Carla Lonzi dall'Archivio Carla Lonzi Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea

Carla Lonzi (e Carla Accardi): “Autoritratto”

Alcune suggestioni rilevanti sul rapporto fra arte e critica possono scaturire dalla rilettura di un testo prezioso di Carla Lonzi (Firenze 1931 – Milano 1982): Autoritratto. Accardi, Alviani, Castellani, Consagra, Fabro, Fontana, Kounellis, Nigro, Paolini, Pascali, Rotella, Scarpitta, Turcato, Twombly. (Farò riferimento all’edizione originale, De Donato, Bari 1969. Il libro successivamente è stato pubblicato da et al., 2010 e da Abscondita, 2019). In questo intervento mi limiterò comunque ad accennare ad alcune argomentazioni di Lonzi e di Carla Accardi (Trapani 1924 – Roma 2014).

Si tratta di uno dei testi davvero essenziali per la comprensione dell’arte contemporanea. In effetti, in alcuni passaggi si avvertono preannunci, diciamo così, del versante femminista dell’attività di Lonzi e Accardi, spesso caratterizzata dalla collaborazione con Elvira Banotti. Ma non ne parlerò, concentrandomi invece su alcune peculiarità del loro rapporto con l’operatività artistica. Infatti, uno dei centri di questo testo, fortemente eterodosso e per così dire centrifugo, è il rifiuto di considerare l’arte come produzione di qualcosa di finito, l’opera, con cui rapportarsi in un movimento di mera comprensione interpretativa o su cui far oscillare la scure del giudizio critico. Pur confrontandosi con alcuni fra i più “strutturati” produttori di opere, il libro sembra distogliere lo sguardo dai risultati ottenuti, le opere compiute, mettendo in questione sistematicamente l’aspetto operativo dell’attività artistica.

Si tratta di una caratteristica che di per sé non sorprende, in quanto in linea con lo spirito dei tempi, gli anni Sessanta. Eppure Autoritratto si stacca decisamente da altri testi di quegli anni (e dei seguenti), non solo per la costante presa di distanze dalla nozione d’una critica d’arte “strumento del sistema”, non solo per il rifiuto di trattare l’arte come mero accrescimento del museo immaginario delle opere, non solo per la ricerca di un punto di vista interpretativo considerato più autentico e più libero (punto di vista peraltro totalizzante, che verrà individuato successivamente da Lonzi, Banotti e Accardi nel Manifesto di Rivolta Femminile, del 1970, e nei testi di Lonzi Sputiamo su Hegel, sempre del 1970 e La donna clitoridea e la donna vaginale del 1971). Il distacco, evidente non appena si comincia a leggere il libro, dipende dalla tecnica mediante cui il libro si è composto – “composto da sé”, per così dire. Il libro non è scritto da Carla Lonzi; il libro è il risultato di una sorta di performance (diremmo oggi, col privilegio della prospettiva storica) condotta da Carla Lonzi intervistando alcuni artisti e registrando le sue e le loro parole.

Tale peculiarità è subita dichiarata nella Premessa: “Questo libro è nato dalla raccolta e dal montaggio [corsivo mio, G. F.] di discorsi fatti con alcuni artisti. Ma i discorsi non sono nati come materiale di un libro: essi rispondono meno al bisogno di capire che al bisogno di intrattenersi con qualcuno in modo largamente comunicativo e umanamente soddisfacente. L’opera d’arte è stata da me sentita, a un certo punto, come una possibilità d’incontro, come un invito a partecipare rivolto dagli artisti direttamente a ciascuno di noi” (p. 5).

La nozione di una possibilità d’incontro mette immediatamente in crisi il consueto rapporto fra opera e interprete, soprattutto se l’interprete ha la pretesa (autoritaria, viene continuamente ribadito nel libro) di sedimentarla come giudizio critico, come composizione di una scala di valori. 

L’“autoritratto” che Lonzi tenta di tracciare di sé mediante Autoritratto è una rarissima operazione di autoanalisi di una soggettività critica, consapevole dei rischi connessi alla falsa coscienza di chi si pone in partenza in una posizione di superiorità rispetto alle opere e agli artisti. Rarissima testimonianza, e spietata: “Il critico ha delle componenti psicologiche di disagio, come un senso di estromissione” (p. 45). E dice Lonzi citando Consagra: “ma chi sono i critici? della gente che viene e sta e sulla porta… ma non è mai entrata dentro, dunque ti dà quello che ti può dare…” (p. 261). 

La difficoltà del discorso di Lonzi sulla critica è legata anche alla situazione incresciosa di chi intende fare chiarezza sugli aspetti specifici di una conquista che solo pochi considerano tale (il territorio di enorme libertà aperto dall’arte contemporanea) anche a costo di rifiutare le posizioni di chi per altri versi intenderebbe difendere quella stessa conquista. Esemplare in questo senso la costante disapprovazione dell’atteggiamento critico di Giulio Carlo Argan. L’arte come “istituzione” è uno degli idoli polemici di Lonzi: “Quando la cultura dà le garanzie del caso, si presenta come un’istituzione in cui vengono spiegati i processi, in cui la cosa si dimostra, si capisce che sarà più allettante per chi fino allora l’aveva pensata in modo mitico, ma, nello stesso tempo, c’è un’altra mistificazione, se vuoi, che è appunto quella di darle una faccia sociale. Di creare proprio il mestiere dell’artista […] Però il problema dell’arte è sempre un problema della vita, non è un problema della cultura, mi spiego?” (p. 203).

Fatto è che per Lonzi l’operatività artistica ha a che fare con un’esperienza che definisce iniziazione. Si intuisce: è una definizione provvisoria, e insoddisfacente anche per la stessa Lonzi. In linguaggio esistenzialistico, forse potremmo dire: riconoscimento della presenza

“Allora io, da questa mia sensazione esistenziale, ho cominciato a cercare, essendo sicura che da qualche parte doveva essere stata espressa, si doveva essere manifestata, una potenzialità che sentivo che l’umanità aveva. […] Senza di che mi consideravo, diciamo, una persona alla frontiera, che non era entrata nel paese, ma insomma, sapeva che questo paese esisteva e certamente ho avuto anche dei periodi che ho detto ‘qui alla frontiera ci passerò tutta la vita’. Allora ho pensato che, per trovare questa via, occorresse fare dei gesti che sconquassassero un po’ l’ambiente che mi chiudeva, e questi gesti li ho fatti, uno dopo l’altro, ecco. Poi ho capito che a questi gesti corrispondevano delle iniziazioni, per così dire” (p. 42).

La presenza di Carla Accardi in Autoritratto è alquanto limitata. Tuttavia il libro non è effettivamente comprensibile se non si tiene presente che il sodalizio fra Accardi e Lonzi sembra dipanarsi come un rapporto fra “sorelle”, con la più anziana Accardi che fa quasi da controcanto alle posizioni talvolta un po’ astratte di Lonzi. Una vena di scetticismo percorre le argomentazioni di Accardi, perfino in riferimento all’operazione ardita proposta dal libro. 

“Quando uno vuole fare un libro così, dovrebbe arrivare addirittura a metterci tanto di se stesso, che fosse una parte della sua vita, capisci? Tu non lo potrai mai fare, Carla, come lo vuoi tu, sai, te lo dico, scusami… Non so, se lo metti a livello creativo, sì… Adesso, è uno sforzo fortissimo quello che tu ti proponi, mi sembra, perché, come persona creativa, ci dovresti mettere proprio come tu sei in certi momenti della tua vita, capito? Come fai? (p. 23)”.

Con un atteggiamento che può apparirci complementare a quello di Lonzi, Accardi ragiona assai ellitticamente della propria produzione artistica.Non discute (se non quasi incidentalmente) di immagini, di gestualità, di superfici, di forme e fondo, insomma di quanto in quegli anni appariva consentaneo alle problematiche della pittura. Parla di vita. Si consideri ad esempio uno dei passi in cui più direttamente si riferisce alla propria produzione, in particolare a quella realizzata avendo come supporto il materiale plastico trasparente sicofoil, e di cui la Tenda del 1965-66 appare l’esempio più famoso. 

“L’idea della tenda è stata sollecitata da un pensiero, che mi era venuto, quando mi hai mostrato quelle immagini delle tende turche del Museo di Cracovia. Mi ha suggestionato l’idea che quelle tende, così belle, i turchi se le portavano nei loro viaggi, guerre, per piantarseli, poi, in momenti che io immaginavo molto difficoltosi. Mi è sembrato un atto estetico puro. Allora io, l’altro giorno, quando siete venuti a studio, ho detto: ‘sto facendo soltanto una cosa estetica’. Mi sentivo nella posizione di chi fa un prodotto bello che non serve a niente, da guardare e basta, e mi sembrava che lì, in quel momento, non succedesse niente, rispetto a un giovane, mettiamo, che fa una ricerca in un campo che tu non hai pensato. […] Allora, quelli che dicono: ‘ah, la Accardi si sta perdendo con le plastiche…’, ‘figurati, ti perdi tu’ dico io. Ho il diritto di fare il gesto più qualsiasi, più semplice, di sperimentare se, facendolo io, ogni giorno, cercando di vivere in modo non volgare e levando tutto intorno, questo, poi, resta” (pp. 296-7).

Il bisogno di uscire dai recinti dei discorsi specialistici, accogliendo le intuizioni di un rapporto arte-vita del tutto liberatorio e perfino in qualche modo oltranzista, si percepisce chiaramente (sebbene Accardi dichiari di preferire il “dire senza dire”) in riferimenti inattesi al rapporto uomo-donna, anche in senso erotico. Accardi sembra avere chiarissimo il punto: si tratta di lotte (critico-artista, uomo-donna, ecc.) e la questione è quella del potere. Direi: chi ha la delega, e per fare cosa? E come sfuggire all’eterna strumentalizzazione presente anche in un ambito come quello artistico, che pure vorrebbe porsi come “puro”, idealizzato, ma che forse in effetti è sublimato (termine che nel libro ricorre più volte), in senso negativo, come ambito di rimozione e fraintendimento.

E certo non è per caso (e non soltanto come suggello di una solidarietà profonda) se Carla Lonzi decide di chiudere Autoritratto, il “montaggio” di interviste, con le parole di Carla Accardi. Parole che prima tematizzano la felicità. “Tu dicevi giustamente ‘però, io sono un tipo che ama molto assicurarsi una parte di felicità’. Allora, ho pensato ‘questo è giusto’: perché una donna, se deve cambiare metodologia, deve sempre avere presente il fatto che sta lottando, però, per potere godere di una parte di felicità” (p. 394). 

Infine, nelle parole di Accardi con cui si chiude Autoritratto risuona una protesta contro l’unidimensionalità del vivere: rischio che coinvolge anche chi fa critica, anche chi fa arte. Giacché, ricordiamolo, “il problema dell’arte è sempre un problema della vita”.

[Questo testo è la versione ridotta di uno scritto in corso di pubblicazione in Le Donne e l’ArteAtti delle Giornate Internazionali di Studi, Catania 2020 / Bronte 2023, Edizioni Quasar Roma].