Chi è Luigi Auriemma? Un poeta o un artista visivo? Forse una sorta di ibrido alla maniera dei poeti visivi degli anni sessanta? Quest’ultima ipotesi ci conduce già più vicini alla sua identità, ma non ci siamo ancora! Nel 2018 egli declina tutto ciò in senso ambientale attraverso la sua mostra personale Corpus Carsico, curata da Patrizia Di Maggio presso la Certosa di San Giacomo a Capri. Con Donami una parola l’operazione si volge invece in senso relazionale, comportando un indebolimento dell’autorialità. Significativo è il paragone che Auriemma istituisce tra parola e scultura, giacché, almeno da Joseph Beuys in poi, la metafora scultorea è quella più accreditata a descrivere una attività artistica che intende la totalità delle facoltà umane come materia prima sulla quale e attraverso la quale operare, tanto è vero che l’artista tedesco parla di scultura sociale. Tale parallelo chiarisce appunto l’intenzione dell’artista napoletano di porsi a costruire attraverso la parola e il dono finestre di dialogo.
Parola e dono: due strumenti antichissimi. Circa la prima, entro una cultura giudaico-cristiana è difficile non pensare ad una parola, come scrive lo stesso Auriemma, che «si fa carne feconda e guarisce, attiva l’energia vitale, genera emozioni, riecheggia in noi trasformandoci, fluisce e risolve nodi energetici». La parola latina per indicare il secondo è munus, da cui comune, e quindi anche comunità o comunismo. Tutto ciò va tuttavia ad inserirsi in un mondo di virtualizzazione avanzata dei rapporti, un processo che la pandemia, con tutto il suo portato di restrizioni alla socialità, non fa che accelerare e consolidare ulteriormente. Ecco perché se il progetto nasce come performance tenutasi alla fine del 2019 nello spazio fisico del Macro Asilo, ove le parole donate sono raccolte in forma di certificazione firmata e controfirmata timbrata e bollata dall’artista, con l’emergenza sanitaria esso si adatta facilmente ai relativamente nuovi modi di socialità.
Il pensiero complesso è una salita sempre più ripida, per i più giovani ma non solo, mentre l’esperienza cognitivo-percettiva trova il suo paradigma più proprio nel fotogramma, o al massimo nel breve video. L’atrofizzazione di fatto di alcune zone del cervello è già qualcosa di più che una minaccia. Da questo punto di vista la scelta di Auriemma di basicizzare gli strumenti del linguaggio verbale – non vi è probabilmente unità minima di significato codificato al di sotto della parola, giacché la sillaba, per non parlare della lettera, non può congruamente aspirare a ciò -, ma di associarla a quello che è ormai una sorta di koinè – piaccia o meno – del nostro presente – anche se non è detto che ciò sia destinato a durare ancora per molto -, ovvero il selfie – che si aggiunge appunto alla parola nella seconda fase del progetto, quella “post-Codogno” -, risulta di grande interesse.
Da una parte infatti in tal modo tutto appare di una estrema, immediata leggibilità; dall’altra però offre l’occasione al fruitore, al di là dello stesso dialogo bilaterale tra artista e soggetto invitato a donare una parola, oltre che la sua immagine – e qui risiede un aspetto di relazione forse meno evidente ma anche più stimolante -, di immergersi in quel mistero del non detto – e non necessariamente dicibile – che da tempi assai remoti è capace di toccare le corde più profonde della spiritualità umana. Il fruitore è dunque tacitamente invitato ad un lavoro di scavo, essendo portato a chiedersi: perché quella parola? In quale accezione? Quale verbo o quale aggettivo potrebbe immediatamente giustapporsi ad essa? O ancora: cos’ha in comune quella parola con il soggetto che l’ha proposta? È forse possibile leggere nella sua mimica facciale, nella sua prossemica una corrispondenza con quella parola? È così che il fruitore accede ad una sorta di lateralità obliqua, che sarà tanto più significativa quanto è ampia la sua vena problematico-immaginifica e quanto più naturalmente egli è disposto a violare la mera attitudine allo sguardo istantaneo che comprende tutt’al più un istante aggiuntivo per interagire con un mi piace, con una smile o altre similari reazioni programmate.
Ne scaturisce una sorta di archivio sociale, ma un archivio che non ha nulla del polveroso ed inaccessibile immaginario connesso a tale luogo. Si tratta al contrario di un archivio fortemente dinamico e non solo e non tanto perché in progress, ma proprio per questa possibilità di ulteriore sviluppo affidato alla forza interrogativa potenzialmente infinita del riguardante. Un proposito non di meno destinato felicemente al fallimento nella misura in cui si propone di archiviare la complessità irriducibile dei moti umani rispetto a quei singoli esemplari verbo-visivi. Parimenti fallisce nel momento in cui l’operazione si pone come tentativo di definizione dell’arte, così come ogni altro sforzo storicamente mossosi in tale senso. Ma il fascino dell’arte, il motivo per cui vale la pena incrociare la propria vita con essa, si alimentano proprio di tali fallimenti!