[In ricordo del terremoto del Belìce del 1968, la Fondazione Orestiadi di Gibellina il 15 gennaio ha presentato due opere: Spirale, scultura in ferro e vetro di Costas Varotsos, arrivata al Baglio Di Stefano (sede del “Museo delle Trame Mediterranee” diretto da Enzo Fiammetta) grazie alla collaborazione con la Fondazione Merz (resterà esposta fino al 30 settembre 2023); Il Doppio e il Rovescio, installazione site specific di Gianfranco Anastasio, opera che allude alla fragilità e all’instabilità del territorio del Belìce, realizzata nell’ambito del programma di residenze d’artista della Fondazione Orestiadi.
Nell’occasione, e in ricordo dell’artefice Ludovico Corrao, propongo una sorta di “ripetizione differente” di alcuni argomenti del mio Gibellina. La mano e la stella, del 2007 – qui con specifico riferimento al Grande Cretto di Alberto Burri].
Il Grande Cretto di Alberto Burri fa segno a un problema e a una possibilità. L’illuminazioneprodotta dal confronto con l’indisponibile vi è esposta nella nuda evidenza del non-celarsi. L’indisponibile (ciò che altri talvolta chiamano il sacro) è qui presente, non è solo rinvio a un che di assente – e che altro è l’arte se non il far presente un’assenza?
L’indisponibile: la morte degli individui, la minaccia di una morte collettiva, sociale, nella sparizione d’un paese; il terremoto, la forza sublime della Terra, che qui si presentò come fine d’un Mondo.
Il Grande Cretto espone l’indisponibile in un suo non-celarsi. Quel non-celarsi è luce. Beninteso, non solo nel senso materiale della luminosità che si rifrange sulle superfici dell’opera e trova ombra nelle sue scabrosità, nei giorni di sole altissimo e in quelli uggiosi; e non solo nel senso pur così importante della luminosità che improvvisamente l’opera può gettare sul nostro interno, sulle nostre ombre. Luce, in un senso più specifico, più luminoso, tanto luminoso che conviene parlarne senza parlarne, guardarlo guardando altrove.
In alcune fra le sue espressioni più serie e sofferte, l’arte contemporanea tende a qualcosa di non esprimibile e che allo stesso tempo può apparire già-da-sempre espresso, chissà come e dove, nell’Altrove che ci accompagna e che ci ostiniamo a sfuggire e cercare-di-nuovo. Qualcosa che ci appartiene, e a cui apparteniamo. Qualcosa di cui si nutre l’arte, quando non dimentica se stessa. Qualcosa a cui alludono le immagini, e noi con loro, se non ci limitiamo a guardarle ma accettiamo di esserne “guardati”.
Qui è in gioco l’arte che non cede al sistema e al suo sciocchezzaio, e che si prende cura di se stessa con rispetto (religio). All’altezza dei tempi, tale rispetto si definisce anche come necessità di un aprirsi alla Carità. Riferimento inconsueto: la nozione di un’arte “caritatevole” può apparire incomprensibile e perfino balzana. Tuttavia la nozione risulterà più perspicua là dove si consideri che tutto sembra cospirare contro la fattispecie veritativa dell’arte. L’artista è ormai pensato, usualmente, come un tecnico (sia pure di una tecnica mentalizzata sino a giungere a un’esibizione a-tecnica) in grado d’effettuare una prestazione, accontentando così i molti desideri del Collettivo. Quella prestazione gli è imposta dal sistema dell’arte e/o dall’informazione. E spesso lo stesso artista introietta quel genere di rapporto con gli altri, pensandoli come “fruitori”, quindi pensandosi come colei/colui che deve saziarne l’appetito di esperienze, di rassicurante già-visto o di eccitante stravaganza.
Anziché donarsi, l’arte si mette allora a servizio del (o tenta di mettere a servizio il) “pubblico” dei “fruitori”. Ed ecco, per contrasto si delineano i contorni invisibili e assai rari dell’arte che conosce la Carità, il dare e il darsi, nel dono senza contropartita.
Il rapporto fra l’arte contemporanea e l’indisponibile è ambivalente. Nel suo irrinunciabile viaggio verso la propria autonomia l’arte spesso ha rinunciato a qualunque referenza, cercando semmai uno specifico indisponibile nel suo stesso ambito (ad esempio, proponendosi un confronto col proprio medium), oppure rassegnandosi al non-dicibile. (Un’aspra definizione del tema: “Il postmoderno sarebbe ciò che nel moderno mette avanti l’impresentabile nella presentazione stessa; ciò che si sottrae alla consolazione delle buone forme, al consenso di un gusto che permetterebbe di provare in comune la nostalgia dell’impossibile; ciò che cerca presentazioni nuove, non per goderne ma per far meglio sentire che c’è dell’impresentabile”; Jean-François Lyotard, Il postmoderno spiegato ai bambini, Feltrinelli, Milano 1987, p. 23).
Uno dei molti tabù dell’avanguardia è stato il simbolo. Walter Benjamin ci ha insegnato che destino delle età “barocche” è volgersi piuttosto all’allegoria, al potere illimitato e annichilente del poter fare segno a qualsiasi cosa mediante qualsiasi cosa.
La pulsione allegorica del contemporaneo è assai differente da quella medievale, quest’ultima fondata sull’impossibilità di indicare con appropriatezza qualcosa di incommensurabile (il Divino). Tuttavia c’è da chiedersi se l’apparente allegorismo di molta arte contemporanea sia davvero tale, e se invece non vi si nasconda un’esigenza simbolica. Altri simboli, beninteso, o simboli d’Altro. (Nel suo Perdita del centro, Hans Sedlmayr non volle o non poté vedere questo genere di simbologia, nell’arte dal ‘700 in poi, e per questo la condannò senza possibilità d’appello).
È in questione una possibile consustanzialità del fare artistico e del cristallizzarsi simbolico. Concrezione segreta ed enigmatica, in quanto nell’odierno moltiplicarsi dei punti di vista accessibili (o necessari) anche l’opera intenzionalmente simbolica fa segno a una molteplicità di sensi, esibendosi così come allegorica suo malgrado.
Il rapporto fra arte contemporanea e indisponibile trova un inciampo nel carattere tendenzialmente autoreferenziale che l’arte è andata assumendo nel suo percorso verso la compiuta autonomia. Si tratta di un’autoreferenzialità connessa all’enfasi sulla possibile componente metalinguistica dell’arte. In questo orizzonte interpretativo, a lungo dominante, l’arte sarebbe propriamente invenzione d’un nuovo linguaggio, o metalinguaggio, oppure sagacia metalinguistica di ricomposizione di totalità o di frammenti di linguaggi già esistenti, con esiti sostanzialmente autoreferenziali.
L’artista sarebbe un bricoleur, e la sua creatività si manifesterebbe essenzialmente nell’escogitazione dell’ennesimo metalinguaggio e/o di varianti rispetto a metalinguaggi già attuati. L’attitudine para-scientista di queste concezioni ci illuse, un tempo.
Per contrasto, risulta inattualmente attuale l’ammonimento che, indirettamente, proviene dagli studi di Henri Corbin sul mundus imaginalis, ovvero sulla nozione secondo la quale alcune immagini esistano oggettivamente in un “terzo regno”, distinto dalla dimensione della mera materialità e da quella della spiritualità, incorporea e dunque priva di forma visibile. Siamo all’opposto dell’allegorismo: l’immagine non sarebbe affatto metalinguaggio, bensì perfetta adeguazione a ciò di cui è immagine.
Ci insegna Pavel Florenskij: l’icona non si riferisce a una figura della Storia Sacra, ma in un certo senso lo è, per enigma. Ne è Presenza, non rappresentazione allegorica della sua assenza.
Si tratta di un’idea-limite. Ne ravvisiamo analogie nelle intenzioni se non negli esiti di alcuni protagonisti dell’Avanguardia Storica: nel Malevic suprematista, ad esempio, o nel Mondrian neoplastico.
Un secolo dopo, nel pieno del travolgente tsunami dell’immagine digitale, cosa può esserne, di quell’idea-limite? È forse un nostro compito, tentare una risposta?
Se lo è, certo il Grande Cretto di Alberto Burri può aiutarci a cercare qualche frammento di risposta. Il Grande Cretto: un’icona, lì sulle invisibili ma presenti rovine della vecchia Gibellina.