Maurizio Calvesi, l’omaggio di Paolo Balmas

Maurizio Calvesi non c’è più. Al sistema dell’Arte rimangono i suoi scritti, il suo insegnamento e i ricordi di chi ha lavorato con lui. Come sempre quando l’ondata delle testimonianze che al momento si sta abbattendo sul bagnasciuga di Internet e sulle terze pagine dei quotidiani avrà perso vigore sarà possibile farsi un’idea di cosa, invece, rischiamo che rimanga tra le mani di un pubblico più generico, quello delle persone di media cultura non addentrate nei meandri dell’Arte, degli incolpevoli Don Abbondio, che, incontrando il suo nome nelle loro letture, si chiederanno: “Calvesi chi era costui ?” e magari schiacceranno pigramente il tasto di un qualsiasi motore di ricerca  senza poi proseguire con gli approfondimenti  a disposizione.

Ecco, l’omaggio che mi piacerebbe poter tributare a questa persona amica cui, a suo tempo, ho dedicato due interviste (Segno n. 19 del 1981 e Segno Critica e Documentazione n. 4 del 1992) e che nel 2000 volle affidarmi il compito di redigere uno dei saggi previsti per il Secondo Supplemento della Enciclopedia Universale dell’Arte (De Agostini) sarebbe proprio questo, riuscire a mettere sull’avviso i non specialisti circa tutti gli equivoci che già stanno svolazzando attorno alla sua figura appena divenuta postuma. 

Possibili equivoci, paradossalmente,  pronti a trarre alimento proprio da quelle che furono, invece, le sue doti più immediatamente evidenti: il garbo e la signorilità con cui riuscì sempre condurre un dibattito culturale spesso da lui stesso suscitato, la ineccepibile preparazione storico-critica di volta in volta palesata e la capacità immancabilmente  dimostrata di addentrarsi senza tentennamenti nel presente dell’Arte anche rispetto alle sue manifestazioni più estreme e apparentemente bizzarre.

Detto in altri termini, in un’epoca in cui le parole stanno cedendo il posto ai richiami stereotipi della tribù di turno, il libri servono solo  a decorare gli sfondi su cui si stagliano le silouettes degli opinion leader del momento, e le opere d’arte stanno sempre più strette entro le loro coordinate spazio-temporali, un personaggio come Maurizio Calvesi rischia sempre di più di essere percepito e classificato frettolosamente come un accademico di vecchio stampo che si è occupato di arte contemporanea solo quando ha potuto ritrovarvi gli stessi inusuali riferimenti storico-culturali da lui già adoperati per illuminare l’arte del XVI° e XVII° secolo di una luce misteriosa cui i suoi colleghi non avevano pensato.

Per evitare un simile sconcio di cui, a conti fatti, nessuno potrebbe essere considerato responsabile a mio avviso va ribadito con forza:
a) che il linguaggio limpido ed appropriato costantemente adottato da Calvesi è semplicemente quello che dovremmo e potremmo pretendere da tutti in ambito scientifico e di alto profilo didattico e che il confronto con quello assai più libero e trasgressivo adottato da altri operatori assai più coinvolti nella militanza a vario titolo è semplicemente improprio, 
b) che la sua ricerca sin dagli esordi si è mossa sui due fronti dell’Arte Rinascimentale seguita dal Manierismo e dal Barocco e dell’Avanguardia Storica seguita  dalle neoavanguardie della seconda metà del XX° secolo
c) che i nuovi riferimenti culturali da lui adottati in aggiunta a quelli già consolidati in ambito storiografico ovvero l’esoterismo e la psicoanalisi erano a dir poco improrogabili come ha dimostrato l’uso universale che oramai se ne fa (con maggiore o minore competenza).
d) che questi riferimenti culturali e molti altri ad essi aderenti sono sempre sati da lui confrontati e rifusi con il suo originale ripensamento di un metodo che ha avuto e continua ad avere un’indiscutibile peso nel campo degli studi storico artistici, quella “Iconologia” che ha avuto in Aby Warburg ed Erwin Panofsky i suoi iniziatori e può contare oggi su un ben consolidata compagine di continuatori
f) che il suo ripensamento della Iconologia in funzione di una critica in qualche modo più strettamente adottata sul campo,  non ha nulla a che vedere con una sorta di ingenua diagnostica fondata su di una impropria individuazione di sintomi eguali in opere di datazione distantissima, ma fa sempre riferimento ad una “icono-logica” (il termine è dello stesso Calvesi) che costruisce modelli ad ampio respiro da confrontare  sia con il presente che con il passato nell’ambito di una costruzione storica via via più solida ed affidabile.