Santana a Woodstock 1969

Fenomenologia del Solaris. I. Musica: comunità e individualismo

Solaris. Arte, vita, media. Il titolo di questa rubrica accenna a qualcosa di controintuitivo, qualcosa di sfuggente e perfino inafferrabile. Nel sommario della rubrica ho indicato alcuni tratti del Solaris (nozione che ho iniziato a elaborare in Nuvole sul grattacielo. Saggio sull’apocalisse estetica, Quodlibet 2022).

[Per comodità di lettura lo ripeto qui. “Immaginato da Stanislaw Lem nel romanzo omonimo del 1961 (poi raccontato nel film di Andrej Tarkovskij, 1971, e nel remake di Steven Soderbergh, 2002), il pianeta Solaris è abitato da un’entità enigmatica in grado di materializzare sogni e desideri inconsci. Metaforicamente, allora, Solaris è il nome del nostro mondo ‘postcontemporaneo’, in cui l’apparente razionalità dei dispositivi si è in effetti strutturata in una diffusa ‘crisi della presenza’. Alla crisi si reagisce con attitudini espressive, neo-mitiche, mescolando gli ambiti della vita, della pratica estetica, del confronto con i media. Il Solaris è perciò affascinante e inquietante. È lo spettacolo di qualsiasi cosa, destinato a qualunque spettatore nonché allo spettatore qualunque. Ma non è solo uno spettacolo, né soltanto una rete di spettacoli. Giacché il Solaris cresce col nostro contributo. Ci vampirizza. Ci trasforma in potenziali artisti, produttori, performer. Il Solaris ha innumerevoli autori: noi”].

Il Solaris è strutturato in “molti modi”; ha a che fare con le narrazioni, con le immagini, con la musica, con le performance, con i miti, e via enumerando. Proporrò qualche considerazione su aspetti del Solaris di cui non mi sono ancora occupato, o a cui finora ho solo accennato. Qui, in particolare, farò riferimento ad alcune tipologie di musica “di consumo”. In questione sarà soprattutto la differenza fra produzione e ricezione di materiali estetici in vista della simbolizzazione di legami comunitari e/o identitari (Primo stato estetico) o con intenti artistico-interpretativi (Secondo stato estetico) oppure orientate a un autoriconoscimento immediato (Terzo stato estetico).

Comincerò notando un dettaglio. Il primo album dei King Crimson (1969), In the Court of the Crimson King, aveva un sottotitolo: An Observation by King Crimson. In effetti quel sottotitolo marcava una peculiarità dell’atteggiamento non solo dei King Crimson ma, complessivamente, di quanto poi fu definito maldestramente progressive rock, o prog rock, o prog. Un atteggiamento profondamente diverso da quello caratteristico di altre proposte musicali. Contrapporrò infatti all’osservazione la partecipazione, esemplificandola con la performance della band di Carlos Santana al Festival di Woodstock, dello stesso 1969. Il brano Soul sacrifice aveva come esplicita intenzione il far sentire gli spettatori come appartenenti a una, diciamo così, “quasi-comunità”: contrassegno del parziale sentirsi-comunità era ovviamente il muoversi (battere le mani o i piedi, danzare, ecc.). In Soul sacrifice emergeva evidente l’implicazione mitico-rituale pur sempre connessa appunto a certi gesti – se non al gesto in genere. D’altra parte, non a caso la fase acuta di rifiuto collettivo del prog, alla fine degli anni Settanta, ovvero il punk, nel suo ribellismo tendenzialmente solipsistico focalizzò invece l’aspetto individuale del muoversi, poi trasformato nello spingersi forsennato sotto il palco (il “pogare”), incuranti. La comunità diventava mera compresenza, mera reazione “privata benché pubblica” allo stimolo musicale, non a caso ridotto al minimo/massimo (minimo di complessità armonica, massimo volume). L’implicazione mitica in quel caso aveva a che fare con l’intento di concentrarsi sull’esperienza del momento, nell’assenza di aspettative rispetto al futuro: intenzione esibita sinteticamente dal passaggio dalla nozione di new wave a quella di no wave (cioè no future).

L’altro atteggiamento da contrapporre al prog è ovviamente quello più diffuso: l’ascolto per così dire spensierato di musiche in partenza innocue, quasi sempre in forma “canzone”, con armonizzazioni prive di dissonanze inattese, insomma “anestetiche”. (Incidentalmente noterò che a questo ascolto decerebrato alludeva Manlio Sgalambro nel suo problematico sebbene non dialettico saggio Teoria della canzone, 1997). È da ricordare, del resto, che la “fruizione” anestetizzante delle mille tipologie di musichette (dalle canzonette alla muzak, “musica da supermercato”) accompagna con prepotenza invasiva la vicenda delle società contemporanee. Fenomeni come il prog e perfino come il punk (poi il grunge, ecc.) sono stati pur sempre minoritari – sebbene apprezzati e promossi da minoranze in grado di far sentire la propria voce.

Ma torniamo al dettaglio iniziale. Il sottotitolo An Observation by King Crimson suggeriva: quanto ascolterete è una osservazione. Cosa si intendeva? In primo luogo, ovviamente, si faceva riferimento alla nozione di interpretazione. I musicisti prog (ripeto: propongo il primo LP dei King Crimson solo come punto di partenza) si riservavano il diritto di interpretare. Anzi, forse avvertivano il dovere di farlo. Attenzione: laddove la canzone tradizionalmente esprime, il prog voleva interpretare. Al contrario, la musica partecipativo-comunitaria spinge a un estremo l’intenzione espressiva, facendola diventare qualcosa di cogente, necessariamente condiviso. 

L’interpretazione, a volte dei propri stati d’animo ma più spesso di situazioni “del mondo”, richiede ovviamente un distacco. Persino un distacco “critico”. Il prog osservava e interpretava. Rispetto agli ascoltatori manifestava la volontà di mostrare quanto si era visto e interpretato – una volontà che talvolta si spingeva a una venatura didattica persino grottesca nella propria seriosità.

Il distacco in questione si manifestava in primo luogo, e in modi eclatanti, nei testi dei brani. Notoriamente, predominavano i racconti metaforici, non di rado di orientamento fantasy. Racconti spesso arzigogolati, criptici, pieni d’allusioni a un Altrove non dichiarato chiaramente. (Da qui la frequenza con cui quei brani furono poi additati come portatori di significati esoterici poco raccomandabili). Racconti, in ogni modo. Laddove in altre modalità della musica del Solaris predomina la mimesi, il prog proponeva un distacco quasi sempre configurato come il racconto di una “osservazione” cioè di una interpretazione. Esemplificherò il versante mimetico (oltre tutto assolutamente preponderante) della musica del Solaris con la notissima Whole lotta love dei Led Zeppelin: né più né meno, si trattava di un tentativo di mimesi di un coito. In un senso assai diverso e persino opposto, la componente mimetica si manifesta nelle mille e mille canzonette sentimentali in cui si configura la mimesi d’un sentimento, diciamo così.

Il prog aveva a che fare col racconto di un’osservazione. Da qui il suo legame inscindibile con la performance, se non col teatro. È stato notato molte volte che il prog proponeva brani che sembravano reclamare una messa in scena; brani che apparivano “colonne sonore” di possibili spettacoli. In altri termini, la nozione di “osservazione” implicava il richiamo a una qualche forma di visualizzazione.

L’esperienza sonora ma implicitamente visuale era evidente (sebbene nascosta) nella situazione specifica dell’ascolto prog. Un ascolto il cui idealtipo consisteva nell’uso di una cuffia collegata a un impianto Hi-Fi, con l’ascoltatore fermo a fantasticare

L’ascoltatore prog fantasticava: cioè era immerso in una esperienza visuale (la fantasticheria) o almeno pre-visuale, per così dire. In un certo senso si trattava di un’esperienza “kantiana“: gli stimoli sonori producevano qualcosa come il fantasticare di una comunità al momento assente, ma a cui ci si sentiva destinati…

Dal punto di vista dei testi, il coinvolgimento visuale sottinteso dai “racconti cantati“ trovò notoriamente un climax nelle proposte del primo Peter Gabriel: coerentemente, le sue esibizioni con i Genesis si configuravano come performance para-teatrali. (Del resto, la vicenda di un brano dei Genesis mostra con evidenza il possibile passaggio a una funzione espressivo-comunitaria: I Know What I Like (In Your Wardrobe), cantato da Gabriel imitando i gesti di qualcuno che usa una falciatrice, con amaro sarcasmo anti-piccoloborghese, divenne poi un cavallo di battaglia di Phil Collins, che si esibiva in una specie di autoreferenziale “danza col tamburello”, ammiccante alle aspettative dei fan che in quella pantomima si riconoscevano come tali).

[I. Continua].