Pino Pascali, Pino Pascali, Squalo, 1960, bitume su lamiera, 38,8x99,2 cm

Fuori Museo. Il viaggio della Nuvola riparte da Polignano

Con un’interessante personale su Pino Pascali, la storica galleria di Via Margutta inaugura il suo secondo spazio espositivo.

“Non è facile allestire una mostra di Pascali”: così avvertiva, nella sua Vita eroica di Pascali, Vittorio Brandi Rubiu, senza dubbio il critico più vicino al maestro di Polignano. E non è facile perché “si sente la mancanza dell’artista”, una supernova esplosa in poco più di quattro anni e probabilmente il più grande se del panorama artistico italiano dal dopoguerra in poi. Grande merito, dunque, va alla Galleria La Nuvola e a Fabio Falsaperla, che proprio a Pino Pascali ha voluto dedicare la mostra d’esordio del suo nuovo spazio espositivo, al 41 di Via Margutta, sotto la direzione della figlia, la storica dell’arte Alice Falsaperla.Curata da Alberto Dambruoso, e patrocinata dal comune di Roma Capitale, Fuori museo è una rassegna ambiziosa che, sotto l’egida dell’Archivio Pino Pascali, riunisce 35 opere – tutte risalenti alla prima metà degli anni Sessanta e provenienti dalla collezione privata di Roberto Locci – e le suddivide in 5 aree tematiche (Armi, Robot, Animali, Africa e Ricerca pubblicitaria). Pensata per gettare ulteriore luce su una delle facce meno note, e più “in ombra” del catalogo di Pascali, ovvero la sua produzione su carta, e per farlo “fuori museo”, in una galleria privata, la mostra,spiega il curatore nel testo in catalogo edito da Magonza, oltre a testimoniare “sia la straordinaria inventività di Pascali sia la sua impressionante facilità nello sperimentare tecniche inedite”, dimostra “come la maggior parte dei temi iconografici sviluppati da Pascali dopo il 1964-65” – anno, quest’ultimo, della sua prima personale alla Galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis – “fossero già presenti nelle opere bidimensionali realizzate tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta”. Carta e cartoncino, in prevalenza, ma anche lamiera, masonite e addirittura legno: questi i supporti scelti dall’artista in opere dove l’amore per le tecniche, figlio del “praticantato” di Pascali da Toti Scialoja, titolare negli anni Cinquanta del corso di scenografia all’Accademia di Belle Arti di Roma, si unisce a un’innata predisposizione al governo della materia, alla tendenza, evocata dall’amico artista Eliseo Mattiacci, a “usare le sue mani, quelle mani grosse, dure e sporche, per trasformare le idee”. Un’indole pratica, una creatività esuberante, che ha vinto le timidezze sin da subito e che ha saputo capitalizzare dalla fuga dagli obblighi della scuola trasformando la noia nel “gioco isolato” della progettazione di giocattoli. 

Quella delle Armi, dunque, primo nucleo tematico della mostra, è quindi una presenza insistente, e lo è già a partire da quell’8 settembre 1943 – data dell’armistizio firmato da Badoglio – quando il piccolo Pino, ha ricordato la madre Lucia, “uscì con una grossa pistola sul balcone e fece finta di sparare” alle truppe alleate. Come quel giorno la pistola era scarica, e come “non sparano” i cannoni esposti nel 1966 da Sperone, allo stesso modo l’arsenale di missili e mitragliatrici (i tre Missili e lo studio per mitra) è caricato a salve, e completamente innocuo. Uno dei “pezzi da museo”, il Pugnale esposto al Guggenheim di Venezia (IMAGINE. Nuove Immagini nell’arte italiana 1960-1969), è l’esempio perfetto – seppur ridotto in scala – per comprendere l’operazione ironica di disattivazione del potenziale bellico cui Pascali sottopone le sue “finte sculture”, oggetti più vicini alla finzione scenografica e all’environment che al modello classico dell’objet trouvé, eredità primaria di quelle avanguardie storiche da cui Pascali sembra aver attinto anche per quanto riguarda il collage, tecnica a lui familiare dalla “tenera età”, dal periodo in cui Pino, ha raccontato il padre Francesco, era avvezzo a racimolare pezzetti di carta e di legno e con forbici e coltelli ritagliava e componeva” figure di ogni tipo: i due Robot, seconda area tematica della mostra, sono infatti assemblati a partire da ritagli di cinturini di orologi o da componenti di apparecchi fotografici. 

Se dai cannoni di Pascali “non erutteranno mai granate né bombe”, ha scritto Alberto Boatto nel testo in catalogo di Nuove sculture, prima personale dell’artista a L’Attico di Fabio Sargentini (1966), neanche i suoi animali si dimostrano “in grado di azzannare, di mordere e neanche di muoversi”.                                                                                                               E proprio agli Animali è dedicata la terza sezione della mostra: un dinosauro, delle lumache, ma soprattutto le due mucche su cartoncino, unici esemplari superstiti – e mai esposti prima d’ora – di una serie di studi preliminari a un murales commissionato dalla FAO e gentilmente concessi in prestito, spiega Giusy Emiliano (curatrice e collaboratrice per la sezione Land and Water della FAO) da Carla Ruta Lodolo e dall’Archivio Pino Pascali. Dalla fauna terrestre alle creature acquatiche, che proteggono le coste della sua Polignano, amata e qui omaggiata in un panorama Informale (1962-63); talvolta affiorando da un fondo testuale – è il caso dell’iconica coda di balena, una tra le poche opere firmate POSA, pseudonimo con cui l’artista era solito firmarsi nei primi anni di attività – talvolta emergendo dalle lamiere sotto forma di squalo bituminoso, i pesci di Pascali sono in grado di innescare profonde riflessioni sul linguaggio: i suoi Pesci-cani sonocreature ibride, generate, prima ancora che dalla mano dell’artista, dall’ambiguità strutturale del linguaggio. I loro sono profili enigmatici: uno di questi altro non è che un curioso missile con orecchie da bassotto, un altro è assemblato – come i due Pesci del 1964 – a partire da quadrati e triangoli: del resto, “Il mondo è fatto come un grande meccano dove uno ha tanti pezzi”, ha confessato Pascali a Carla Lonzi, “e proprio incastrandoli l’uno nell’altro si crea una possibilità”.                                                       

Possibilità formali, certamente, ma anche e soprattutto nuove possibilità materiche uniscono le sette opere del capitolo sull’Africa, che include anche il Totem del ‘63, prima opera acquisita da Locci. Se nelle due Macchie Pascali ha addirittura fatto ricorso al caffè l’impiego, nell’Indigena del ’64, della penna biro, ha anticipato le future sperimentazioni di Alighiero Boetti: “Quello che tutti gli riconoscono”, ha chiarito lo stesso Locci nel suo contributo in catalogo, “è di essere stato un anticipatore nell’uso di materiali diversi da quelli canonici utilizzati fino ad allora, al pari di Burri”.                                                                      

Ma “la natura si è esaurita” e gli artisti “devono usare i materiali che fanno gli scienziati”: dall’evidenza e dalla forza di oggetti creatori di civiltà, dotati, per Pascali, di un appeal infinitamentesuperiore a qualsiasi prodotto del design contemporaneo, si passa ai dieci lavori della sezione di Ricerca e pubblicità. Impegnato per un decennio (1958-1968) nel campo della grafica pubblicitaria Pascali, ricorda Rubiu, esordisce, come Andy Warhol, nel dominio delle arti cosiddette “applicate” o “minori”, e lo fa nel momento esatto in cui l’intero edificio della cultura occidentale, e con esso la tradizionale ripartizione in cultura “alta” e “bassa”, crollava sotto i colpi crescenti della società di massa. Dal 1958, anno del primo incontro con Sandro Lodolo – con cui fondò la Lodolofilm – al 1968, anno della sua morte prematura, Pascali ottenne commissioni dalla Proa, dalla Incom e dalla Rai. Impegni, che come ha ricordato Sandra Pinto, l’artista trattò sempre con impegno sincero e con un’autenticità che lo teneva alla larga dal “fare differenze inutili” con la sua ricerca personale. Per uno dei caroselli commissionati a Pascali dall’Algida, l’artista propose lo sketch – rifiutato – dei Killers, una gang di sette malavitosi italo-americani. A singoli personaggi, come Al Cafone o Ragno, la mostra accompagna altri studi della banda (gruppi da 3 e 4 figure), ma anche una veduta a collage di New York, un Policeman motociclista, delle Lettere forse memori degli Alfabeti di Kounellis (protagonista, con Pascali della stagione dorata dell’Attico a cavallo tra i Sessanta e i Settanta) e una delle tante versioni di Arlecchino, maschera più volte evocata – così come il Pulcinella performato – dal temperamento vulcanico di un “ragazzo terribile” che – nelle parole di presentazione di Palma Bucarelli alla spinosa Biennale del ’68, la stessa Biennale che gli conferì, postumo, il Premio alla Scultura –insofferente al “gioco degli adulti seri”, si mette a “sforbiciare il tappeto del salotto per farsi un mantello da pellerossa”. 

“Ci vorrebbe un corpo più forte”, però, scrive Alice Falsaperla, e un “coraggio più eretico”; se nella società dei consumi le opere d’arte sono oggetti che “non servono a nessuno, “bolle di sapone” (così Pascali in conversazione con Lonzi)lasciate a vagare senza meta e senza scopo, l’immersione dell’artista, la sua fuga verso i fondali dell’immaginazione, luogo “immune dal tempo e dalle ferite”, assume i tratti di un ripiegamento momentaneo ma mai solipsistico. La sua è da intendersi piuttosto come una chiamata collettiva alle armi e alle arti, finalizzata, come intuito da Michele Dantini, al ripristino del “mandato” civile dell’arte; a una massa abbrutita Pascali chiede un ulteriore sforzo immaginativo, a una cittadinanza fiaccata dalle comodità di seguirlo a casa sua, sott’acqua, perché, ancora nelle parole di Alice Falsaperla, “chi lo osserva dalla riva non lo raggiunge nella sua età e nel suo gioco”.    

Pino Pascali. Fuori museo
a cura di Alberto Dambruoso
dal 15 giugno all’11 luglio 2022
Galleria La Nuvola
Via Margutta, 41, 00187 Roma
Info: www.gallerialanuvola.it 
e-mail: info@gallerialanuvola.it 
telefono: 06-98181389