La prima volta che incontrai Paolo Fichera fu il 7 ottobre del 2021 quando, nello spazio espositivo MICROARTIVISIVE, in viale Mazzini a Roma, inaugurava la mostra “COME OSATE” che presentava i lavori di Francesco Calia, Antonio Carbone, Rita Mele, Luciano Puzzo e Annibale Vanetti, con i testi in catalogo del Professor Robertomaria Siena, tra le cui righe si legge:
“Una nostalgia invece appare assolutamente urgente: quella, appunto, che riguarda l’uomo, quell’uomo che, accanto al mattatoio della storia, è anche l’autore della Cappella Sistina e dei Notturni di Chopin. È per questo che, se possibile, va salvato da se stesso”.
Di cotale nostalgia erano colmi gli occhi di Paolo Fichera, in una pacata risoluzione alla vita, di cui facevano parte solo pochi amici cari. Del resto, Emil Cioran, in “Quaderni 1957- 1972”, afferma che: “Più facciamo progressi più diminuisce il numero di coloro con cui possiamo realmente comunicare”.
Tuttavia, Paolo non era assolutamente un artista pieno di sé e borioso, ma era oppostamente dotato di semplicità, naturalezza e franchezza che caratterizzavano la sua persona interiormente ed esteriormente. Silenzioso come il suo sorriso, era il suo avvicinamento alla pittura, sulla quale non rivelava mai, a chi glielo chiedesse, il senso attribuito all’interno dei suoi lavori.
Qualche mese dopo l’inaugurazione dell’esposizione al MICRO, ricevetti la sua telefonata d’invito, congiuntamente al Professor Robertomaria Siena per uno studio visit. Così, all’inizio del 2022 ci accordammo per effettuare una visita al suo studio.
Ricordo ancora che a lasciarci impressionati, fu non solo la sua grande dose di umanità, ma anche l’inaspettata bellezza e numero delle opere che un uomo, quasi in totale solitudine, aveva continuato a produrre per una mera e bendata passione amorosa verso l’arte e ciò che il suo vissuto aveva da raccontare.
Da quel momento iniziarono le nostre conversazioni sulla pittura e sulla sua evoluzione dagli anni Sessanta ad oggi. Mi sento fortunata d’aver avuto la possibilità in questi anni di essere stata interlocutrice diretta di racconti di grandi maestri e pittori, tra i quali Paolo, che hanno saputo trasferirmi ciò che i miei occhi personalmente non hanno potuto vedere.
Racconti vivi come i suoi conferiscono la misura dell’esperienza di quel trascorso così intensamente sentito. I dialoghi con Paolo approdarono fino al suo invito per la curatela e il testo critico della sua mostra personale, nel medesimo luogo in cui avvenne il nostro primo incontro.
Tornai a studio per selezionare accuratamente i lavori insieme e per ricostruire cronologicamente un documento contenente le sue esposizioni e la produzione pittorica degli ultimi anni. Paolo iniziò ad aprirsi e a raccontarmi la sua storia sin dalla sua infanzia. Il suo racconto inizia all’età di sette anni, quando con la famiglia si trasferisce da Sabaudia nel Lazio a Siracusa in Sicilia, ove trascorre l’adolescenza fino al compimento del diciannovesimo anno di età. Nella stessa città consegue il diploma all’Istituto d’Arte di Siracusa. Continua la sua narrazione, spiegandomi come in quegli anni Siracusa aveva una folta civiltà contadina e artigiana e di come osservava lo scorrere di quella vita, di cui facevano parte anche gli artisti decoratori dei carretti siciliani e i cantastorie che dimoravano nel centro della città. Più tardi, nel 1968, si trasferisce a Roma, in cui prosegue gli studi artistici, presso l’Accademia di Belle Arti. Nella Capitale conosce artisti che provengono da differenti realtà producendo, nella sua ricerca, nuove contaminazioni.
La pittura e l’incisione si confermano come veicolo principe della narrazione psichica – mai descrizione – di aspetti che caratterizzano la periferia urbana: dai mercati rionali alle sopraelevate, dalle sale d’attesa delle stazioni ferroviarie alle sfasciacarrozze. Il tragico quotidiano, l’esperienza del bene e del male, del dolore e della felicità, della miseria e del benessere sono percepiti e tradotti sulla tela, come in campi di battaglia. Tra neoespressionismo, simbolismo e visionarietà, si estrinseca l’estrema propaggine di un continuum esistenziale che porta a far emergere quelle interne visioni, metafore del non risolto.
Dal 1969 espone in numerose personali e collettive. Negli anni Ottanta frequenta il gruppo di artisti di San Lorenzo che delinea un aprirsi di una fase di ricerca concettuale, culminante in diverse sue installazioni, tese a invadere lo spazio, in cui vengono collocate. Tuttavia, alla fine degli anni Novanta, l’artista torna alla pittura che gli consente di riappropriarsi di quell’eterno appuntamento tra il mondo della visione e dell’emozione.
Orbene, prima ancora di approdare al testo da me redatto per quella che non avrei mai immaginato sarebbe stata l’ultima mostra di Paolo e che per lui ha avuto il senso di una fine ma anche di un principio di riscoperta, come per tutti noi, mi affiancheranno nella scrittura, in questa seconda parte di testo, le parole racchiuse in un ricordo di Annibale Vanetti, suo amico fraterno, rimasto vicino a Paolo fino alla fine, e che andranno ben a districare quel passaggio concettuale degli anni Ottanta.
PAOLO FICHERA.
ANELITO DI LUCE.
Prima di conoscere Paolo, nei primi anni Novanta, ho conosciuto e frequentato suo padre, don Peppino Fichera, da poco rientrato in Sicilia, desideroso di dare alle stampe le sue memorie dei lunghi anni trascorsi come sindaco di Sabaudia e lasciare un ricordo scritto sulla storia delle vicende familiari nel paese natale di Solarino. Seguivo con interesse i racconti di questa persona elegante dai modi affabili di un gentiluomo d’altri tempi ma lo sguardo era catturato dai dipinti giovanili che Paolo aveva affidato alle pareti della casa paterna. Riconoscevo in quei paesaggi ad olio, eseguiti nel periodo in cui frequentava l’Istituto d’Arte di Siracusa, la vocazione pittorica di un artista tecnicamente maturo e capace di trasmettere affetti e sentimenti profondi per la sua terra d’origine. Ci siamo incontrati anni dopo sulle spiagge della costa siracusana che Paolo amava e frequentava regolarmente ogni estate, scendendo da Roma per le vacanze con la famiglia. Ricordo la sua riservatezza in quell’improvviso ritrarsi dalla conversazione per accendersi l’ennesima sigaretta e quel sorriso aperto subito celato da un velo di malinconia nello sguardo come se avesse qualcosa da farsi perdonare e che non poteva comunicare apertamente. Nelle discussioni sul nostro fare arte esprimeva il suo atteggiamento critico negativo nei confronti della moderna cultura di massa e in questo si poneva apertamente tra gli apocalittici ben descritti negli anni Sessanta da Umberto Eco. Qui mostrava la sua indipendenza di giudizio e difendeva con forza la sua autonomia nei confronti di un sistema dell’arte da cui si teneva da tempo a debita distanza. Vivendo io a Siracusa e lui a Roma, le nostre frequentazioni erano sporadiche ma la simpatia e la stima sono presto diventate una solida amicizia.
Courtesy Annibale Vanetti.
Courtesy Annibale Vanetti.
Courtesy Annibale Vanetti.
Nel febbraio del 2004 iniziava la collaborazione di Paolo con l’associazione culturale L’Arco e la Fonte di Siracusa fondata dallo storico presidente Nino Portoghese e da me in qualità di direttore artistico. La sua personale, promossa alla nostra galleria nel centro storico dell’isola di Ortigia veniva concepita come il teatro di un Naufragio, in cui apparivano i miseri resti di una zattera alla deriva col suo disperato, silenzioso e tragico carico di morte. Alle pareti tutt’intorno una serie di teche trasparenti, anacronistici reliquiari offrivano allo sguardo del visitatore misteriose concrezioni e frammenti di inutilizzabili macchinari che si agitavano come spettri di pericoli incombenti su di una umanità incapace di proporre alternative e soluzioni ai propri conflitti.
Così mi scriveva l’artista:
Per fare emergere le paure più profonde dell’animo di noi occidentali, bisognerebbe costruire un deposito legale degli incidenti più grandi perché si possa lavorare su questa invenzione indiretta. Un luogo dove ospitare i resti di una tecnologia che non è sempre in grado di controllare i disastri che ne derivano da quando la costruzione della prima imbarcazione ha creato il primo naufrago. Di fronte alla possibilità di una fine a causa di una catastrofe ambientale…non è più da salvare una estetica ma l’elemento unico che porta sulla groppa condizioni incolmabili dell’esistenza umana.
E ancora discutevamo con Paolo del prossimo arrivo a Siracusa di Padre Alex Zanottelli, missionario comboniano appena rientrato in Italia dalla baraccopoli di Korogocho a Nairobi in Kenia, un angelo approdato e trattenuto per dodici anni in un inferno dove centomila viventi in un chilometro quadrato non riescono a distendere il proprio corpo nel fango che li trattiene ancorati all’ AIDS
Per una sua personale, qualche anno prima, Paolo Balmas aveva scritto:
Puoi possedere tutte le bellezze del mondo ma a cosa ti serve se perdi l’anima? Ed è la luce indiziata a rivelare le incompletezze che, per ogni generazione, hanno riempito quei nostri vuoti perenni.
Courtesy Annibale Vanetti.
Courtesy Annibale Vanetti.
Courtesy Annibale Vanetti.
Nella pittura di Paolo lo sguardo era volto autenticamente alla luce indiziata, l’elemento che fornisce un valido orientamento nel processo Junghiano di integrazione dell’Ombra, il Doppio che ci cammina a fianco. È il lato oscuro, inespresso della crisi identitaria e, in quanto Altro da sé, è l’unica via d’accesso al mondo immaginario. L’Ombra è l’Anima. Ed è in questo luogo privilegiato che vive il suo mondo notturno e perturbante.
Alla proposta dell’arco e la fonte di una indagine sui rapporti fra Il corpo e la luce, rispondeva con un intervento sorprendente che negava, icasticamente, alla pittura la possibilità di esprimere alcuna consolatoria bellezza. Salutava cortesemente il mondo di Jan Vermeer e, apocalitticamente, appendeva il suo nero grembiule da lavoro alla parete come una reliquia sopra un bianco sudario steso su una sorta di altare sostenuto da alcune balle di paglia. Lo spazio sacro si era dissolto in una assenza incolmabile. Il dramma ha avuto un Luogo!
Courtesy Annibale Vanetti.
Courtesy Annibale Vanetti.
Ancora: per Tragodìa, nel 2009, presentava un grande arazzo di tela juta dai colori sulfurei da cui emergevano reperti di una battaglia condotta “all’ultimo respiro”. L’immagine si imponeva nella sua nuda e sconcertante evidenza e toglieva alla parola qualunque valenza descrittiva. Il motivo ricorrente della maschera antigas ci pone dinnanzi al senso dell’opera che deve prendere alla gola, provocare il movimento diaframmatico dell’ansimare, divenire puro elemento sensoriale in totale simbiosi con il corpo dell’osservatore.
Negli ultimi anni di vita della nostra associazione era tornato pressantemente alla Pittura e per il progetto La notte della verità continuava a puntare il suo sguardo in direzione dell’Ombra notturna; si poneva testardamente in ascolto di parole che tardavano ad arrivare al suo orecchio, trovava davanti a sé rossi cancelli che lo trattenevano dal precipizio, accendeva fari nella notte che non riuscivano più ad illuminare alcuna meta.
Annibale Vanetti
Siracusa, settembre 2024
Sulla pittura degli ultimi anni di Paolo, il testo critico della mostra INTERIORMIMETICO, presso MICRO ARTI VISIVE di Paola Valori, a Roma:
Nei corridoi mimetici dell’io
Il ticchettio silenzioso di una frazione temporale, fissata nell’atto del tocco del pennello, avvolge un’olimpica stasi, in cui il respiro si fa denso e stipato da un setacciamento irruente di scrigni, ove incalzano e si agguantano le plurime soggettività, le sfaccettate sessualità, le fantasie composite e un quieto rimpatrio alle attitudini delle origini. Una salvezza tinge una sincera tempra e replica un polisemantismo psicanalitico. È tra le velature del colore che si possono vagliare i minimi depositi di un sentire che sfugge alla sublimazione freudiana. Così, l’iconico quadro sopra il sofà – che tanto si attiene alle tendenze estetiche contemporanee – viene scongiurato dallo spirito corvino di una convulsa metafisica della puerizia.
La stretta, nell’emergere di una modalità critica e rivisitata con la lente della psicoanalisi nella luce modernista del Ventesimo secolo, è pregna di una tenue commozione che si rinnova nel linguaggio pittorico del nostro. Bus (2019) è metafora primaria di una ricercata contiguità d’animo negli aspetti collettivi della vita, e alieni da un puro contesto domestico. Si fa ingresso nella sfera intima di un locus interiore che ci riconduce simultaneamente tra le quattro pareti del nostro abitato. Immaginiamo dinanzi a noi, seduti sul divano, quell’arazzo e quel tavolino del nostro abitacolo familiare. Eppure, il giovinetto è ben saldo sulle gambe, nel mezzo di un bus e reca con sé gli indumenti o fardelli che lo hanno sospinto a una chiara veduta, quasi una predestinazione spettante all’uomo della folla. La sua vista strega lo scorrere, nelle nostre arterie, in un’interrogazione di un fatidico trascorso. Quello sguardo fanciullo rimane avviluppato dall’alterità delle esperienze decorse che annettono, nella loro voragine inghiottitrice, la spazialità della tela, in un soggetto adulto che contempla nell’altrove la domanda di solitudine che è patrimonio individuale e flagello comunitario.
L’immaginario occidentale è vagliato nello spaccato di un realismo ontologico e metempirico che si forgia e si contamina con un neoespressionismo e con un simbolismo degli elementi. L’artista si astiene dai cavilli della pittura colta, dell’apparenza e della convenzione per sugellare l’appartenenza ai moti dell’animo, senza mai ricorrere a un loro diniego. Tuttavia, non è facile estetica, ma faticoso prelievo nelle stratificazioni consce e subconsce di un io scandagliato nei suoi avvallamenti inconfessati. La realtà irresoluta si permea di una distesa inflessione nell’ultima produzione, in esposizione. Il pittore americano Robert Henry ha esplicitato che “L’arte è la donazione da parte di ciascun uomo della sua testimonianza al mondo. Chi desidera donare, ama donare, scopre il piacere di donare”. L’artista prima del suo trasferimento nell’Urbe, nel 1968, si appropria delle contaminazioni di una vita a contatto con la civiltà contadina, in cui vizi e virtù e una profondissima umanità incalzano nel trascorrere giornaliero di un imperturbabile accoglimento delle proprie limitazioni. Afferma Paolo Fichera “… la bellezza (è) sempre più simile a quei bambini che non riusciranno a vedere mai un grattacielo, leccandosi le dita dopo aver mangiato un hot dog ai piedi del David di Donatello”. Alla fine degli anni Novanta, il sintetismo concettuale degli anni Ottanta è nuovamente dissimulato dall’artista per un’inclinazione connaturale all’azione pittorica. L’arte muta in mezzo per fare ingresso, secondo una modalità simpatetica, all’esperienza di civiltà straniere. Jhon Dewey esemplifica che “Esse (le arti) provocano un ampliamento e un approfondimento anche della nostra esperienza, rendendola meno locale e provinciale via via che, per loro tramite, afferriamo gli atteggiamenti che sono alla base di altre forme di esperienza”.
L’opera Paesaggio (2020) ci accoglie nella sua contraddizione visiva, nel suo posizionarsi alla fine di una discesa di un corridoio vetrato e, in sincrono, impegnando lo sguardo in una movimentazione di “sotto in su”, essendo una finestra su reminiscenze private, una terrazza di un grattacielo. Si espongono le fragilità di un derma quasi inconsistente che pone l’esperienza comune alla mercè di un’apatia stereotipata e priva di pensiero. Incontrare l’oppressione, indotta dal circostante e dai suoi elementi, ci priva da un’imprudente insensibilità e indolenza che ammettono tale esperienza come normalizzata e conducono all’offuscamento di una rilevanza della struttura pratica comune e delle sue separazioni di percezione sensibile.
In Primavera (2019), una notizia trascina, con zelo, l’attenzione di un uomo e una donna in una reviviscenza di ascolto compartecipato. Si traccia, nel presente, una cura verso il recondito, in cui una coppia atemporale è attrice di un teatro senza spettatori e in cui il transitorio sosta solo pochi attimi, per dipoi dissolversi. Leda e il cigno (2020) è metaquadro che raccoglie la nota citazione del soggetto mitologico. È protagonista principe dell’intera raffigurazione, in cui il ciglio è accompagnato dalla direzione del tracciato pedonale. Lo straniamento apportato, tramite l’inserimento di ricorrenti fenditure, in forma di porte, finestre, schermi di televisione, particolari ornamenti parietali fisici o immaginativi che percorrono la duplicità allestitiva tra esterno e interno, occupa la parabola dell’artista. Il sonetto di William Butler Yeats, dal titolo omonimo, fonde il realismo psicologico con una visione mistica che la critica e femminista accademica e sociale americana Camille Anna Paglia definisce “il più grande poema del Ventesimo secolo” – e aggiunge – “tutti gli esseri umani, come Leda, sono coinvolti momento per momento nella ‘corsa bianca’ dell’esperienza. Per Yeats, l’unica salvezza è la forma e l’immobilità dell’arte”. Certo è che il mito ha lasciato un significativo dubbio sulla sua versione veritiera e univoca. In alcune versioni, Elena non è figlia di Leda, bensì di Nemesis, la dea che incarna il disastro infuso a coloro che patiscono per orgoglio estremo o per hybris.
In Set (2020), un uomo si affaccia al di là di un sipario tendato che delimita un interno-esterno fisico che è sintomatico del medesimo binomio interiorizzato. Intravede due individui lontani, e altrettanto vicini, transitare per isolati corridoi esistenziali. L’osservatore, esterno dalla narrazione soggettiva dell’artista, rileva – ancora una volta – due metaquadri che, singolarmente, ragguagliano distinti istanti di storie individuali.
Due scene illustrano il fenomeno ottico-visivo in prossimità di una coppia colloquiante, Intervista (2017) e Al bar della stazione (2021). Nel primo flashback, la veduta esterna di distruzione e di vestigia di vecchi trofei automobilistici di una sfasciacarrozze sulla Tangenziale è mimesi intestina di un’inframmettenza che preclude, in una celata inibizione del sé, la possibilità di interconnettersi e di raggiungere repliche autentiche e provenienti dai precipui abissi dell’io. Nella seconda rievocazione, durante la sosta dal viaggio in un fast-food, è sempre lo sguardo di una donna-madre, generatrice della vita e delle sue future coscienziosità, a guidare l’osservatore verso l’immaginazione che accende, nel riquadro dell’anima, il ricordo d’infanzia, nel cui andito è posto un tendaggio come quinta della mente in continua peregrinazione. In un corridoio psichico, si scopre Seminterrato (2019), in cui le ombre dell’affezione e della coscienza gettano una ritmicità cardiaca nella discesa delle scale e nell’ingresso in quella porta misteriosa che sembra traboccata, senza por tempo in mezzo, dal famoso volume di Lewis Carroll. A un luogo intimo corrispondono le opere di carattere privato dell’artista.
Sul fondo, a destra di un tendaggio, si situa LCD (liquid crystal display, 2023), attimo successivo al risveglio mattutino, raffigurato in Ciao (2018), in cui l’artista si autoritrae dietro un sipario, questa volta rosso, disinteressato dalle fantasticherie di un trascorso e di un presente malinconico, al quale privilegia la fantasia sine tempore, dettata dal gioco libero della solitudine, in un palcoscenico surreale. Proseguendo il camminamento, in Attesa (2020), una ragazza pensierosa, nella propria stanza, spia al di fuori della finestra il trascorrere del tempo metaforicamente delineato dal passaggio di un veicolo, i cui fanali posteriori illuminano una nebbia viscerale. Gli scorci routinari riportano la nostra memoria alle opere hopperiane di riferimento al realismo degli interni di Edgard Degas.
e i suoi cari
e Diana Pintaldi alla mostra INTERIORMIMETICO
Pregevole gioiello in mostra è sicuramente La tela bianca (2020), in cui il metaquadro, in una prospettiva centrale, si moltiplica in uno spazio indefinito e nei confini incerti di una folta nebbia che campeggia nel perno della parete. Sulla destra, oltre una porta o l’immaginario, si intravede un uomo di spalle. Soggetto “protagonista”, la donna potrebbe non essere contemplata, effettuandosi una vera e propria metempsicosi nel corpo del visitatore. All’opposto, una serie di opere parla di intermezzi che, dalla solitudine, ci consegna una presenza-assenza di coppie. Laura (2023) chiude l’intero ciclo allestitivo, con uno sguardo di curiosità verso un mondo altro che getta un cardine utopico nell’aere confinante e nel nuovo avverarsi epocale.
Laura Catini
Roma, novembre 2023
Caro Paolo, ti abbracciamo sempre,
i tuoi amici, tutti.