Masticando il rumore-design di Giacon!

Giacon disegnando la «post-concertualità» abbatte ogni frontiera del rapporto tra pubblico e spettatore; così facendo, ne modifica l’essenza. Il pubblico non è più pensato come un insieme omogeneo di persone che osservano un oggetto, ma come un insieme di individui unici, che garantiscono la continua dinamicità e irripetibilità di ciascuna performance. Creare un’opera d’arte su un rapporto dinamico con il pubblico, magari filtrato dall’editoria, è un lavoro emotivamente, intellettualmente fisicamente molto faticoso, sia per l’artista che per il pubblico. L’arte di Giacon tocca le corde della nostra sensibilità, mettendosi in gioco in prima persona. Per questo possiamo affermare, nuovamente, che un’opera d’arte di Giacon non si osserva, non si guarda o non si legge: la si vive (ri/attraversandola) e la si crea (ripercorrendo i chilometri di rumore).

Secondo un’acuta definizione di Walter Benjamin gli illustratori alla Massimo Giacon sarebbero degli Augenmensch, soggetti, persone degli occhi. Nessuna passione è, in lui, più grande di quella di osservare la realtà circostante alla Musica e all’Arte, sia quella rock che quella sperimentale, soffermandosi soprattutto sui dettagli apparentemente più reconditi. Da qui la predilezione per “l’entomologia musicale” (gli insetti del rock and roll, altro che pietre rotolanti), cui ha dedicato gran parte delle sue escursioni concertistiche e del suo tempo di disegnatore, illustratore e evocazioni di spettacoli musicali. Molte delle sue musicografie vanno considerate come dei veri e propri esercizi di visionarietà [ubungen im sehen, direbbe Nina Hagen], in cui non è in gioco soltanto la corretta percezione del fenomeno musicale, ma quel senso profondo che la coscienza poetica moderna, spesso, non riesce a cogliere. Il gusto per la digestione del rumore.

Chi osa più pronunciare questa espressione? Chi avrebbe l’audacia di ripescarla dall’ultimo cassetto del proprio vocabolario neo-avanguardistico, per spingere via la polvere e la muffa? Non sono tempi: che significa poi, veramente, gusto e rumore? E le cose belle o rumorose chissà con certezza quali sono? Quelle che ti arrivano subito con dolcezza, o quelle che non si sa che cosa rumoreggiano, masticano e ingurgitano (per usare una terminologia cara a Giacon!)? Questi gli interrogativi segreti che si pone spesso l’ascoltatore comune che approdi a una qualunque “concertualità”, a un Festival di Musica Contemporanea, persino nei vecchi negozi di dischi. E anche di più quando si sente istintivamente attratto dal grottesco della parola musica pronunciata da Caparezza, dal gradasso dei Public Image LTD, dallo zumparappapà di Tonino Carotone, dal food raves di Bones UK, dall’audacia di Fat Boy Slim, il miracolo trash tra Sanscemo e Sanremo, le occupazioni-backstage dei Gorillaz post-banksiane. E pur quando si sente istintivamente attratto da un rumore generico o un rumore concettuale e melodioso, una performance che tende a confondere suoni e spettacolo, una confezione cabarettistica da uno spogliarello condito di effetti porno, lo show è fatto! Ti piace, è bello, gli dice il buon senso con atavica e, ahimè, flebile voce; ma subito dopo la sua coscienza moderna di disorientato figlio del secolo lo avverte di stare in guardia: c’è il grave rischio di non apparire all’altezza dei tempi, passare per uno che non ha ancora capito niente. E perché non si possa mai pensare di lui che non ha capito niente, rinuncia senz’altro a capire. Immagina un diluvio universale, enorme e invisibile – con un’infinità di siti, di soffocamento, di strani metalli stridenti – che non aspetta altro che di essere foriero di annullamento di possibilità, ovvero cancellarti il viaggio della salvezza, nella determinazione a non farti scegliere di essere né per l’armonia e né per il rumore. Farti avere paura di imbarcarti, di ignorare le ricchezze conquistate, perché si è già morti nell’assenza di emozioni; o farti salire sull’arca senza portare nulla per non sopravvivere a lungo.

Rumore, delirio e sound design: spesso e volentieri il mondo dello spettacolo musicale è legato ad un certo livello di aggressività. Un’enorme fetta di tutti i prodotti narrativi orbita attorno ai conflitti, prevedibilmente, molti di questi sfociano in soluzioni fisiche. Nella vita reale l’aggressione dello star system è un tema estremamente serio, ma nella realtà dei media non è sempre così. L’aggressione fisica può ricoprire vari ruoli: da quello serissimo che assume nel vero, a quello spettacolare dell’azione frenetica, fino ad arrivare a quello comico o slapstick. Ognuno di questi lati nella cultura dell’aggressività artistica va finemente regolato, vista la delicatezza nella vita di tutti i giorni (si fa per dire), cercando un equilibrio tra credibilità ed esagerazione, provocazione e gigantismo. Va da sé che il sonoro abbia un ruolo inestimabile in questa attitudine. Esempi di questo partono dalle esperienze nella commedia dell’arte, dove il personaggio Arlecchino, spesso soggetto a percosse, viene accompagnato da fragori volutamente esagerati. Pur apparendo visivamente reale, se uno schiaffo genera un suono, fuori dal normale, il surplus del suono accentua l’azione ma, allo stesso tempo, lo priva di qualsivoglia serietà. Frequentando, fin dagli anni giovanili, concerti di musica punk e new-wave non immaginavo che la mia generazione avesse saccheggiato questo universo memoriale, ma poi ben presto me ne sono accorto. Me ne accorsi quando vidi Peter Gabriel per la prima volta nell’esilarante interpretazione di Foxtrot, o quando poi vidi e seguii tutte le performance dei Killing Joke, confermandomi che lo “scherzetto, come dice Massimo, uccide ancora!”.

L’idea che l’immagine della musica sia fatta di corpo, di sostanza, e che ci sia tra iconico e illessicale, tra puramente visuale e fortemente corporeo, un legame inestricabile, è un pilastro narrativo della mitologia rock e della civiltà post-Woodstock. Il soggetto forse più rappresentativo dell’immagine come perfezionamento e idealizzazione spirituale del mondo fisico è quello dei performer sul palcoscenico, dea dell’amore per il rumore, della bellezza della musicaccia, della fertilità del pentagramma scompaginato. Nell’iconografia classica dello star system (musicografico) si coniugano la dimensione più eterea, che la vede splendida, apparire sulle spiagge dei raduni della seconda metà degli anni ‘70, e quella fortemente iconica e materica, dove la performance si presta ai gesti più umani per ripulirsi da ciò che è al tempo stesso scarto e origine.

Ciò che Giacon persegue, attraverso le sue bizzarre osservazioni musicografiche e le sue lucide memorie storico-epocali, è un progressivo affinamento dello sguardo, che consenta gradualmente di rendere sensibile il nostro occhio (e orecchio musicale) alla trama nascosta della realtà performatico-rumoristica tardo-moderna, e, al contempo, un progressivo potenziamento del giudizio critico, che permetteva (intendo in chiave generazionale) e permette di scorgere e sopportare la luminosità dei misteri che si celano dietro la riuscita o il flop di un concerto, e di cui i fenomeni discografici stessi non sono che superficiali manifestazioni.

Quante volte, di fronte alla lettura di un libro di novelle musicali, abbiamo sentito qualche lettore accanto a noi affermare: “Questo avrei potuto farlo anch’io”. È quasi inevitabile, davanti a molte opere, a molte stesure di corrispondenza tra grafica, design, arti visive, narrazione e diciamo anche poesia, che questo pensiero nasca nella mente dei frequentatori di questa “no man’s land”, o di coloro che sono meno interessati alla poliedricità dell’arte contemporanea, alle sue bizzarre coniugazioni e ai suoi atti di indisciplinata interdisciplinarietà.

Se un giovane alla fine degli studi musicali si ponesse la domanda “che cos’è la musica e cos’è oggi l’ascolto?”, potrebbe rispondersi soltanto con il buon senso appreso nella vita dello spettacolo e non già attraverso le nozioni culturali devozionali. La nostra musicologia non conosce campo dell’ascolto più confuso e contraddittorio della speculazione estetologica intorno ai problemi “politici” dell’ascolto. Ed anzi il senso comune enuncia sempre più un relativismo dei valori e la crisi dei grandi ideali. Pur tuttavia, se a quel giovane, così vivace dal punto di vista intellettuale capitasse fra le mani quest’ultimo libro di Giacon, “sulla commestibilità o meno dei chilometri di rumore”, ebbene il nostro ancora ingenuo lettore avrebbe l’impressione che i musicologi viventi, italiani e stranieri, non condividano assolutamente quel relativismo e quella indifferenza che permeano la nostra società musicale. Il grande pregio di questo volume è l’aver raccolto il lavoro dei più importanti e famosi artisti, performer e frontman della scena internazionale e di essere riuscito ad ottenere illustrazioni narrative parallele e autonome, in grado di testimoniare una storia.

Dopo la lettura di quest’ultimo Giacon, la prima impressione, la più immediata, quella che sarebbe restata dentro di noi meglio definita dalle altre, è stata quella di uno squilibrio/equilibrio, non stilistico ma mediale, contenutistico, fra la vicenda su cui è costruito il viaggio nel rumore e la scena musicale della nostra generazione. In quest’ultimo libro dell’artista-fumettista padovano è ancora la città dello spettacolo che fa da sfondo, come a continuare, in linea figurativa, il discorso sociologico e drammatico sui Residents, Tuxedomoon … iniziato ormai da molti, moltissimi anni. Un discorso che, per la sua natura, ha bisogno di una scenografia illustrata, così come La violenza illustrata di Nanni Balestrini. Attraversato da conflitti sociali, performance decise e provocatorie, dense di una singolare suggestiva nobiltà, il fondale del libro fa da punctum e da studium. Fondale – quello del rapporto “street view-rumore” – percorso anche da sensazioni fredde e cristalline, da vapori tossici, dal fruscio degli alberi bloccati: tra violenti decibel, dal sillabare del vento della memoria delle cose e tra i cuori che ormai sono solo pura memoria: Franco Battiato, Freak Antoni, The Clash, Pino Daniele, Enzo Jannacci, David Bowie, etc … Un fondale storico, insomma, in grado di corrispondere esemplarmente alle egregie evocazioni di Giacon: maestro della resa fumettografica e degli “ambienti autobiografici”, non soltanto nel senso letterario del termine, ma anche e principalmente nel senso plastico-pittorico-mediale.

I protagonisti di “Masticando km di Rumore” sono dei flaneur, osservati da un flaneur, ormai maturi. Degli abili ascoltatori, frequentatori di concerti musicali che si presentano dentro e fuori dal rumore, fruitori ed esecutori, a nome degli stessi Massimo Giacon & The Blass! Giacon, nella speranza di capire e di far capire, richiama alla mente un episodio del suo compleanno, dal quale era stato profondamente toccato, senza mai guarire o dimenticare. Un locale di Brescia e dei compagni come Fabio Bozzetto e Diego Zucchi, responsabili e colpevoli di riproporre Massimo Giacon & The Blass (2011). Fabio e Diego hanno un posto sui navigli a Milano, che usano come studio di prova musicale: si chiama Alienato e si occupa di animazione web e design. Lì, proprio lì, il libro di Giacon incontra le corrispondenze tra tutte le arti e mastica chilometri di rumore

Ma come ogni materia, anche quella mediale e artistico-musicale presenta le sue ferite. Nelle opere dei concerti la botta è topica e acuta. Ci racconta dell’opera di Diamanda Galas, di Bjork,de La Fura Dels Baus, di Emir Kusturica & No Smoking Orchestra, dove sono proprio quelle lesioni che fanno da protagoniste. Da quei tagli fino a Marylin Manson, Suicide, Killing Joke, Psychic TV, Tre Allegri Ragazzi Morti, scivola via del fegato, che è già materia organica in sé. Conservare quel sangue, quella traccia nella sua essenza più reale e non solo come memoria, ci ricorda chi siamo stati e da dove dobbiamo ripartire per rinascere. La presenza dei replicanti, poi, ci costringe a fare i conti con quelle nostre stesse cicatrici e, dal cambiamento che esse hanno apportato alla nostra persona, ripensarci in una forma nuova. Arte e medialità performatica si incontrano nella mutazione radicale dell’uno, che esce e ritorna continuamente a sé, ma ogni volta diverso. Ed è proprio questa perenne oscillazione del venire fuori da sé, dell’eccedere come essere artistico e medialista, che spesso spinge l’umano a corazzarsi di fronte alla vita dell’industria culturale. L’intimità della relazione musicale, come anche quella dell’arte, sono baratri che spaventano, perché è impossibile coglierne la fine.

Masticando Km di Rumore di Massimo Giacon, tavole supportate da prosa narrativa, ricostruzioni di performance di musicisti famosi, autobiografismo performatico, collage storico, montaggio critico, sberleffi dell’industria discografica, ricerca, sperimentazione, musica colta, frammenti di sociologismo e immaginario narrativo e psicologico, film, fotografismo. Cosa ci vuole, quindi, per far emergere questo sguardo complesso da flaneur? Molto più di quanto si possa immaginare. Lo sviluppo di nuove pratiche verbo-visive degli anni Sessanta, del secolo scorso, segna un punto di non ritorno verso una forma mediale completamente diversa da tutto ciò che la precede. Questo cambio di rotta, piuttosto improvviso, porta moltissimi intellettuali, artisti, poeti, critici d’arte a riflettere sulla natura metodologica dell’arte stessa e delle sue manifestazioni, in relazione al contesto circostante.

Infatti, con Massimo Giacon parliamo di senso e significato mediale dell’al di qua dei media, perché nella pratica artistica la corrispondenza progressiva tra le intermedialità performatiche acquista valore all’interno di un contesto specifico, fatto di esperienze vere e vissute, quelle esperienze che segnano la pratica della fiction artistica, che lasciano montare, costruendo per sempre e che si sublimano nell’estetica complessa di una azione (questo è quanto scrivevo a partire dai graffitisti del movement, nel 1984, in Città senza confine, a proposito della nascita del medialismo).

Il concetto di medialità implica un’eccedenza, esattamente come arte. Ferruccio Rossi Landi, nell’opera Il linguaggio come lavoro e come mercato nel 1968, sosteneva che l’opera d’arte è, nella riproduzione tecnica dello strumento messo insieme (o montante), allo stadio di riproducibilità alla seconda, alla terza; perché montabile e medializzabile (e come lo stesso mediale) e ci serba una forma comunicativa empirica. La medialità nasce da un eccesso di senso e discorso, che si spinge fuori e si rivolge all’altro che non potrà mai possedere. Nell’illustrazionismo combinato dall’editoria, M. Giacon, costantemente, tenta di cogliere quel inafferrabile del rumore e dei km storici che attraversano lo scenario e il contesto dell’opera nell’industria culturale. Ed è per questo che le pratiche artistiche intermediali, come il trasporto del flaneur, è l’unico modo che abbiamo per avvicinarci a quell’altro della riproduzione mediale così sfuggente, incontrandolo nella materia della musica, dell’editoria o di quella di una pratica artistica meta-installativa. Il nostro dialogo con M. Giacon inizia proprio da qui, dal concetto di nuova intermedialità verbo-visiva. Nella sua resa editoriale si mescolano disegno, pittura, illustrazione, cinema, video, musica, poesia, letteratura e chi più ne ha più ne metta: materie sintetiche e materie espanse, che si assemblano visualmente nell’interpretazione di una performance musicale di Therry Riley, Patti Smith, Gaznevada, Ramones, Iggy Pop, The Clash, Devo, Madness, Bauhaus, Nina Hagen, Frank Zappa, Miles Davis, Pere Ubu, The Residents, Diamanda Galas, Public Enemy, Red Hot Chili Peppers, Sonic Youth …

Nella medialità e nella ricostruzione a “tavole verbo-visuali” c’è immaginario effettivo che si trasforma e si rinnova. Presi dal vortice della “concertualità” o della “concertaccità” (Sanremo, Venditti, Righeira, Jo Squillo, Nada, Young Signorino, Faust’O, etc …), i soggetti settantasettini, ottantini, novantini dell’era mediale, duemilini, fino allo scempio popolulista dell’ultimo Sanremo, mutano forma, esattamente come la nostra vita ha mutato forma dopo quel concerto vissuto insieme a Freak Antoni e agli Skiantos contro Mastro Fuffa.

Il lungo racconto, come egli stesso lo definisce, che Giacon ci propone, si sviluppa intorno alla figura dell’esperto frequentatore e fan dei cento concerti indimenticabili, raccontati come un popolare appassionato che muove dall’empatia dei comics, della grafica e del design della musica.

Il flaneur ha spesso nei grandi drammi la funzione di coro o di filosofo, fra l’ironico e  il burlesco, commentatore di vicenda. Qui ci pare, invece, che il personaggio, creato dalla fertile fantasia poetica di Giacon – questo sempiterno giovane “mortalmente” coinvolto, crollato (forse con la gestione di molte anime illustrative e musicali) sulle assi del palcoscenico-cortile di famiglia-asfalto – sia, malgrado il suo volto impiastricciato di bianco e la sua maschera da saltimbanco, il protagonista di un viaggio, decorso dal momento del suo primo ascolto a quello in cui ha scritto e disegnato definitivamente il libro.

Sotto una luce pigra di armonie italiane, malinconiche (vedi la ricostruzione di Venditti, Tito Schipa jr. e il Perigeo), al suono di Mio padre ha un buco in gola[1973], il disegnatore padovano, tiratesi su le maniche della camicia, ha combattuto contro mulini a vento, senza cedere a nulla, e forse per questo, ha consolidato favorevolmente nella battaglia dell’ascolto quel nostro spirito ribelle e generazionale, iconoclasta e demolitore, e quella sua forza vitale, quella imperterrita e ossessiva voglia di vivere ed ascoltare la buona musica che avrebbero, sì, potuto innalzarlo al livello di artisti vestiti di velluto, ma che data la loro disperata spettacolarità non avrebbero mai potuto elevare la musica all’altezza di un saggio, capace di ergersi al di sopra delle resse e degli eventi.

E questa mancanza di equilibrio, un po’ punk, un po’ new-wave o new-romantic, così poco dub e discretamente rap, gli viene sempre rinfacciata dal suo alter ego: “a volte ci si trova ad assistere al concerto perfetto. Non è necessariamente il concerto del tuo gruppo preferito. Semplicemente, chi sta sul palco è nella sua forma migliore, nel momento migliore della carriera, dell’umore giusto e ha un sacco di energia da spararti in faccia” (vedi la descrizione de Il concerto perfetto (1999), con i 99 posse). Qui è il conflitto, questo il nocciolo della questione e anche il tallone di Achille della nostra generazione e dell’industria concertistica offerta dall’Italia. Da qui giunge la domanda fondamentale, l’inevitabile domanda, la grave interrogazione alle disperse identità del mondo dello spettacolo sonoro italiano, arrivati alla ribalta tra la seconda metà degli anni ’70 e l’intervento dei Gorillaz del 2020.

È ciò che emerge dall’opera di Giacon, da dove traspare il bisogno di corazzarsi di fronte al mondo, di fronte a quella vulnerabilità alla quale ci consegna la necessità mediale di eccedere, di farci altro da noi. Ciò nonostante la sfera del fumetto e dell’autobiografismo popolare e narrativo, mantenendosi salda nel suo centro, si libera dalla gravità rivolgendosi al cielo, mentre ci lascia aperto uno squarcio, che è impossibile chiudere: perché è proprio nella nostra natura il dare, come il ricevere, l’accogliere come il liberare. E qui ritorniamo al supporto della musica per quelli del ’77 e la generazione contro i Mastro Fuffa, nel momento in cui, consapevoli della nostra vulnerabilità, non possiamo fare altro che lasciarci andare. Per quanto un essere umano possa cercare una dimensione semplice e genuina nel suo vivere la scena musicale, ci sarà sempre qualcosa che ci condurrà verso l’inesplorabilità di noi stessi e dell’alterità. Il mistero della comunione carnale con il rumore, con i kilometri di rumore, diviene così medialmente e, nel caso di Giacon, anche artisticamente, ciò che ci prepara all’incanto post- auratico. Un’opera d’arte, come il rapporto con la propria band e l’autogestione dello star system, in una totale fusione con l’altro, desta in noi ancora sorpresa, timore, ma inevitabile attrazione.

Chiediamo a Giacon di descriverci, innanzitutto, cosa sia per lui l’attraversamento mediale di “chilometri di rumore”: da qui la sua idea prende una forma reale e concreta e, senza troppe note, arriva subito al cuore; mediale è ciò che passa attraverso il montaggio editoriale, il libro, e che lascia inevitabilmente traccia dentro di noi. E solo partendo da qui – dal connubio fra storia e memoria giovanile – che quella traccia, lasciata, depositata dentro un’anima, può ricollocarsi nel mondo come “rumore profondo”. 

Massimo Giacon
Masticando km di rumore
Feltrinelli Comics
17 giugno 2021
208 pagg., colore, €18.00
ISBN: 9788807550782