Il pericolo individuato da Platone circa l’ingannevolezza dei sensi in virtù del fatto che essi possano impedire l’accesso alla luce della verità, è rivolta in modo particolare alle arti visive che hanno la capacità di offuscarla. Le immagini affascinano, attraggono, coinvolgono la dimensione irrazionale dell’uomo, possiedono una vitalità intrinseca capace di suscitare un’empatia che influenza il nostro mondo psichico e simbolico. I casi molteplici di damnatio memoriae, che la storia ci attesta, di fatto documentano come, ciclicamente, si manifesti un’esigenza distruttiva nei confronti del loro potere. Nina Carini è pienamente consapevole di questo rischio e il suo atteggiamento, marcatamente speculativo, vuole evitare l’immagine per non incorrere in questa tipologia di pericolose incursioni. Il suo linguaggio è quindi più interiore, poetico, svincolato dalla mera duplicazione del mondo.
Nel “Gioco delle evidenze” George Didi-Huberman dice testualmente: “Chiudi gli occhi e vedrai…Apriamo gli occhi per esperire ciò che non vediamo con evidenza (l’evidenza visibile), tuttavia ci riguarda come un’opera (un’opera visiva) di perdita. Certo, l’esperienza familiare di ciò che vediamo sembra per lo più dare luogo a un avere: vedendo qualcosa, abbiamo in generale l’impressione di guadagnare qualcosa. Ma la modalità del visibile diviene ineluttabile… quando vedere è sentire che qualcosa ci sfugge in maniera ineluttabile, o in altri termini: quando vedere è perdere”. A partire da questa constatazione l’artista sceglie l’installazione, il suono e il video come strumento di comunicazione.
Le opere presentate nella mostra alla Basilica di San Celso a Milano occupano sia gli spazi esterni che quelli interni dell’edificio di culto, in un rispetto profondo della sacralità del luogo. All’esterno è collocata l’installazione sonora “Le cose in pericolo (A,B,C,D,E…)”(2023), con testi tratti da Glossopetrae di Simona Menicocci e in collaborazione con i bambini degli Istituti Diaz e Antonio Scarpa di Milano. Queste parole, dette in una lingua incomprensibile, sono le tracce di una scomparsa, di qualcosa che sta per svanire, di una precarietà esistenziale e culturale che accompagna la nostra esistenza quotidiana. Se nel giardino antistante la Basilica le voci sembrano provenire dalla natura, dalle specie arboree, quello interno è occupato da installazioni che dialogano con l’infinito. “Venere Bugiarda 3032” (riformulazione di un’opera della collezione Enzo Nembrini) è una meditazione sul tempo, sugli astri e sul concetto di durata.
L’accostamento di materiali estremamente diversi tra loro, le sfere di alabastro e i vasi con i fiori disposti a creare un grande cerchio, sono un invito a riflettere sull’eternità ma anche sulla caducità delle cose. “Mani come rami che toccano il cielo”, realizzate durante una residenza d’artista presso la Fonderia Battaglia, si inseriscono perfettamente nella conca absidale di San Celso quasi a invocare una presenza celeste risolutrice. Analogamente, installazioni come “Occhi in lacrime” (2023), una colonna di cristalli in movimento che si ispira ad un pilastro con decorazioni a goccia della Basilica Cisterna di Istanbul, suggerisce un pianto continuo, un dolore muto, disteso nel tempo.
Anche le altre installazioni come “Lingue di cielo” (2023), fossili di crinoide disposti come se si trattasse di una costellazione, e “Senza voce”, scultura collocata dentro ad un confessionale, richiamano un vortice di pensieri, sono sculture poetiche che chiedono il silenzio e l’ascolto, sono aperture, “Aperçues”, continuamente in dialogo con il mondo.