Baldurs Gate III

Mnemosyne 3.0? Una riflessione su immagini e videogiochi

Una recente proposta del prestigioso Warburg Institute di Londra suggerisce alcune riflessioni sullo statuto odierno delle immagini.

Un articolo apparso qualche giorno fa sul blog del prestigioso Warburg Institute, cioè Video Games and Images of Power at the Warburg Institute, scritto da Rita Aloy-Ricart, ripropone alcune questioni da un paio d’anni forse alquanto trascurate – di là dallo specifico tema affrontato dalla studiosa.

Il sito del Warburg Institute

Nel corso degli anni Zero e negli anni Dieci il videogioco è stato oggetto di teorizzazioni stimolanti, capaci peraltro di aprire prospettive di studio anche in ambiti più tradizionali: l’esempio più chiaro è legato alle ricerche sul tema del “potere delle immagini” (il riferimento al titolo del libro di David Freedberg trova la sua pertinenza non nel riferimento ai videogiochi, ma nell’essere stato Freedberg Direttore del Warburg Institute). Si attuava in altri termini una certa qual convergenza fra alcune ricerche sui videogiochi e gli studi sulla “cultura visuale” e sul pictorial turn, a partire da W. J. T. Mitchell e di altri studiosi come Gottfried Boehm, John Berger, Georges Didi-Huberman. (Beninteso, la convergenza riguardava soprattutto gli studi meno orientati a riconoscere la “specificità del medium videogioco” nel cosiddetto gameplay; interpretazione che finiva con lo svalutare l’importanza della narrazione nonché delle tipologie di visualizzazione).

Sarebbe auspicabile un’intensificazione dei rapporti fra ambiti accademici diversi, nonché fra gli studi dedicati alle produzioni tradizionalmente considerate “alte” e quelli orientati invece alla comprensione delle dinamiche culturali attive nelle produzioni destinate al largo consumo. Del resto, ricorda Michele Cometa in Cultura Visuale. Una genealogia, “La visual culture studia gli aspetti culturali di tutto ciò che ha a che fare con l’esperienza visuale: dalla storia della percezione ai media, dalle immagini alle istituzioni che le veicolano”. 

Non è in questione solo l’arte. Le ricerche ormai classiche di Aby Warburg (1866 – 1929) intendevano seguire la storia delle immagini proprio nel riconoscimento delle ibridazioni fra destinazioni differenti delle immagini stesse, ampliando l’ambito di interesse includendovi anche materiali prima tralasciati: la “sopravvivenza delle immagini” non si attua, secondo Warburg, soltanto mediante il gioco delle influenze e delle citazioni più o meno consapevoli emergenti nell’attività artistica, ma in modi multiformi e sfuggenti anche nella produzione di immagini di basso profilo, di consumo, dalle pretese meno altisonanti. Lo dimostra l’incompiuto capolavoro di Warburg, ovvero Mnemosyne, l’idealtipo degli atlanti culturali e visivi.

Senza dubbio la situazione è radicalmente mutata, rispetto al campo visuale disponibile a Warburg e ai suoi immediati continuatori. Le immagini sono dovunque. E veicolano agli osservatori la loro parziale estraneità, derivante dall’essere motivate da intenzioni di senso che gli osservatori stessi non conoscono. In questo senso, un’attenzione specifica (e fornita di strumenti interpretativi adeguati) alle immagini dei videogiochi risulta irrinunciabile, come parte del “pensare la nostra epoca”.

Rispetto alle immagini presenti in altri ambiti, le immagini dei videogiochi risultano dotate di una specificità, connessa alle dinamiche essenziali dei videogiochi (di tutti i videogiochi, di là dai “generi”). Laddove usualmente le immagini sono osservate come elementi più o meno significativi che si propongono alla visione restando tuttavia in un certo senso “separati” (se non addirittura caratterizzati dall’imposizione di una certa passività dell’osservatore), le immagini dei videogiochi fanno parte di un “sistema” in cui viceversa è essenziale il protagonismo dei giocatori. In altri termini, le immagini dei videogiochi sconfinano dalla dimensione estetica, configurandosi come strumenti dell’attività del giocatore. L’ambito relativamente nuovo che così si determina è una sorta di terra di nessuno ancora in gran parte inesplorata; si va strutturando una situazione che tende ad assomigliare a qualcosa sognato dall’Avanguardia, ovvero una confluenza fra arte e vita (sebbene in una “realizzazione pervertita” – come, secondo Gianni Vattimo, si realizzano alcune utopie della modernità).

Le immagini dei videogiochi non sono “soltanto” da guardare, nel confronto col loro quanto di esteticità nonché di significato, bensì si pongono come inedita e perfino inquietante “parte della vita” del giocatore. E, se non della vita, almeno della sua “avventura”. La sua, non quella raccontata da chi ha realizzato il gioco: l’“avventura”, per così dire, vissuta dal giocatore giocando. (Mi si permetta di rinviare qui alla Terza parte del mio Nuvole sul grattacielo. Saggio sull’apocalisse estetica). 

Questo peculiare “uso” delle immagini (quindi lo slittamento possibile del loro “potere” e dei loro significati) nell’ambito di una pratica diffusissima come è da alcuni anni quella dei videogiochi si attua d’altra parte in una situazione ormai consolidata, in cui la disintermediazione ha trasformato sempre più gli “osservatori” delle immagini (il loro “pubblico”) in “produttori”, alle prese con la potenza caotica della “postfotografia” e con lo sfaldamento del valore indessicale delle immagini dovuto al capillare diffondersi dei software di AI. Qualcuno potrebbe dire: il “vecchio” statuto delle immagini muore e il “nuovo” ancora non è nato – con le opportunità e i rischi di questo genere di situazioni. Occorre allestire un grande atlante Mnemosyne 3.0? Oppure ci siamo già “dentro”?