Giulio Paolini, Alessandro, 1992

Lo stadio dell’arte

Sui “valori” dell’arte e le chiacchiere da stadio.

Proprio ieri una collega mi invitava a iscrivermi, presso un social americano, al gruppo “Conte premier”; un altro, di diverso orientamento, voleva invece festeggiare la sua prossima caduta. Come se me ne importasse qualcosa. Che posso farci? Alla domanda “tu per chi tifi” rispondo sempre “non ce l’ho, il tifo”. Il che non mi impedisce – come sanno gli amici, che se ne stanno appollaiati alla tastiera in attesa di una scusa per tirarmi nell’agone – di seguire con una certa attenzione la politica italiana. Ciò che forse non sanno è che il mio unico interesse è stilistico; vado letteralmente pazzo per le solenni allocuzioni: veri e propri pezzi di bravura che, da quando le sedute di Camera e Senato sono tramesse in diretta dal Tg di Mentana, si sono fatti rari.

Quasi tutti i Cicerone i Demostene e i Catone, consapevoli di venire ascoltati da legioni di elettori, prediligono infatti la “comunicazione efficace” di cui si scandalizzava il gruppo “misto” (!) di politici e intellettuali – Padellaro, Giannini, Carofiglio – ospitato dalla Gruber il 19 sera: linguaggio che ha per parola-tema la cara “poltrona”. Utilissimo strumento, ingiustamente calunniato! Mi consolo pensando che, qualora fossi un mobiliere altoatesino, ci rimarrei anche più male. 

Fortunatamente alcuni “Maestri” rialzano la media: tra questi Conte, coi suoi latinorum, e il Vittorio nazionale, il cui “si dimetta e vada in Cina” rivolto al Caro Leader non potrà che rimanere negli annali. 

Vittorio sì che sa parlare. Date un’occhiata al suo video commento, su Facebook, alla crisi di governo: “Chi di voi aveva mai sentito nominare Conte prima che due padrini o due alleati decidessero, non volendo litigare, o non potendo prevalere l’uno sull’altro, un terzo nome, di loro comodo, un loro vice per governare l’Italia? I due furono, come ricorderete, Salvini e Di Maio. In questa dimensione di coppie di fatto, possiamo dire che Conte è il loro figlio: è un parto anale”. In calce, tra i feedback dei seguaci, puntellata da centinaia di “mi piace”, l’incredibile frase: “Ascoltarti è un immenso piacere, la tua intelligenza suprema diventa umile per tutti noi!!! Grazie, sei un vero Maestro!!!”. 

Una volta avevamo Dante, adesso Sgarbi. E la lista si allunga. Sempre ieri, drenando la posta, ho trovato un Amarcord di Politi – niente a che vedere con l’eleganza di prima, ma il dettato non è meno urticante – ispirato a un paio di articoli di Bruno Ceccobelli su “ArtsLife”, molto duri riguardo ai “valori” dell’arte contemporanea: “Il simpatico e bravissimo Bruno, dal suo eremo di Todi, che immagino bellissimo e gradevolissimo, dove si vive da dio e si mangia anche meglio, ma certamente un po’ fuori dal tempo e dalla storia della creatività e dell’innovazione […], ama ergersi a Vate della cultura nuova, auspicando, con l’aiuto della Covid-19, una sorta di nuovo Rinascimento che forse dovrebbe partire proprio da Todi, accusando dei cambiamenti degli ultimi 60 anni e che a lui sembrano innaturali: i poteri forti delle gallerie, le mafie culturali che si sono appropriate della creatività contemporanea e dell’imprimatur per creare artisti e il sempreverde all’occorrenza 1968. Ma questa è anche la visione di centinaia, di migliaia, forse milioni di artisti di tutto il mondo (e il 99% degli artisti italiani?). La loro mancata scalata ai vertici della notorietà nazionale o internazionale è dovuta agli altri, che sono cattivi, opportunisti, cinici, sostenuti dal mercato e ostaggio dei poteri forti. Invece non vogliono capire che esiste un’arte da Champions League, di serie A-B-C-D-E-Z”. 

Povero Ceccobelli. E poveri i “milioni” di artisti mondiali. In realtà, come Marco Tonelli ha risposto d’ufficio sulle colonne di “ArtsLife”, “l’accanimento, seppur bonario e ironico di Politi versus Bruno Ceccobelli […], fatto passare per artista fuori del mondo, un non combattente, un guru a cui il successo non avrebbe arriso, al punto da praticare l’arte come forma di ‘terapia o relax’” è un pelino eccessivo. Non ha forse “il simpatico e bravissimo Bruno” realizzato “mostre personali in tutto il mondo”? 

Con rispetto parlando, il punto è un altro. Non diversamente dai politici nostrani in questa (tragica) fine campionato, l’artista e il critico discettano senza mai guardarsi in faccia di argomenti differenti: Ceccobelli di creazione artistica, Politi di successo. 

Come negare che, per conseguire quest’ultimo, le doti necessarie siano – lo sostiene il fondatore di “Flash Art” – “organizzazione” e “programmazione”? Bisogna essere lucidi e aggressivi. Trovarsi al posto giusto al momento giusto. Fare scelte dolorose, anche a detrimento di chi ci sta vicino. In una parola, comportarsi da sciacalli. 

E come negare che le logiche usa e getta del mercato siano mortificanti per chi ha bisogno di riflettere nel calibrare il suo messaggio? 

Certo è che leggendo le smargiassate di Koons che confida a Politi “Io sono il solo artista eterno. Il mio lavoro, prodotto anche dai fornitori della NASA, è garantito per 10 mila anni. Chi come me?”, o di Damien Hirst che gli racconta “I miei compagni di classe, i Blur (un famoso gruppo musicale degli anni ’90) hanno già l’aereo personale. Io non conosco alcun artista che a questa età (19-20 anni) abbia l’aereo personale. Io sarò il primo!” – pasticche analoghe a quelle che, sino allo scorso anno, assumevamo al bar ogni mattina con due dita di zucchero sorseggiando il caffè – a me è venuto in mente Goya. 

Anche lui, come i Ronaldo dell’arte, a costo di stringere un matrimonio di comodo, e di dipingere come il più vacuo e scipito degli epigoni di Mengs – si veda il Cristo efebico con cui fu accolto a braccia aperte in Accademia – riesce infine a stabilirsi a corte, garantendosi quell’agiatezza economica e quel prestigio sociale disperatamente cercati. 

Ma la corte, con tutte le sue glorie, non gli basta. Complice la malattia che lo isola dal mondo (il Covid di cui parlava Ceccobelli?), fa esperienza del buio, e i fantasmi che incontra la notte, che non lo lasciano alla luce del giorno, divengono qualcosa di più delle bandiere del suo tempo (come negare che le pillole di Hirst lo siano del nostro?): sono le generalità del Male.

Bene, se Goya fosse rimasto il pittore degli arazzi, o dei ritratti al bel mondo, sarebbe mai diventato il genio universale che tutti conosciamo? 

Le sue creazioni realmente necessarie, come le Pitture nere o i Disastri della Guerra, non sono forse quelle che, una volta conseguita la piena indipendenza, egli dipinse per se stesso

Il consenso del pubblico non conduce alla grandezza – anche di questo Politi è consapevole: “Sostituire Jeff Koons e Damien Hirst con un artista africano? Un gioco. E forse un divertimento” – ma lo stesso può dirsi per la mancanza di successo in cui troppi si crogiolano neanche fosse un vanto. 

A chi credere allora? Come scriveva un poeta ceco di cui non ricordo il nome, “c’è un diavolo che sa, ma solo ciò che sta laggiù, c’è un angelo che sa, ma solo ciò che sta lassù”.

Che è come dire: per ogni Letizia Moratti col suo “PIL” – penso alla proposta degna d’Ippocrate di elargire vaccini in base al censo: è poi così lontana dall’idea che la grandezza corrisponda al conto in banca? – c’è un Cetto La Qualunque col suo peperoncino e col suo “pilu”.

Aspettiamo. Il tempo giusto giudice non mancherà di rispondere: non appena, s’intende, non lo potremo più ascoltare.