Rieccoci insieme, pronti a sorridere su fatti e personaggi, a cogliere di essi con un pizzico di ironia, ma mai con cattiveria, debolezze e lati divertenti.
Avrete, mi auguro, in questo mese di giugno sentito la mancanza di Tanatiello anche se voi stessi, in perfetto clima vacanziero, tra un Assange da condannare (definitivamente) e un’altra guerra da completare, avrete aguzzato occhi e orecchie alla ricerca del pizzico di maldicenza artistica, che fa tanto “chiacchierata”. In una civiltà, e in un’epoca, come la nostra, caratterizzata dalla diffusione estesa del digitale e dell’algoritmo di forme nuove e diverse, di spettacoli e di divertimento, la performance di Pulcinella ha finito per perdere il fascino trasgressivo e il favore popolare di un tempo. Se, tuttavia, nelle città il teatro e la commedia – ormai – si sono ridotti ad occasione di scherzi pesanti da «social», o addirittura di azioni teppistiche, tutt’al più a ricorrenza priva di particolari significati, nelle frontiere folkloriche della nuova etno-avanguardia, la Maschera di Pulcinella fa riemergere ancora oggi, seppure in limiti ben definiti, le dimensioni e il carattere di catarsi collettiva, di performance antica e aporetica, in grado di sollecitare e promuovere «un’ampia esclusione popolare». Le ragioni del perdurante favore che le manifestazioni pulcinellesche incontrano, presso le pratiche dell’invisibile teatrale, segnatamente tra gli strati popolari occulti, i ceti post-contadini, le comunità contraddittorie delle zone interne, vanno individuate non soltanto nel carattere di nuova contraddizione che esse conservano, ma anche nella fotografia culturale che esprimono e fanno affiorare in vita. L’artista non smette di scacciare quello che egli è, quello che prova ad essere al di là della maschera, quello che la simulazione significa ai propri occhi: sia che questo accada con il teatro della politica, il quale ha una funzione di spurgo mediale; sia che ciò capiti con tutti i marchingegni di rappresentazione che egli ha inventato, e all’orizzonte dei quali sta sparendo, in un processo irreversibile di transfert e di sostituzione. I tecnologi moderni considerano le reti delle estensioni del teatro politico dei media; bisognerebbe piuttosto ritenerli, con rammarico, delle espulsioni dell’antropologia. Il termine acting-out riassume nel modo migliore questa specie di strategia, che tende a sbarazzarsi dei Pulcinella che sono in noi, e probabilmente di se stessi, in primo luogo. In un periodo storico violento e attuale (diciamo quello tra le recessioni dell’inizio del 2000 e i giorni nostri) la microstoria irrompe nell’ombra delle sedicenze immaginarie. È l’età della latitanza dei Pulcinella e della storia dei “Buffoni veri”. Oggi nei media irrompe la sparizione di Pulcinella: la posta storica di questo animale antropologico, scacciato dalla nostra vita attraverso quella neutralizzazione gigantesca chiamata coesistenza simulata, a livello quotidiano. Questa storia, esorcizzata da una società in via di compressione totale, festeggia sugli schermi la morte e la resurrezione del piccolo Polichiniello; allo stesso modo in cui, un tempo, lo stesso teatro vi faceva rivivere i miti perduti. La coscienza della morte di Pulcinella è per l’antropologia una forma di consapevolezza falsa ed errante. Quest’ultima presenta molteplici sfumature e gradi di sviluppo. Nella visione della perdita di Pulcinella, lo storico parlava della classica sequenza formale della falsa coscienza: realismo fiabesco, aporia consacrata e ideologia del falso, laddove l’elemento più innocuo è rappresentato dalla Menzogna. Il bugiardo falsificatore di Pulcinella che manipola la verità storica dei suoi contemporanei crede di conoscere i modi di comunicare il falso; agendo in tal modo, si ripromette determinati vantaggi in un mondo che, dal suo punto strategico, è ancora nel perfetto NOM (Nuovo Ordine Mondiale). Il successo della verità mediale ha tuttavia un effetto proto-suggestivo nel suo stesso apparato di simulazione, generando un vortice, al quale il fagocitatore del contraffattore e dell’estintore di Pulcinella non può alla lunga sottrarsi dai suoi impegni criminali. Chi costruisce gli apparati di simulazione, da un certo momento in poi, ridimensiona l’orizzonte antropologico della verità, cercando di credere alle sue stesse invenzioni. Quando l’autoinganno prende il sopravvento, nasce l’autentica memoria della maschera, il teatro di suggestione dei new-media. Quest’ultima architettura è talmente simile all’orrore della catastrofe (l’altra figura della falsa politica della rappresentazione) da poter essere confusa con il Colosseo della morte digitale. Chi inventa la maschera e simula il comportamento di Pulcinella è infatti al tempo stesso simulato. Cade insomma la distinzione tra chi imita e chi subisce l’imitazione: di fronte alla morte e alla nostalgia della maschera siamo tutti livellati, ovvero tutti parimenti orfani di Pulcinella. Un aggiustamento è sempre passibile di correzione nervosa, isterica, poiché chi lo inscena lo costruisce senza una vera azione e non scende a compromessi con i bisogni umani. Diverso è il discorso, per quanto riguarda l’ideologia dell’inganno. La fonderia del gioco antropologico si basa sull’accordo tra imitatori e artisti, artigiani e progettisti del Nulla, e in essa la produzione di idola fori converge con la domanda di illusioni edificanti. È questo, il mercato meglio simulato dall’era moderna, e fino a poco tempo fa funzionava alla perfezione: creare buffoni politici al posto di maschere, Accademie fittizie con Collegi Docenti interni ai Funeral Home, o Pulcinella Barocchi per Bancarelle di Balocchi; simulazioni di liberali al posto di sereni teatranti allenati sul ring dei Tiepolo. Le modalità di svolgimento dell’imitazione della Maschera, infatti, sotto una forma scherzosa, rappresentano processi complessi e rinviano ad antiche forme rituali, sostituite da nuove forme politiche, bordelli finanziari, trust violenti al posto di espiazioni del male. Da una parte e dall’altra, di occultamento e nascondimento di una protesta popolare di natura sociale, economica e morale che in un contesto oggettivamente repressivo può trovare spazio e voce soltanto in occasioni determinate, come la Festa dei Gigli di Nola, appunto, e con espedienti giocosi e prudenti insieme – travestimenti tipici di Pulcinella – per il cui tramite l’opposizione sociale, il contrasto di classe si rivela, ma assume nello stesso tempo le dimensioni smussate e ritagliate del gioco innocente ed eccezionale. Le performance di Pulcinella svelano dunque il volto antico della cultura alternativa popolare, contadina e metropolitana, ricoperta tuttavia da una maschera che ne riveste la carica contestativa e, in ultima analisi, ne riconferma la soggezione, l’integrazione ai valori delle classi dominanti. Luci ed ombre, pertanto, nella Performance e nella Memoria Commediante, significati contraddittori che vanno, comunque, colti nella loro dimensione storica. E recuperati, e salvaguardati, con rispettosa attenzione, come patrimonio originale, unico e irripetibile, della cultura popolare: “… il folklorico, si pone come spazio per la protesta; esso svolge, quindi, una funzione contestativa, che ricerche specifiche potrebbero caratterizzare meglio, fissandone modalità e limiti. […] … il teatro folklorico, proprio perché canalizza la protesta entro alcuni schemi culturali predeterminati, la gestisce, la inserisce in un orizzonte al di là della storia, la risolve conferendole uno sbocco sul piano dell’immaginario” (Luigi M. Lombardi Satriani, in La voce della Campania, 7.3, 1976). Ma il fatto è che nella visione il pensiero tace: la visione la si incontra sempre in un momento di vuoto storico, proprio quando il nostro sguardo non è puntato su niente: essa appare allorché il pensiero che cerca Pulcinella rimane interdetto e noi ci teniamo distanti dalle nostre stesse teatralità. Ebbene che cosa comporta una simile esperienza al di qua del ricordo? Che cos’è che sfugge qui al discorso che cerca Pulcinella, al linguaggio della Maschera e del Guitto? Un desiderio improvviso, sublime, qualcosa che affiora durante una festa e che ha a che fare col canto del popolo mancante, la voce del Padre che ha accompagnato il suo Pulcinellino allo spettacolo dei Saltinbanchi, nel linguaggio dei gesti e dei deliri.
Così distrattamente Polichiniello ha notato per voi le magliette, le canottiere e gli asciugamani per la Festa dei Gigli di Nola, l’aria perennemente anonima e «provolonesca» di Alfred Jarry, lo sguardo sempre perso del suo ammirato apologismo, l’intramontabile aria da playboy di Emilio Villa, l’humour inattaccabile del costruttore Luca, buongustaio e pastaiolo contento nonostante la sua pancia, l’aria sempre pallida di Stelio Maria Martini cui fa buona compagnia il setto nasale di Luciano Caruso e di Antonio Neiwiller!
E dopo questa carrellata di impressioni amicali, eccoci nuovamente in città, anzi a Nola, dato il perdurare del tempo splendido che richiama ancora prepotentemente immagini di sole, di mare e di contado bruniano: Finnegans Wake! Ripiombati in pieno clima hinterland, con pericoli ad ogni angolo di strada, con traffico caotico e insopportabile (tanto per farci notare che nulla è mutato): sacro e profano, forse nulla più della Festa dei Gigli di Nola può racchiudere questi aspetti dell’essere che, a ben guardare, sono all’origine delle riflessioni di Pier Paolo Pasolini: «un universo reale dentro un universo che, rispetto ad esso, era irreale: anche se questo secondo in realtà rappresentava il logico corso della storia. Se così non fosse, il mondo napoletano popolare non avrebbe una tale vitalità e un tale prestigio da presentarsi addirittura come una tremenda alternativa: anche oggi, che l’alternativa è monopolizzata dalla coscienza di classe proletaria (che detesta i sottoproletari e quindi, borghesemente, le «culture popolari»), verso cui non ha mai espresso una politica decente» (Scritti corsari, Epoca/Garzanti 1975/1988, p.159). Che ne sarebbe oggi di tutti noi se Camillo e Carmela non si fossero incontrati e in un misticismo di sensi non avessero deciso che i due aspetti dovevano e potevano convivere: la gioia di Pulcinella sarebbe più banale e il dolore meno viscerale. Così a Nola ogni anno intorno al 22 giugno, e per una settimana, si celebra il miracolo di San Paolino, che in Oriente faceva crescere fiori e frutta prima del «tempo fissato». Paolino si era consegnato detenuto al posto di un fanciullo nolano, ma i barbari lo liberarono quando si accorsero di trovarsi davanti ad un santo. Nola arrivava allora fino all’odierna Torre del Greco, così i cittadini gli andarono incontro sulle rive del mare, recando tra le braccia prodotti dell’orto e del giardino, l’ortolano in testa. Il percorso, poi, fu conquistato dagli odori dei gigli, fiori del mese. Oggi le innocenti architetture a forma di giglio, otto fabbricazioni artigianali, più la barca, vengono portati a spalla a passo di danza, il cui ritmo diventa sempre più animato e insistente con il passare delle ore. Più di cento persone sorreggono ogni giglio, a latere ci sono il Comitato ed il ‘Mastro di Festa’ che si competono la preparazione del giglio dell’anno successivo come Pulcinellata finale. Infatti si può dire che Nola viva tutti i giorni in funzione di questa “commedia sociale” che ricorda il ‘mare a Nola’, come dicono lì sul posto. Gli uomini più forti sono chiamati per fare i portatori, quasi a collegare potenza, virilità e forma dei gigli, uno diverso dall’altro, quale barocco, quale liberty, quale simile a quelli in marmo delle piazze napoletane. Tutti a voler riprodurre l’ allegoria fallica. Il giglio, momento liberatorio degli affanni di Pulcinella, momento di propiziazione della mietitura, il campo che si smuove in un germoglio di giovinezza, di «riti polichiniellici». È la cultura contadina a regnare, ancora una volta il rapporto ininterrotto tra campo e i nostri sensi, il nostro bisogno di caldo e di commedia. Complici e conniventi i … santi, questi grandi saggi che ci hanno sempre offerto un aiuto. Non dovremmo stupirci, persone dei nostri tempi, alla lettura di una così disperata opera poetica qual è quella dell’acerrano Pulcinella. Molti secoli ci separano da questa molteplice esperienza: la solitudine di Pulcinella è mai stata spezzata? Eppure mai maschera si riconobbe forse con tanta povera e cruda immediatezza, e disperse in fervidi ritornelli e turpi rime l’ansia inappagata d’un insopportabile sdoppiamento politico, l’illusorio balenare di nuovi orizzonti al di sotto della catastrofe del teatro politico.
Isolata, e quanto mai sospetta agli occhi dei posteri, gli giunse la comprensione di colui ch’egli aveva aiutato da militante politico, e che adulto turbinosamente si diede a vivere quel mondo di inquietudini e di dissipazioni da lui cantato e vagheggiato e dai mestieranti parlamentari imitato e fagocitato. Pier Paolo Pasolini rivolgeva a questa maschera il suo pensiero nelle prime righe di un saggio sulle Lettere a Elisa (1906- 1911), di Salvatore Di Giacomo (a cura di E. Siciliano (Garzanti, 1973) e Abele De Blasio, La Camorra a Napoli ( 4 voll., ed. del Delfino, 1973)), scrivendo: “L’impurezza delle «strutture» della cultura popolare napoletana è fatta per scoraggiare uno strutturalista, che evidentemente, non ama la storia con la sua confusione. Una volta che egli abbia identificato le strutture di una società nella loro perfezione, egli ha esaurito le strutture, appunto, della cultura popolare napoletana. Un piccolo popolo chiuso da millenni o secoli nei suoi codici vive ancora, nell’accezione degli etnologi, in illo tempore: non ha stratificazioni; la convenzionalizzazione, rigidissima peraltro, dei rapporti sociali ha un solo strato: non sono concepibili, né previste, possibilità di infrazioni. Nelle manifestazioni espressive – canti, danze, riti ecc. – le invenzioni non implicano un’evoluzione dell’inventum. In una cultura popolare urbana, invece la storia della cultura dominante è intervenuta continuamente con violenza, imponendovi e depositandovi i suoi valori: la tipica astoricità della cultura popolare, che è essenzialmente «fissatrice», è stata così costretta a dei mutamenti incessanti: a cui essa, sistematicamente, ha dovuto applicare i caratteri della «fissazione» (Pier Paolo Pasolini, Gli uomini colti e la cultura popolare, in Scritti corsari, op.cit., p.156).
A Napoli, il simbolismo di Pulcinella varia secondo i suoi usi ma corrisponde ad una «fissazione», come dice Pasolini. I tipi principali dei fissati sono i Pulcinella teatrali che vanno al di là dei Tiepolo “Ubi fracassorium, ibi fuggitorium”. Il Pulcinella della commedia sociale è il tipo teatrale, il tipo carnevalesco, il soggetto funerario, usato in particolare dai provinciali. La Pulcinellata teatrale, che è anche quella delle danze sacre, è una modalità della manifestazione del sé universale che mette la pratica della fissazione contro l’apologia dell’anonimo fine a sé stesso. Generalmente, il soggetto che porta Pulcinella non è né modificato né stereotipato, e ciò significa, come dice Pasolini, la manifestazione di un’unica classe, di un Sé immutabile, che non è influenzato dalle sue manifestazioni contingenti. Sotto un altro aspetto invece, la modificazione è il fine stesso della rappresentazione, tramite l’adattamento dell’attore al ruolo e la sua identificazione alla manifestazione sociale raffigurata. Pulcinella, infatti, nei suoi aspetti irreali e animali, istintivi e popolari, è la Fissazione Divina e più particolarmente la faccia del sole, che si esprime tramite l’irraggiamento della luce inquieta, ribelle, indefinita. Così, quando ci viene detto che Pulcinella viene dall’hinterland, non si deve vedere ciò come un segno della civiltà, bensì l’oblio crescente del valore dell’allegoria.
Pulcinella esteriorizza talvolta anche delle tendenze ribelli, come avviene nel paradosso dei Pulcini e delle Pulci dove i due aspetti stanno fronte a fronte. Soprattutto nel caso delle Pulcinellate in illo tempore, l’aspetto inferiore, metabolico, si manifesta esclusivamente per essere espulso: è liberatorio, come lo era nelle antiche feste dei Gigli o dei Casali, corrispondenti al rinnovarsi dell’anno; egli opera una sorta di catarsi. Pulcinella non nasconde, ma al contrario rivela le tendenze inferiori, che devono essere messe in fuga; Pulcinella non si usa, né si manipola mai impunemente: è oggetto di criptiche rituali non soltanto presso i popoli nolani, ma anche in tutta la Campania, dove le Pulcinellate danzanti sono oggetto di speciali attenzioni perché, in caso contrario, sarebbero pericolose per chi le indossa.
La Pulcinellità è l’archetipo immutabile in cui si ritiene che la ribellione, la differenza si reintegri; tende anche, nota Pasolini, a trattenere nella sua esperienza l’eccezionalità, conservazione non priva di pericoli quando si tratta di una persona non ancora giunta a un certo grado di commedialità. Cos’è l’eredità del pensiero che abbiamo ricevuto e continuiamo a ricevere dall’opera di Pulcinella? Si tratta indubbiamente di una questione che riguarda l’accoglimento di un dono teatrale. Ma cosa è implicato nella ricezione di tale performance? Come dovremo accoglierlo? L’eredità del pensiero di un buffone della Commedia rimanda necessariamente ad una ricezione estremamente mediata. Ereditare il pensiero di una maschera significa abitare la sua vita, la vita della sua fissità e della sua gente, interrogare le sue esitazioni, i suoi dubbi, le sue curiosità, le sue passioni, i suoi più profondi «silenzi mimici» – raccogliere quanto rimane di impensato e portarlo avanti: metterlo sul proscenio della vita. L’eredità non è mai coincidenza, non è mai un punto fermo e neppure, proprio per questo, possesso. L’eredità dev’essere quel senso di gratitudine che consiste nel corrispondere a un pensiero con il dono del proprio scambio, assumendosi la responsabilità nei confronti di quei contenuti a cui quel pensiero è più profondamente connesso. L’unica vera eredità è, dunque, il dono dell’impensato, il vero tesoro che un grande buffone, un autentico buffone riesce a trasmettere: “A un certo momento la Maschera dei Napoletani e il loro Re Ferdinando si assomigliarono come in uno specchio. I dialoghi tra il Pulcinella Petito e Re Nasone dal palchetto erano fraterni anche fisiognomicamente. Giambattista della Porta avrebbe detto che il simbolo del popolo napoletano e il Re di Napoli si erano mimetizzati, identificandosi nell’attributo reale riconosciuto dagli scienziati fisionomisti” (Bragaglia, Pulcinella, Sansoni, Firenze,1953, poi in F. Ramondino e A.F. Muller, Dadapolis, Città Aperta, Einaudi, Torino, 1989, p. 49).
Da dove e come nasce la responsabilità del linguaggio popolare della commedia sociale, ossia la facoltà del linguaggio di Pulcinella di essere cor-rispondente alla fissità di cui parla Pier Paolo Pasolini? Il linguaggio nasce forse nella cor-rispondenza etica della commedia? Pulcinella ha quindi una propria vocazione alla dissidenza, all’ironia morale? L’origine che cerchiamo di recuperare è la voce dell’altro. Attraverso il recupero della dimensione prepersonale della nostra esperienza con la lingua parlata dal popolo: qui si rivela un altro soggetto, un soggetto che non è affatto quello della maschera. Ce lo ricorda ancora Pasolini in quell’articolo sulla cultura popolare: “Due anni fa in una bancarella di Porta Portese, un venditore ambulante napoletano ha venduto delle «carte vecchie» a un compratore colto. I venditori ambulanti che risalgono da Napoli a Porta Portese appartengono ancora, nei limiti del possibile, alla vecchia cultura popolare: nella loro testa la connessione dei pensieri, dei giudizi, delle valutazioni, dei rapporti sociali, obbedisce a regole di cui il borghese conosce solo la lettera e, naturalmente, il contingente culturale imposto dalla sua classe, almeno dal Seicento in poi, e con particolare riferimento agli ultimi decenni. Ad ogni modo il rapporto tra l’ambulante napoletano di Porta Portese e l’acquirente colto risulta tipico fino all’assolutezza: si tratta infatti della compravendita di un bene di equivoca provenienza. Il malandrino napoletano sarà rimasto sicuramente convinto di avere «fregato» il compratore «micco» che si interessa di carte vecchie; e il compratore sarà rimasto soddisfatto sia dell’acquisto eccezionale, sia del fatto di essersi comportato onestamente con quella «maschera» napoletana” (Pasolini, op.cit., p.157).
Nel pensiero dualista della Maschera, le danze dell’essere e dell’apparenza derivano tutte dal secondo gemello dell’altro, il Fratello di Pulcinella, che regna sulla drammaticità; presso questa sdoppiatura esistono due confraternite di maschere che appartengono alla grande strategia dell’unione popolare segreta. La loro funzione è essenzialmente terapeutica e esse provengono e guariscono tanto le malattie fisiche che quelle psichiche. Durante varie commedie, i Pulcinella rappresentano la creazione mancata, cioè ai punti di volta delle due metà del corso solare, cacciano le malattie dall’esistenza. La civiltà greca di Pulcinella ha conosciuto le maschere rituali delle cerimonie e delle espressioni di festa, le maschere teatrali e le maschere dell’indulto. Da quest’ultimo tipo di Pulcinella, raffigurante un personaggio (pròsopon), è derivato il nome di persona. Le commediabilità di Pulcinella, generalmente fissata (come nei personaggi del Cinema-Pittura di Pasolini) sottolineano i tratti caratteristici di un personaggio; esiste un repertorio di Pulcinella, come anche di pièces teatrali e di tipi umani. Il sottoproletario che si copre con una maschera s’identifica in apparenza o con un’appropriazione espressiva, con il personaggio rappresentato; è un simbolo di identificazione. Il simbolismo di Pulcinella si è prestato a scene comiche – in racconti, commedie, film – dove la persona si identifica a tal punto con la finzione, da non riuscire a disfarsene e diventava così l’immagine stessa rappresentata. Se, per esempio, un soggetto assume le sembianze di una forma aggressiva, alla fine può giungere ad identificarsi con esso; si possono immaginare tutti gli effetti derivanti da tale forza assimilante della Pulcinata e si capisce anche come la pratica tenti di strappare il Pulcinella come persona, per metterlo di fronte alla sua realtà profonda di guitto. Questi richiami morali al nostro senso della commedia, come esseri introdotti nella maschera, non hanno la loro origine, come ritiene invece l’intellettualismo, in una astratta e formale Ragione, quanto piuttosto ci appartengono, anzitutto, a causa della nostra incarnazione, della carne stessa di cui è fatta la maschera, del senso e della sensibilità della nostra espressione. Dal momento che la percezione è già medialità – e noi cresciamo all’interno di una medialità che è, come l’atmosfera che respiriamo, già il nostro ambiente – l’origine della battuta di Pulcinella, supposta dalla Maschera, non è affatto un’origine: oltre il ricordo, irrecuperabile, come un mero fantasma, l’origine sarà sempre una risposta già data, una risposta che raccoglie in sé stessa le voci che erompono dal silenzio originario del mondo della commedia. Mentre i nostri rapporti discorsivi con le altre maschere costituiscono, secondo l’azione, un regno di intersoggettività, certi principi di riconoscibilità affermano il regno dell’espressione. Ma c’è di più, un vertiginoso di più, su cui alla fine ci troviamo affacciati nel guardare Tiepolo padre e figlio. La storia di Pulcinella, infatti, ci fa capire qualcosa di più sconfinato ancora riguardo all’espressione della commedia. Ci fa capire che se le maschere sono due o più di due, è perché la figura che ci si mostra qui, in questo teatro napoletano, è al tempo stesso una figura che ci fa vedere l’altro mondo, dato che viene dall’aldiquà. Di fronte all’artista privo di forze per procedere, sperso in mezzo al vuoto della catastrofe cittadina, Pulcinella sopravvive dall’estremo altrove, offrendosi come un messaggio di salvezza, dono inaspettato di liberazione. Ma se è un dono, dice Pasolini, ci vuole anche un qualcuno come Totò che, vivendo in tale altrove (si veda Jago-Totò di Che cosa sono le nuvole o di Uccellacci e Uccellini), sia venuto per portarcelo da laggiù: “Io devo tutto a Totò e se non lo avessi incontrato un giorno, per la strada e non l’avessi riconosciuto come il solo amico della mia vita, Dio sa quale sarebbe stato il mio destino. Cugino di Pulcinella, nipote di Arlecchino? Io non ho mai saputo, e ne hanno scritte tante a proposito di lui. Certo è un buffone serissimo, il quale come tutti i buffoni che si rispettano maschera la ragione da follia e la follia da ragione. Ne abbiamo passate insieme di tutti i colori. Mi disse, incontrandomi per la prima volta, di non perdere tempo, che avevo proprio la faccia che serviva a lui, e che lo avessi accompagnato, perché saremmo andati a morire di fame insieme” (1950 circa, in Faldini/Fofi, Totò, Pironti, Napoli, 1987).
Così, la risalita fino al punto senza dimensioni, che sarebbe “terra-terra”, fino alla storia più storia della storia dove la genesi della Maschera s’incontra con la vita, con l’esistenza -, questo viaggio a ritroso, “terra-terra”, giunto alla sua meta, ci rivela che il racconto di Pulcinella, opera tutta umana, porta in sé un germe, un segno, un apostrofo di origine commediale. E la presenza di un simile germe fa si che ogni narrazione, ogni recitazione o poema della classe, della sottoclasse e del campus – di cui parla Pierre Bourdieu – cela in sé il proprio materialismo: è raddoppiata da un’immagine occulta, che l’accompagna come l’ombra di una maschera gettata a se stessa, la bautta fissa del teatro. E questa compresenza, in una stessa opera quotidiana, di maschera e esistenza, ci svela che l’arte non descrive solo il nostro mondo, ma al tempo stesso il silenzio, quasi senza saperlo, descrive senza descriverlo anche l’Oltre della Finzione.
Certo dicendo così siamo entrati pienamente nel teatro. E il nostro discorso, partito alla ricerca di una verità dell’esistenza, sembra essersi trasformato a propria volta nella visione di una parola letteraria e di una scena reale, di un foro che non può fare a meno del suo impegno politico. Ci sono verità che sembrano potersi dire solo quando l’attore si fa avanti verso il proscenio; verità che sfuggono a uno sguardo diretto e si lasciano descrivere solo se le spanniamo a tastoni, solo se le incontriamo di sbieco, là dove si deformano in visione, come nei lavori del Tiepolo, dedicati a Pulcinella, o come dice Totò, quando si trasformano in una metafora di vita (forse questa posizione sarebbe piaciuta all’amico genovese Aldo G. Gargani, soprattutto per quanto riguarda il suo capolavoro L’Altra Storia, Il Saggiatore, 1990, si veda in particolare il cap.:L’orrore della simmetria). Forse, in rapporto al recitato commediale, l’esistente di Pulcinella può essere considerato un’ontologia dell’inverosimile, una verosimiglianza, tesa a dire indirettamente, attraverso una bugia deformante, una realtà che, se detta esplicitamente, senza imposture, emergerebbe paradossalmente, ancora più fraudolenta, ancora più inesatta.
Ora, stando così le cose, quale sarebbe la verità della maschera che, nella visione doppia, non si riesce a descrivere illuminandola con il parlato preciso e astratto del concetto stesso di Commedia? Una verità che ha a che fare con l’imponderabile, con l’incommensurabile del passaggio fra il Nulla e l’Identità della Maschera stessa, la zona d’ombra della ribellione, della custodia del selvaggio.