT

Il processo di smaterializzazione dell’arte è iniziato? Un racconto metaforico riflette su tale problema.

Questa storia non l’ho mai raccontata perché è troppo scema. Però, siccome siamo all’apocalisse, siccome oggi non ho portato con me l’atlante alla toilette (col quale viaggio sul mondo), e siccome ho poco da fare, l’unica cosa che mi viene in mente è scrivere. Anche perché se leggo le stronzate dei social, come i litigi tra la gente, e penso che questi litigi accadono avendo consapevolezza dei morti per Covid, mi avvilisco e impreco; capito? E allora racconto, e la grammatica avrà vergogna. 

Ti racconto che, un giorno di alcuni anni fa, un mio amico collezionista mi telefonò: «Sai, c’è la mostra di X alla galleria di Y. Verresti? L’ha curata Z, quello importantissimo, così lo conosci. E se ti fa piacere ci scrivi pure una bella recensioncina. Poi andiamo a cenare da Totò. Ha un pesce spada che è una meraviglia!». Gli risposi di sì. Avevo curiosità; curiosità della mostra, non del pesce: sono vegetariano. 

Alle diciannove e trenta, come stabilito, ci vedemmo di fronte la galleria. Un paio di minuti dopo arrivarono Y e Z. Il curatore era un tizio stravagante, uno dei più stravaganti che avessi mai visto: col papillon, la giacca spiegazzata, i pantaloni sporchi di vernice e le scarpe luccicose. Terminati i convenevoli che avrei felicemente evitato, tipo i sorrisi falsi, le strette di mano e le paroline dolci, entrammo in galleria. 

Prontamente il curatore, sull’uscio, ci bloccò e iniziò a sparare le sue m********: «Signori, innanzitutto grazie di essere venuti. Questa è una mostra molto chic…». Quando udii “chic”, e quando capii che fingeva di avere la erre moscia, le mie orecchie si spensero e immaginai brani di libri, scene di film e ritornelli di canzoni, tanto per passare tempo. Appena il curatore smise finalmente di ciarlare, applaudimmo (ritengo che l’applauso lo eccitò provocandogli un po’ di pipì) ed entrammo in sala attraversando un piccolo corridoio. 

Ebbene, le pareti erano vuote. In una c’era la cornice, in un’altra c’era la tela bianca appesa, in un’altra ancora c’era il chiodino. Il mio amico collezionista, che non ha mai avuto bon ton, gli chiese «Perdonami, ma mi vuoi prendere per il c***, o le opere le hanno rubate?». Il curatore, toccandosi il papillon e diventando rosso di rabbia, rispose: «Che c’entra? Il concetto è quello che conta! Non prendetevela, eh? Vi mancano le categorie adatte per capire!». E continuò a ciarlare della mostra, come se le opere fossero davvero presenti. Vabbè, la cosa perdurò per circa quarantacinque minuti e te la risparmio. Aggiungo che il cavallo dei miei jeans s’era gonfiato parecchio. 

All’improvviso il mio amico collezionista, approfittando di un momento di silenzio: «Desidererei invitarvi a cena. Andiamo da Totò. Ha un pesce spada che è una meraviglia!». Il gallerista declinò perché aveva una partitella a tennis; il curatore chic, invece, accettò uggiolando come un cagnolino dalla contentezza. 

Giunti da Totò ci sedemmo nel posto più bello, dal quale si ammira il mare. Mai m’ero seduto lì: è un posto riservato alla gente coi soldi. Il mio amico collezionista versò l’acqua minerale nei nostri bicchieri e disse che sarebbe andato dal cuoco per dargli delle indicazioni sul menù, dato che aveva un ospite importantissimo e uno “malato”, cioè vegetariano. 

Al suo ritorno, il mio amico collezionista ricordò di quando faceva il mozzo da giovane, e a volte pescava il pesce spada. Elencò gustose ricette che aprirono l’appetito a tutti, anche a me che del pesce non importa nulla. Lo stomaco brontolò e arrivò il cameriere. A me portò un piatto di pasta alla norma, al mio amico collezionista il piatto di pesce spada e al curatore chic un piatto vuoto. Io provai imbarazzo. Il curatore chic chiese se lo stessimo prendendo in giro, e il mio amico collezionista rispose: «Che c’entra? Il concetto è quello che conta! Non prendertela, eh? Ti mancano le categorie adatte per capire!». 

Il curatore si arrabbiò. Aveva quasi le lacrimucce agli occhi. Si alzò e ci mandò  a f******. Da quel giorno iniziai a scrivere le recensioni imitando la verità della vita, e non il vuoto dell’arte. Ecco perché qualcuno sostiene che sono volgare.

Dario Orphée La Mendola

Dario Orphée La Mendola, si laurea in Filosofia, con una tesi sul sentimento, presso l'Università degli studi di Palermo. Insegna Estetica ed Etica della Comunicazione all'Accademia di Belle Arti di Agrigento, e Progettazione delle professionalità all'Accademia di Belle Arti di Catania. Curatore indipendente, si occupa di ecologia e filosofia dell'agricoltura. Per Segnonline scrive soprattutto contributi di opinione e riflessione su diversi argomenti che riguardano l’arte con particolare attenzione alle problematiche estetiche ed etiche.

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