Silvia Giambrone, Senza titolo con spine, 2017, sedie in legno, rami di acacia spinosa, polivinilcloruro, bitume, vernice per vetro. Courtesy dell'artista e di Richard Saltoun gallery, Studio Stefania Miscetti, Galleria Marcolini

Nobody’s Room. Anzi parla, Silvia Giambrone

Nobody’s Room. Anzi parla, il progetto digitale di Silvia Giambrone per Google Arts & Culture e il Museo del Novecento di Milano.

Tra numerosi progetti online spicca il progetto digitale collettivo Nobody’s Room. Anzi parla (2020) dell’artista e performer Silvia Giambrone presentato dal Museo del Novecento di Milano dal 5 al 31 dicembre, a cura di Carlotta Biffi, attivato sul sito del museo attraverso la piattaforma Google Arts & Culture e presentato in occasione della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Una riflessione intima ma corale che ha dato voce, a partire da quella dell’artista, a ricordi, esperienze, letture, tutte incentrate sul tema dell’ambiente domestico, quello oggi più vissuto, quale culla e alcova di relazioni e di vissuti che possono celare una sofferenza legata alla violenza di genere. 

Silvia Giambrone, Nobody’s room, still video della performance, 2015
Courtesy dell’artista e di Richard Saltoun gallery, Studio Stefania Miscetti, Galleria Marcolini 

Motivo ispiratore è il video della performance di Silvia Giambrone Nobody’s room (2015), in cui l’artista spiegava in diciassette punti come sopravvivere al proprio ambiente domestico, riadattando il testo di Nedzard Maksumic Indicazioni stradali sparse per terra, dedicato alla guerra.

Ne è scaturito un coro di voci eterogenee, che raccontano storie di oggetti e arredamenti protagonisti del vissuto quotidiano di ognuno, in quello spazio in cui si susseguono gioie, paure, dolori e ricordi quanto mai intimi ed esclusivi, in cui le suppellettili e le pareti divengono involontari testimoni. Giambrone si interroga sulla loro portata emotiva, sul loro carico energetico, chiedendo: “Vi capita mai di essere in casa e di sentire una strana forma di inquietudine che vi passa nel momento in cui uscite? Come se la casa avesse qualcosa da dirvi che voi non volete ascoltare, come se gli oggetti stessi che la abitano, i vostri oggetti, fossero dei testimoni e voi state evitando il loro sguardo perché non siete pronti ad affrontare la verità… una sensazione quasi di pericolo ma molto sottile, molto ambigua, che non puoi riconoscere perché ancora non possiede un nome che la contenga, che la identifichi, che la classifichi. La casa di ognuno è abitata da queste forze, da queste sensazioni difficili da riconoscere che però penetrano non solo nelle persone che la abitano ma anche negli oggetti che la decorano. Gli oggetti, come le persone, si caricano di tensione e la restituiscono, come quando entrate in una stanza dopo che due persone discutono e sentite ancora la tensione forte, come se la stanza l’avesse registrata”.

Dal 1 ottobre al 25 novembre, l’artista ha invitato a realizzare un messaggio vocale di 60 secondi massimo, da inviare a una mail appositamente creata per il progetto. Il valore del linguaggio, al centro di questa performance collettiva, recupera le pratiche femministe di autocoscienza degli anni ’70 in Italia, come suggerisce il titolo, che richiama il testo di Carla Lonzi Taci, anzi parla. Diario di una femminista. L’intento è stato di quello di creare una sorta di risonanza tra le parole e le esperienze di persone diverse, in grado di dare voce a quello che si nasconde nelle nostre case, o meglio, nella nostra vita, per mezzo delle storie degli oggetti che ci circondano. Una performance collettiva composta da trentatré voci, racconti intimi e a volte sussurrati, che raccontano per filo e per segno un luogo mitico ed ancestrale, la propria casa, in cui la figura femminile può ritrovarsi ad essere regina del focolare o ancella in una prigione dorata.

A volte è solo una stanza in particolare a farci timore, altre volte invece riusciamo a percepire come l’intera casa sia “gli occhi dell’anima”. Alcune voci descrivono oggetti traditori, che non trovano mai un loro luogo definitivo, oppure mobili che mantengono un valore speciale dei quali non ci si riesce a disfare. Per altre una nuova casa è la “cassa di risonanza per quel che cercano dentro”, in un moltiplicarsi di spostamenti e traslochi che rimandano una visione frammentata della propria esistenza. Spesso è l’ordine di alcuni oggetti che viene perennemente modificato, così da tentare di ricucire “qualcosa dentro che non funziona”. 

Le case, soprattutto quelle di famiglia, narrano più di quanto potremmo immaginare, ci rivela Giambrone, che con il suo sguardo indaga la silenziosa violenza delle relazioni di potere tra maschile e femminile. Nella performance del 2015 Giambrone era in piedi di fronte a un’asta da microfono che reggeva taglienti utensili da cucina, muti testimoni di tensioni e silenzi quotidiani, simbolo visivo di una violenza invisibile eppure presente. L’ambiente domestico diviene, nelle sue parole, al pari di un campo di battaglia, in cui “bisogna non ricordare nulla e provare a dormire senza sonno, ornarsi di amuleti. Avere fede nel fatto che saranno d’aiuto. Bisogna avere fede in qualsiasi segno. Ascoltare attentamente il proprio ventre. Agire secondo le proprie sensazioni”. In questo combattimento quotidiano Giambrone spinge a “Non tacere, perché non possano pensare che pensi a qualcosa. Parlare, così, giusto per parlare”, come recita uno dei punti enunciati nella lista di sopravvivenza di Nobody’s room (2015). In quest’ottica vanno lette molte delle sue opere, come Frames (2018) o Mirrors (2018), cornici ben disposte su di una mensola che, invece di foto di famiglia, mostrano le spine dell’acacia spinosa, pronte a pungere come certi ricordi e volti del nostro passato. La stessa pianta, usata per coronare la testa di Cristo, è protagonista dell’installazione Senza titolo con spine (2017), a rappresentare gli aspetti più inquietanti del domestico. In Borders (2018) Giambrone separa col filo spinato due lembi di un lenzuolo matrimoniale, mentre in Campo di battaglia (2017) sparge fiori e polvere da sparo su un tappeto persiano, che appare consunto da uno scontro cruento. Sono gli oggetti del quotidiano, come le posate incatenate di Cutlery (2016) o la carta da parati disegnata con l’interno della lametta da barba di Senza titolo (Wallpaper) (2008), a narrare un dolore silenzioso e soffuso, familiare e perciò ancora più amaro. Potete ascoltare Nobody’s Room. Anzi parla a questo indirizzo:

https://artsandculture.google.com/story/nobody-s-room-anzi-parla/twLyjcPcFaeOIg