Ruben Montini
Ruben Montini ©photo OKNO studio

Ruben Montini, Un figlio imprevisto

Intervista all’artista Ruben Montini per la performance Un figlio imprevisto a Varco Labile dell’Aquila

Torniamo a parlare dell’artista di origine sarda Ruben Montini, che ha presentato la sua ultima performance Un figlio imprevisto in uno spazio abruzzese, Varco Labile all’Aquila, fondato nel 2015 dall’artista Andrea Panarelli con il nome V.Ar.Co. – verdiartecontemporanea. Qui Montini il 6 settembre ha proposto un’azione performativa intima ed emozionantissima, per la prima volta con la collaborazione tecnica della pittrice Irene Balia (Iglesias 1985, vive e lavora a Milano). 

Montini, presentato da un testo del filosofo Lorenzo Bernini, ha rivissuto davanti agli spettatori la storia del suo concepimento, narrato dalla voce stessa di sua madre attraverso una registrazione in loop. Immobile per ore, nudo e con le braccia spalancate, Montini si è fatto dipingere di rosso sangue, il colore del sentimento e della vita, lasciando infine la sua impronta vuota in quello che, alla fine della performance, si rivela essere un ritratto di famiglia, con la figura materna distesa a gambe aperte proprio vicino al suo corpo, come lo avesse appena partorito.  Durante l’azione veniamo a sapere, dal racconto privato della voce materna, la malaugurata sorte che le è toccata prima della nascita dell’artista, durante la sua prima gravidanza, quella della sorella di Montini, quando, a un mese dal parto, è venuto a mancare l’amato fratello gemello. Nella sua immaginazione, vita e morte si sono confuse, turbandola profondamente e procurandole, durante la gravidanza dell’artista, non pochi problemi, che l’hanno costretta a letto per tutto il tempo, facendole vivere quel momento con estrema apprensione. Riviviamo così insieme all’artista i presentimenti e gli incubi legati al pensiero del suo concepimento, quando la madre si domandava quale sarebbe stato il pegno da pagare per questa nuova vita, se avesse dovuto sacrificare il figlio o un parente caro: “Facevo sempre lo stesso calcolo, un bimbo viene al mondo da me e un adulto se ne va”. Il trasporto emotivo è amplificato dalla lenta azione di pittura sullo sfondo, realizzata con pennelli appositamente applicati su lunghe e pesanti stecche. La domanda che la madre si poneva continuamente non era di sapere il sesso del figlio, e qui entra in gioco la riflessione sulle questioni di genere, care all’artista, quanto che il bambino o la bambina fossero sani e in salute: “Non abbiamo mai chiesto il sesso del nascituro. D’altra parte non era così importante il sesso; maschio o femmina sarebbe stato lo stesso. La cosa importante era che arrivasse e che arrivasse sano”. 

Imprevisto non era soltanto la perdita di qualcuno ma quello che sarebbe stato poi l’orientamento sessuale dell’artista che, nel suo vissuto personale, lo ha portato a sentirsi rifiutato a livello sociale da quello Stato- Madre dell’individuo, che invece di tutelarlo, lo discrimina, perché esula dall’eterosessualità dominante. Montini torna così a ribadire l’urgenza della legge contro i reati di omobitranspanfobia, che il 20 ottobre tornerà ad essere discussa in Parlamento, e che è necessaria affinché possa modificarsi la percezione culturale di ciò che consideriamo norma e che per forza di cose influenza anche le aspettative dei genitori sui loro figli e sulla loro identità di genere. 

Ruben Montini, Un figlio imprevisto, 2020 ©photo OKNO studio

Ascoltiamo direttamente le parole di Montini nell’intervista realizzata per l’occasione: 

Sibilla Panerai: Com’è nata l’idea di questa performance che, dal tuo vissuto personale, si innalza a tematiche nazionali?

Ruben Montini: È da tanto tempo che, da prospettive di volta in volta diverse, indago il tema della maternità nel mio lavoro. Penso alla performance MADRE del 2019, quando alla Aleš South-Bohemian Gallery, Hluboká nad Vltavou, in Repubblica Ceca, mi tatuai “Ti amerei per sempre” sulla pancia, una sorta di lettera a un bambino che mai potrò partorire, ma che amerei all’infinito se solo potessi concepirlo. Oppure quando mi feci trasformare il volto, così da assomigliare a mia madre subito dopo avermi partorito. O Lupa, quando nel 2016 a Palermo, al Caffè Internazionale di Stefania Galegati Shines, cercai di modificare il mio petto così da dargli la forma di due seni che allattano. 
Come spiega il comunicato stampa della performance, che è una vera e propria trascrizione integrale di uno scambio whatsapp tra me e il filosofo Lorenzo Bernini, col quale ho intessuto un dialogo molto interessante negli ultimi anni (scrisse anche Dare ragione a Kant, il testo che accompagnò la mia prima personale alla Prometeo Gallery di Ida Pisani a Milano nel 2017), tutto è nato mentre guardavo il primo episodio di “Pose”, la serie Netflix che racconta la ball culture newyorkese degli anni ’80. Qui Blanca, una delle mothers, dice a Damon (che poi adotterà come suo figlio nella sua House) “Quando tua madre e tuo padre ti respingono, sei sempre alla ricerca di qualcun* che sostituisca quell’amore che non hai avuto”. 
Da qui, tra me e Lorenzo Bernini è nato uno scambio estremamente interessante sull’essere figlio che cerca amore; cittadino che cerca protezione; che cosa significhi essere figlio omosessuale o transessuale; cosa possa significare essere genitore di un figlio omosessuale o transessuale: di un figlio imprevisto, appunto. 

SP: Come hai concepito il rapporto con la pittura e come si è rivelata questa esperienza? Pensi di avvicinarti al linguaggio pittorico in maniera più diretta in futuro?

RM: Io non sono del tutto nuovo alla pittura. O meglio, ho studiato Pittura all’Accademia di Belle Arti di Venezia e la mia performance, il mio modo di fare performance, viene dalla pittura. E dal disegno. Penso che ne sia una naturale evoluzione. Nell’ultimo periodo è possibile, infatti, vedere alcuni miei disegni sul mio profilo Instagram, che fino a poco tempo fa esponevo nelle mostre sempre e solo di fianco a strutture installative o momenti performatici più grandi. Oggi, invece, sono sempre più interessato a mostrare anche l’aspetto progettuale e l’elaborazione del pensiero che c’è prima, e a volte dopo, la performance. 
Nel caso specifico di Un Figlio Imprevisto, però, ho immaginato l’azione della pittura, della stesura del colore e della realizzazione del racconto visivo di ciò che mia madre racconta, come qualcosa che io subisco. E’ un’immagine che lentamente si forma su di me, attorno a me, attorno al mio corpo quasi inerme. Un pò come ho subito nella mia vita, nel bene e nel male, i traumi che mia madre racconta nell’audio del lavoro, legati alla perdita del suo gemello e al fatto che sia stata lei a trovare il corpo privo di vita. 
Ho avuto la fortuna di lavorare con Irene Balia, sicuramente una delle più grandi protagoniste della pittura figurativa italiana odierna, un’artista che amo profondamente, il cui lavoro trovo lirico, poetico, e al contempo rigoroso. Quest’estate ci siamo visti qualche volta e ci siamo sentiti molto spesso al telefono. Io a Verona, lei a Milano e poi a Sant’Antioco, in Sardegna, dove vivono i suoi genitori. Nella seconda metà di agosto, ho affittato una casa sull’isola di Carlo Forte, che dista circa 30 minuti di battello da Sant’Antioco, e ho portato lì in vacanza i miei genitori. Ho organizzato un pranzo, dunque, dove mia madre – molto preoccupata e intimidita dal fatto che la sua voce e la sua storia venissero rese pubbliche – ha avuto occasione di conoscere Irene e pensare insieme a lei anche a una formalizzazione visiva del racconto. 
Non è stato semplice, ma confidavo fin dal primo momento nella maestria e anche nella sensibilità di Irene Balia.

SP: Durante la performance ci sono stati dei momenti di forte emozione e per un momento il pubblico è stato invitato a lasciare la stanza. Se puoi raccontarmi un dettaglio o un particolare che non ti aspettavi accadesse durante la lavorazione o durante lo svolgimento della performance. 

RB: Io non provo mai le mie performance, ma le studio nei minimi particolari. Ovviamente conoscevo molto bene l’audio che mia madre aveva preparato per l’occasione. Una registrazione che, inizialmente, non ho accolto con favore. Anzi… avevo paura che fosse troppo personale e che per il pubblico potesse risultare impossibile immedesimarsi in quelle parole. Pensavo, anche, che forse sarebbe stato necessario tutelarla, in un certo senso; non sbandierare al pubblico una storia così dolorosa. 
Ma mia madre è stata molto ferma su questo punto: “O usi la registrazione vera, reale, oppure lasciamo perdere”. Aveva ragione lei. Il pubblico era coinvolto, attento, commosso: era impensabile dubitare della veridicità del racconto: una madre che racconta al figlio e al mondo intero i traumi del suo concepimento; e un figlio adulto che, per la prima volta in tanti anni di performance davanti al pubblico (alcune delle quali anche molto più estreme di questa), esplode in un pianto incontenibile; forse per il racconto della madre o forse perché – a una certa età – vorresti essere tu la persona in grado di proteggerla, e se potessi riavvolgere il nastro della storia, faresti di tutto per evitarle di vivere quelle tragedie.