Ak2deru
Ak2deru, Dimora, PrimaLinea, video Domus Ardet, courtesy PrimaLinea Studio

«Non vedi che brucio?». Segno, voce e fuoco in Dimora di Ak2deru

PrimaLinea Studio di Roma presenta di Francesco Careddu, in arte Ak2deru, Dimora, un’installazione multimediale ed ambientale che esplora la caducità dell’uomo e il suo rapporto con l’abitare. L’opera è a cura di Domiziana Febbi e Eliseo Sonnino.

Sembra che nel maggio del 1913 l’ambiente culturale di Parigi abbia vibrato per un forte e incisivo “scossone” musicale. Un terremoto compositivo e visuale ad opera dell’allora giovanissimi Igor Stravinskij e Nijinskij turbò l’anima borghese, mondana, e apparentemente cheta della Belle Epoque («un occhio esperto vi scorge tutti gli elementi di uno scandalo» ebbe a dire Jean Cocteau) per iniettarvi avidamente l’atavico spauracchio di una memoria rimossa, l’inconscio ancestrale di una socialità e ritualità oramai cementificate da un positivismo in sviluppo. La sagra della primavera, balletto dissonante e provocatorio, crudo e scaltramente barbarico, segnò una forte frattura nell’andamento evolutivo della storia della musica occidentale: da lì, come scrive il musicologo Alex Ross, «i compositori avrebbero creato una musica per il corpo; i ritmi avrebbero eguagliato l’energia della danza; le forme musicali sarebbero diventate più concise e chiare; le sonorità avrebbero posseduto la durezza della vita reale». Seguendo la linea corporale e materica, potremmo aggiungere che La sagra della primavera evidenzia una verità che già serpeggiava allora negli scritti psicoanalitici di Freud: nell’uomo abita uno spossessamento, una congerie di forze che risvegliano l’antico, che mettono in atto un’archeologia occulta.

Anche l’installazione ambientale Dimora di Ak2deru, nome d’arte di Francesco Careddu, fruibile nello spazio della galleria romana PrimaLinea, mette in scena un gioco di forze e rimandi simbolici che  disvelano l’ancestralità di un rito; ma se nel balletto musicale stravinskiano percepiamo un’insistenza percussiva sulla dimensione collettiva, il rimpallo energetico fra i danzanti che inscena il carattere propiziatorio di una socialità pagana, nell’opera dell’artista sardo il senso della ritualità è tutto ripiegato nell’incontro fra l’essere umano e il proprio resto antico, lo scarto di ciò che ha prodotto il processo di civiltà, il non simbolizzato. Per intenderci, potremmo – forse in maniera azzardata – affermare che tale resto, tale scarto è ciò che Lacan chiamava extimité: al cuore dell’intimità del soggetto c’è in realtà un’esteriorità che eccede ogni manovra di contenimento e leggibilità.

Questo scarto precipita in tutte le nervature dell’opera di Ak2deru ma, al contempo, sembra coagularsi in tre istanze precise: il segno, la voce, il fuoco. Proviamo a dirne qualcosa. Il primo. È chiaro che in Dimora tutto fa segno, nel senso che Roland Barthes prova a dare a tal termine: ciascun elemento nasconde in nuce una «relazione fra due relata».  L’installazione fagocita lo spazio espositivo per trasformarlo in una casupola sinistra, le cui pareti sono fatte di teli in polietilene macchiati con pittura acrilica: il rimando all’abitare è inequivocabile, e doppiamente inteso sia come atto di territorializzazione, come spinta esterna ad occupare spazi, ma soprattutto come capacità di abitare il proprio corpo, la propria anima, il proprio spazio interiore. Proprio seguendo questa accezione riscontriamo lo spossessamento del disomogeneo e del difforme: in fondo, il nostro abitarci è costellato da tracce e grumi del passato, scorie di ciò che l’evoluzione umana ha prodotto. Lo si intuisce bene nei Monosema, le quattro tele che si “srotolano” sulle due pareti laterali dell’habitaculum. Il seme, “cellula motivica” delle composizioni pittoriche, è lo schizzo, la chiazza, l’addensarsi caliginoso della catramina, le ombre fossili di ciò che subisce la stratificazione. Cosa farne di questa miriade disordinata di tracce? L’artista sembra sì suggerirci un’immobilità stagnante, lo sprofondamento fangoso della stasi; ma a ben vedere, la riproduzione continua del seme, con tutte le sue variabili, ci induce a pensare che nel sottofondo della nostra dimora inconscia ci sia un principio vitale, una forza autorigenerante tesa alla dissoluzione e alla formulazione di forme.

Tale vitalità ci porta al secondo elemento che inerisce al suono dell’opera, dimensione che l’artista frequenta da molto tempo, essendosi formato alla composizione musicale con Alvin Curran. Le tracce audio Codex 121101 e Codex 229002, che risuonano nell’ambiente dilatandone lo spazio, presentano un madrigale primitivo di voci, un contrappunto ancestrale ripetitivo e ipnotico dall’andamento mantrico, che rimanda ad una forma di ritualità primigenia, avulsa da ogni tipo di categorizzazione religiosa. Il suono espanso, così come presentato da Ak2deru, si dipana su due piani, quello della trascendenza, che contempla il canto e la meditazione come tratto comune della spiritualità di ogni civiltà umana, sia quello dell’immanenza, del puro sostare nelle vibrazioni, o meglio nel carattere immateriale che è insito in ogni forma materica.

Veniamo al terzo elemento. Attorno al fuoco si avviluppa il video Domus ardet, proiettato su uno schermo posto di fronte all’ingresso. Si tratta di un susseguirsi di immagini speculari, ferme o in movimento, che rappresentano esplosioni vulcaniche o colate laviche. La specularità di tali immagini deforma il soggetto rappresentato, proponendoci figure animalesche e antropomorfe colte nell’atto di bruciare. Nell’Interpretazione dei sogni, Freud narra un sogno di un paziente. Quest’ultimo, dopo aver vegliato accanto al letto del figlio morto, si corica in una stanza vicina, «lasciando però la porta aperta per poter gettare dalla sua stanza uno sguardo in quella dove giace nella bara, attorniato da grandi candele, la salma del figlio». Egli si addormenta e sogna il bambino vivo che gli bisbiglia Padre, non vedi che brucio? Ridestandosi precocemente dal sonno, l’uomo corre nella stanza mortuaria e vede il braccio del piccolo defunto bruciato da una candela accesa caduta. Sopraggiunge alla visione del video la stessa domanda onirica: l’effetto estraniante è che il fuoco non è proiettato al di fuori, non arde all’esterno di noi, ma dissesta la nostra percezione di fruitori dell’opera, rendendoci noi stessi materia infuocata e carbonizzata. Il fuoco e ciò che resta del proprio ardere sono evidentemente il fil rouge che lega ogni aspetto dell’installazione. Il rituale messo appunto dall’artista danza attorno ad un perno concettuale indissolubile: siamo esseri-per-la-morte in questa dimora chiamata vita.