In una notte di fine giugno, via Indipendenza a Bologna si è ritrovata all’alba quanto mai colorata e lottatrice, grazie a La lotta è fica di CHEAP, il progetto di public art con sede a Bologna fondato nel 2013 da sei donne (tra cui Sara Manfredi, Sonia Piedad Marinangeli, Elisa Placucci e Flavia Tommasini) che nel corso degli anni hanno reso la città una galleria a cielo aperto, veicolando messaggi di lotta alla violenza di genere. “Crediamo sia importante tornare nelle strade della città per riprendere un discorso pubblico che è stato interrotto: il nostro ruolo è quello di creare lo spazio perché questo avvenga, stimolare una riflessione collettiva per immagini e facilitarne la fruizione”, scrive CHEAP.

La lotta è fica ha proseguito questo filone, proponendo 25 manifesti realizzati da diverse artiste, illustratrici, grafiche, fotografe, perfomer e fumettiste, unite in nome del transfemminismo e dell’antirazzismo (immancabile la scritta “We can’t breathe” realizzato dal team di CHEAP in supporto al movimento Black Lives Matter). Il messaggio è forte ed è arrivato dritto allo sguardo inconsapevole dei passanti, costretti a prendere posizione su corpi queer e questioni di genere, amplificatesi durante le chiusure forzate per la pandemia. Ciò che CHEAP ha proposto sono corpi nudi che esulano dalla visione binaria e eteronormativa e che rivendicano un riconoscimento sociale. Corpi performativi e politici, non inquadrabili nei canoni prestabiliti, pronti a destabilizzare ed emozionare perché, si legge nel comunicato stampa di CHEAP “il dibattito vero dell’arte contemporanea oggi è attorno alla decolonizzazione come pratica artistica e riguarda tutte le figure coinvolte”. Si pensi ad artiste come Guerrilla Girls, Tania Bruguera, Kara Walker, che hanno in precedenza lavorato con CHEAP e a quelle coinvolte nell’attuale progetto, dalla provocazione di MissMe al sex positive di Chiaraliki.art, dal fat queer activism di Chiaralascura all’anticolonialismo di The Unapologetically Brown Series, fino ai corpi queer di To/Let, Claudia Pajewski & Camilla Carè e Silvia Calderoni. E ancora Fumettibrutti, Rita Petruccioli, Mariana Chiesa, Ilaria Grimaldi, Bastardilla, Joanna Gniady, Ivana Spinelli, Cristina Portolano, Giorgia Lancellotti, Maddalena Fragnito, Nicoz Balboa, Athena, Luchadora, Ritardo, Jul’Maroh, Flavia Biondi e Redville.
MissMe per “La lotta è FICA” un progetto di publ ic art di CHEAP (ph Michele Lapini).jpg Chiaraliki.art + Silvia Calderoni“La lotta è FICA ” un progetto di public art di CHEAP (ph Michele Lapini).j pg Claudia Pajewski e Camilla Caré per “La lotta è FI CA” un progetto di public art di CHEAP (ph Michele Lapini) .jpg Chiara La Scura per “La lotta è FICA” un progetto di public art di CHEAP
Presumibilmente perché è il più “reale”, il manifesto di Silvia Calderoni, performer, attrice e punta di diamante della compagnia Motus di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, ha destato più scalpore nell’ala perbenista e destrorsa del capoluogo emiliano. Calderoni ha fatto del suo corpo intersessuale il cuore di un fare performativo intenso e suggestivo nell’indimenticabile spettacolo MDLSX, politico inno alla libertà di essere al di là dei confini dell’identità e della pelle. La sua immagine chiama in causa i manifesti Queer e la performatività del genere di Judith Butler, il Manifesto Cyborg di Donna Haraway e il Manifesto Contra-sexual di Paul B. Preciado, autodeterninandosi in tutta la sua potente bellezza politica e performativa. Ma in questa occasione, al di fuori dei chiusi circuiti dell’arte e in mezzo alla strada, il corpo di Silvia è diventato oggetto di una vigliacca violenza verbale da tastiera, come solo i social media permettono, generando uno squallido body shaming che ha additato i manifesti come “una cartellonistica semipornografica”, “osceni e inquietanti”, “una lotta contro Dio e il suo creato”. Solo perché il poster di Silvia “apre un immaginario imprevedibile su ciò che i corpi possono essere e cosa possono fare. Ed è proprio per questo motivo che perturba chi vuole scrivere, in nome di una verità giusnaturalistica, una parola definitiva che ci privi persino della nostra libertà di scegliere come immaginarci e fin dove spingere il nostro desiderio”, scrive CRAAAZI, Centro di Ricerca e Archivio Autonomo Transfemministaqueer Alessandro Zijno di Bologna, che ha preso le difese della performer sui social con un’accorata e lucidissima riflessione. “Questo lavoro di Silvia mette ancora una volta, generosamente, in scena un corpo meraviglioso e imprevisto, capace di perturbare; ciò che l’arte deve fare, se non deve essere pura estetica. Produrre un altro immaginario mentre pensiamo a come distruggere i simboli del colonialismo, del patriarcato e della cultura dello stupro. Non riteniamo che i suoi lavori siano delle provocazioni, perché sebbene ci faccia piacere che spaventi bizzochi e moralisti, non ha loro come interlocutori, ma un mondo intero di persone, biografie e corpi, che sono solitamente violentemente espulsi dalla cornice della rappresentabilità. Rompe la regola che solo ciò la cui visione è tollerabile può essere messo in scena, perché rassicurante e da consumare. Pensiamo anche noi a tutte le bambine e i bambini che senza di lei non avrebbero un modello per immaginarsi fuori dai canoni stretti e angusti di quello che i maschietti e le femminucce devono fare per essere bravi e belle. Il suo corpo è suo e le appartiene, ma per noi non può essere un luogo di battaglia per speculazioni, perché è già un corpo politico che ha dato forma a tutto ciò a cui tendiamo, ma che ancora non eravamo state capaci di immaginarci, per scrivere altri futuri della rappresentazione, e più in generale, del mondo che vogliamo”.

Ed è anche in ragione di queste motivazioni che Calderoni è stata invitata a condurre un laboratorio di pratiche corporee presso la sezione Arti 2020 del Master in Studi e Politiche di Genere dell’Università di Roma Tre, realizzato in collaborazione con Short Theatre, festival di arti performative di Roma. Il modulo indaga i linguaggi contemporanei del corpo, della live arts e della performance art, basandosi sul concetto di performatività come teoria della contro-rappresentazione, in una relazione inedita tra politica ed estetica.
E intanto a Bologna CHEAP prosegue la sua missione con Reclaim, trecento manifesti di risposta alla call for artist annuale lanciata a gennaio sul tema della rivendicazione: “Rivendicare qualcosa che ti è stato tolto. Precluso. Qualcosa che è tuo. Sulla base di un diritto. O di un desiderio”, che sia il corpo, il tempo, lo spazio.
