Dettaglio di un lavoro di Stelio Maria Martini

Alla ricerca del nome e del suo ri-trarsi [prima parte]

«Quanto più consideriamo l’essenza dell’immagine, tanto più misteriosa diventa l’essenza del ritratto». In che senso è possibile parlare di un ritratto sconosciuto nell’epoca del dispiegamento planetario della tecnica del ritratto? O forse proprio la nostra epoca, l’eta dei ritratti sconosciuti, coincide con l’irrevocabile fine della presenza della persona? Tutte le identità indistintamente, infatti, non si sono forse polverizzate in una miriade di modalità fotografiche che segnano il tramondo della forma di riconoscibilità che ha caratterizzato l’esistenza umana fin dai suoi primordi? Eppure, come si può evincere dalle parole di questo nuovo saggio-racconto, fotografia e «identità riconoscibile» non sono semplicemente due forme di sapere l’una successiva all’altra o modi del vedere reciprocamente alternativi, ma poli in tensione tragica dell’essere fotografico che, contemporaneamente, ne definiscono l’essenza.

1. Il mercatino era sempre lì, in quella strada non lontana dalla piazza principale. Aveva una cadenza settimanale, tutte le domeniche puntualmente: fuori dal tempo del Covid 19. 
Le bancarelle disposte ai lati, sui marciapiedi; in mezzo tanta gente, visitatori occasionali abitudinari, per la curiosità di vedere, toccare e forse comprare qualcosa anche inutile. La merce era esposta, alcuni oggetti alla rinfusa, senza ordine. 
Cose vecchie, antiche, che alimentavano fantasie di epoche passate e potevano essere utilizzate solamente come soprammobili. 
Si trovava di tutto, ogni necessità poteva essere soddisfatta, ogni desiderio poteva essere monetizzato, l’importante mettersi d’accordo sul prezzo; mercanteggiare era la prassi e il mio spirito da piccolo mercante mi dava gusto. I venditori invitavano a comprare, le grida di giubilo erano da tenori e baritoni, dimostravano che i loro oggetti erano di qualità e molto convenienti. I rigattieri non mancavano, esponevano mobili antichi da restaurare. 

I visitatori erano di tutte le età e condizioni; signore in pelliccia e, eleganti, ben curate, famiglie con genitori e figli, ragazzi alla ricerca di indumenti alla moda, a volte denigratori dell’estetica e, collezionisti di vario genere. La confusione mi ha sempre infastidito e le fiere, per costituzione, sono affollate, ma quel mercato lì sembrava adatto alle mie curiosità, faceva transitare bene i miei desideri di bibliofilo, di iconologo e di interprete di immagini allegoriche. Quella domenica dovevo accompagnare un mio parente, ospite provvisorio, curioso di vedere quel particolare luogo di commercio.
Non potevo esimermi da quest’obbligo anche se mi costava sacrificio. 
Ho rinunciato malvolentieri all’ozio mattutino domenicale atteso per 6 giorni e, fingendo disponibilità, di buon’ora ci siamo incamminati verso quel posto che destava curiosità, quel posto che per un piccolo conoscitore d’arte e soprattutto di fotografia poteva eccitare intendimenti, sorprese e compravendite. 

Poco più di un chilometro separava casa mia dal mercatino e, data la breve distanza, abbiamo deciso di cogliere l’occasione per farci una passeggiata. La giornata, assolata, invitava a camminare. Incontravamo molte persone, tutte dirette verso il luogo dove la domanda e l’offerta erano alla base di tutto. Sembrava un giorno di festa, di ricorrenza religiosa, in cui il pagano teneva poco conto del sacro. Finalmente la folla ci ha inghiottiti, si sentivano gli odori, più o meno gradevoli, che le persone più vicine emanavano, non tutti erano freschi di doccia. 

Capi di vestiario, probabilmente usati, appesi come se fossero panni ad asciugare, davano inizio ad un lungo susseguirsi di negozi accampati, provvisori, con forme diverse. L’abbigliamento predominava. Camminare non era agevole, proseguire si doveva, la visita era irrinunciabile. 

Si trovava di tutto: macchine fotografiche, obiettivi intercambiabili, vecchi diaproiettori 8, polarizzatori, vecchie Hasselblad 500 C/M, Polaroid 105, Zenit, reflex, auto zoom zuiko, Olympus om, macro, flash megablitz, registratori, telecamere, rullini per foto, accessori e gomme per auto, pezzi di carrozzeria. Mobili antichi, opachi, da sistemare, sparsi alla rinfusa davano la sensazione che ci fosse in atto un trasloco. L’osservazione, sempre più attenta, mi incitava la curiosità, anche se conoscevo abbastanza bene il genere degli articoli esposti. Molti oggetti rappresentavano epoche lontane, quando l’uomo cominciava ad inventare per soddisfare primarie e voluttuarie esigenze. In un angolo, una piccola fotografia seminascosta da vecchie cose per un uso incomprensibile, destò in me un interesse spontaneo. La cornice era vecchia, rovinata a tratti. Rappresentava un viso di giovane donna dai lineamenti dolci, sfumati, ritratto da mano sicura. Il colore, in bianco e nero, manteneva intatte le tonalità.

Chiesi di vederla, mi fu subito mostrata. Osservarla da vicino rafforzò la mia sensazione, aveva qualcosa di particolare. 

L’altezza della curiosità è commisurata all’altezza dell’ipotesi e dell’attrazione. Quella iconologica si differenzia da tutte le altre per la indispensabilità, ai fini della sua verifica, della totalità empirica. Totalità che investe l’universo empirico del critico, comprendendo tutti gli aspetti. Nessun tratto e nessun tipo di esperienza dello sguardo può essere trascurato. Tutto è necessario per la verifica. Guardare ciò che ci incuriosisce è coinvolgimento letterario pieno. L’ipotesi, per essere iconologica, deve avere la capacità di coinvolgere ogni angolo della nostra esperienza e del nostro guardare. Deve essere dotata della possibilità omni/estensiva, una possibilità che ho sempre chiesto alla foto, che ho sempre cercato in una foto, ma che oggi ancora – nonostante l’amore per le immagini fotografiche – non sono riuscito a trovare. La domanda omni/estensiva dovrebbe essere la sua caratteristica di protesi umana e, invece, è diventata la sua caratteristica di protesi tecnologica: essendo, oggi, la foto – come vado dicendo sin dall’inizio della teorizzazione mediale – la base della nuova offerta schermatica. Diversamente viene a coincidere inevitabilmente con gli altri rami del sapere. L’unica ipotesi che gode di questa caratteristica è quella dell’identità dello scrittore. L’unica che impone, per la sua verifica, l’autochiarimento totale: ovvero la voce che commenta l’immagine, la voce che è di qua e di là dallo schermo. La sua ricerca, la sua voce, impone il chiarimento totale. Ma se l’istanza è dell’autochiarimento totale vuol dire che il problema dell’immagine si pone come esigenza di venire in chiaro con se stessi e di se stessi, al di fuori dell’immagine e della distanza che ci separa da quel reperto di realtà, da quella istantanea. Una domanda che si pone come un’esigenza di conoscere la propria identità in rapporto al proprio sguardo è una domanda sul riconoscimento di certe somiglianze, di certe interrogazioni dello sguardo. Venire in chiaro con il proprio sguardo è una necessità, un imperativo esistenziale. Diversamente la vita è resa difficile dall’incertezza del riconoscimento, dal disorientamento filologico, dell’imprevedibile dell’expertise. Ma non tutti i guardanti, non tutti i cercatori, sentono questo sacrosanto obbligo nel modo adeguato. Non tutti si impegnano a guardare e a cercare nello stesso modo. L’incompletezza e l’insufficienza dell’analisi di un reperto iconologico o iconografico sono ricorrenti quanto gli errori di acquisto al mercatino. Spesso la causa è nella superficialità nella quale si conduce la vita e si conducono le scelte di relazione. Spesso il frastuono, la mondanità, l’alienazione della vita sociale del guardante (del connaisseur) impediscono, o indeboliscono lo sforzo autocoscienziale del vedente. Situazioni devianti dello sguardo e della cultura del vedere, che comunque non cancellano né possono cancellare l’istanza dell’identità di uno strumento espressivo al posto di un altro, ma, certamente, mistificano sostituendolo con un’altra immagine-istanza inautentica, surrogatoria, impropria. Forse l’imponente casistica dell’insoddisfazione e della delinquenza trova in questa sostituzione di visioni la sua ultima causa. 

Ma, detto ciò a me stesso, il prezzo era accessibile e la comprai. La visita proseguiva, io con la fotografia avvolta in un foglio di carta sotto il braccio e il mio parente ancora alla ricerca di qualcosa che non riusciva a trovare. Avevamo visitato, guardato, chiesto, non trovavamo altro che ci potesse interessare. La stanchezza cominciava a farsi sentire, finalmente decidemmo di far ritorno a casa percorrendo un’altra strada meno affollata. Il passo spedito ci aiutò ad arrivare in poco tempo, ma la delusione di non aver trovato qualcosa di interessante si leggeva sul volto del mio ospite. Evasivi furono i commenti sulla visita, d’altronde, con un conoscitore di stampe d’arte che, prima di comprare, tentava di filosofeggiare con immagini statiche, non c’era niente da commentare. 

Ancora avvolta nella carta, poggiai la fotografia su una poltrona assicurandomi che non scivolasse. 

Visitando qualche museo e posti rinomati della città, trascorsero tre giorni. 

Il mio fugace inquilino partì ed io ritornai alla vita di tutti i giorni, con le mie abitudini e la monotonia che ti impone una vita senza tante pretese. 

La fotografia stava lì, poggiata sullo schienale di una poltrona, nascosta da un labile sipario e pronta a rivelarsi nella sua interezza. Quel viso era impresso nella mia mente, mi dava una sensazione inspiegabile, interiore. 

L’autore, in quell’immagine, avrà espresso il suo sentire come in una foto che l’obiettivo coglie in un momento particolare. Passarono alcuni giorni, era giunto il momento di dargli una collocazione in un posto un po’ appartato, dove l’osservazione non poteva subire distrazioni. Trovai l’angolo adatto, la fotografia era esposta, pronta all’analisi, a trarre sensazioni che la foto, soprattutto la foto in bianco e nero, qualche volta genera o può generare. Lo sguardo intenso di un volto morbido ma statico penetrava, mi seguiva, come se dovesse invitarmi ad un dialogo, chiedermi dei perché, magari farmi qualche domanda sulla mia infanzia, sulla mia memoria, sui tratti di somiglianza con mia madre. La fotografia che mi guardava: “Dama celebre, del celebre ignoto, per la sublimità del suo spirito e per la profondità della sua dottrina fotografica”, mi aveva sottoposto un quesito: era un problema scientifico, ma le urgeva una soluzione, perché doveva aiutare una sua protetta, di nome Cameron, la quale stava appassendo come un fiore reciso, non potendo più comunicare con l’autenticità della sua arte. 

Fotogramma da La donna del ritratto di Fritz Lang del 1944

Questa foto ignota aveva degli occhi bellissimi che fissavano un ricordo lontano; la luce che una volta li aveva resi stupendi si andava spegnendo lentamente. Era una splendida fanciulla napoletana, innamoratissima della Madre Teresa, fiera guerriera della stessa terra, catturata dal narcisismo dell’espressione e data in ostaggio ad una cultura maschile, un certo simbolismo patriarcale. 

Costui l’aveva portata con sé, nei suoi giorni ed innamorato di tanta bellezza le aveva proposto il proprio amore, offrendosi persino di condurla all’altare. Gentiluomo un po distratto dagli anni, molto in vista a casa propria, aveva strappato a quella splendida donna, primitiva creatura, figlia di un ebraismo-greco, quasi archeologico, tutti gli usi, i linguaggi ed i costumi indispensabili per poter avere una vita sociale con lui, una vita sociale nello specchio di una fotografia. L’aveva interiorizzata talmente per poterla, degnamente, presentare a tutti come la sua fotografia. 

Ma Mimmina, fedele a Camillo, forse, gli aveva offerto solo un’amicizia autentica, mantenendosi peraltro in comunicazione con il suo uomo per mezzo di missive composte col sistema dei cordoncini colorati, indecifrabili per le scritture ultra-fotografiche deluse. 

Le foto-cartolina o le cartoline-fotografiche, per dirla come usavano i conquistadores, erano un insieme di messaggini usati dagli innamorati quale rudimentale mezzo di comunicazione, per esprimersi a seconda del numero dei fotogrammi e del diverso colore. 

Tecnicamente non si trattava di un alfabeto, in quanto non prevedeva un numero finito di lettere con cui si poteva costruire un numero infinito di parole e, quindi, tutta la realtà visibile ed invisibile, concreta ed astratta, presente ed assente, futura e remota. Si trattava invece di una comunicazione che si muoveva in un dominio dai confini netti, parte figurata da una foto e parte parlata e scritta sul retro della stessa fotografia. Se ci si ponesse a guardare e a leggere quei recto e verso delle foto si sentirebbero alcune parole che all’ascoltatore risulterebbero prive di significato; vedendo i suoi sogni e i suoi affetti si capirebbe che quelle parole sono i commenti alle immagini di quei reperti fotografici. 

Le parole sono il completamento del pensiero del fotografo, che le immagini non riescono a rappresentare. 

Un’immagine esprime un fatto che si vuole comunicare, ma un’assenza di figure non può non rappresentare un non fatto, perché il nulla è un non fatto di tutti i fatti che quella stessa foto mi rievocava. 

Quante volte chi non guarda, in preda ad un incubo, si sveglia da quella istantanea distrazione e sguardando nel vuoto e angosciato grida “No … non è possibile … non farlo”, parla con te stesso di un’assenza, l’assenza di quella stessa immagine che avevo flessibilmente acquistato come copia dell’assenza!

È ovvio che, un tal modo di comunicare, agli occhi di un’aristotelica cultura eurocentrica, risultava totalmente incomprensibile: ed era questo problema che quell’immagine acquistata o barattata mi sfidava a risolvere

La memoria di mio padre inveiva contro la nudità di quella povera mia madre, o di quella stessa somiglianza con mia madre, accusandola di aver tradito la sua fiducia di non essergli grato per averla resa una raffinata madre di me stesso. Folle di gelosia, aveva privato la ragazza delle sue foto, segregandola nella propria splendida casa e le aveva impedito qualsiasi comunicazione con il suo amore lontano. 

Mio padre impazziva per il suo amore filtrato attraverso l’amore per suo figlio. Soffriva e diventava violento. La frustrazione, che provava di fronte ai continui momenti di concentrazione, eccitava la sua fantasia e allora la sua macchina fotografica diveniva un terribile strumento di sintesi istantanea, tutto fuorché sola ripresa fotografica. 

Il corpo ripiegato di mia madre, la sua passività ascetica, gli occhi rivolti nel vuoto, il suo mutismo esprimevano chiaramente quel rifiuto della realtà, che le labbra non riuscivano ad articolare e che quella foto mi riportava alla memoria, ogni volta che la guardavo e riguardavo. 

“Sarò il tuo specchio fotografico”, sibilava l’improvvisato fotografo, all’orecchio di mia madre, mentre la teneva sotto osservazione con quegli obiettivi e quelle fotocamere di vecchia fattura, prima di provare a rifotografarla.

Mio padre con la sua sensibilissima Leica scattava la bellezza di mia madre per ore. Con la sua osservazione riusciva ad amarla, innamorato delle sue stesse stampe fotografiche. 

Fotografava, non fotografato, una donna che non lo guardava. 

D’altronde, il sommo Lucrezio ha descritto compiutamente alcuni aspetti strani dello sguardo, scrivendo ad esempio: “ … Perché talvolta è palese che il corpo soffre all’esterno, mentre gioisce lo spirito nella sua sede recondita, ed a volte capita, invece, che si invertano le parti, ed un tale, afflitto nell’anima, in tutto il corpo stia bene …”

In fotografia, il desiderio si trasforma in una voglia infinita ed insaziabile, che non si può placare; perché è dovuta all’illusione di poter spegnere l’inesorabile passione del sentimento dello sguardo, attraverso il possesso totale del clic. I pensieri sfuggono e solo fotografando il corpo vivo che li pensa riesce a dominare il desiderio dell’immagine. 

Solo distruggendo il vedere, attraverso l’istantanea, si riesce a provare il piacere della passione iconografica. Lo sguardo pertanto, come ogni altra passione, è causa di infelicità e di distrazione. 

Si deve dire che, S. Gerolamo aveva insegnato a diffidare di Lucrezio, affermando che l’intero DE RERUM NATURA era stato scritto per intervalla insaniae, ma si sa che i santi non si sono mai interessati di fotografia.

L’espressione fotografica può simboleggiare i dubbi dell’anima e qualche volta può dare, quello che a volte, può divenire il chiedere. Quella fotografia mi domandava; dovevo rispondere, era un dovere, l’avevo acquistata, era giusto essere leale. Potevo anche mentire, ormai avrei potuto anche non guardarla per un pò, perchè essa non avrebbe capito, ma gli occhi che mi continuavano a chiedere di esserci, mi chiedevano coraggio interpretativo. Quell’ignoto ritratto si presentava come il genere dell’opacità aggiornata, l’umanità non svelata, qualcosa che tenta il naturale e che non necessita di una base teorica. Sembrava che se dicessi qualcosa del tipo: “Quella foto non mi parla, ma svolge materialmente la funzione di pura fotografia ritrattuale. Quando ancora non sapevo cosa fosse la fotografia (ma quand’è che non lo sapevo), quando la fotografia non era ancora arrivata al mio essere vedente, avevo risposto alle domande fondamentali, che involontariamente ci poniamo quando cominciamo a riflettere sul genere fotografico. Parlare di enigmaticità e di incompatibilità della funzione del ritratto fotografico nella mia cultura familiare, sembrava pretestuoso, sembrava che sovrintendesse ad un’altra domanda: chi sono io per riconoscere quella persona e chi sarebbe quella persona al di là di un nome, al di là del suo essere immagine da farsi riconoscere, da potermi permettere di poter parlare con Ella, dialogare con la sua essenza, ammesso che la fotografia possa avere un’essenza?”. Tuttavia, senza temere obiezioni del genere, affermiamo con sicurezza che quell’Enigma ribadiva pienamente la dialettica tra empatia e antipatia, apatia e distopia, maschera e icasticità, velo e trasparenza, mediazione e natura dell’antropologia, artificio e sostanza di una forma e di un corpo. 

Alla base del ruolo iconico che aveva quella foto, dopo che era entrata nella mia vita, nella mia storia si inseriva la contrapposizione tra il mio segno biografico e i segni che essa conservava, i suoi oggetti e i suoi indici, le sue enunciazioni e le sue ovvietà falsamente custodite. Prima di tutto, mi trovavo in un intervallo tra due punti di partenza diametralmente opposti: da un lato, il ritratto anticipa la funzione che quella foto ha nella mia breve storia di collezionista, adempiendo al ruolo di testimonianza, e dall’altro esso mette in discussione il senso della riconoscibilità. In questa funzione, la foto si trova lì, sullo stesso piano dell’ombra e del velo, sulla stessa scorta del pretesto e del contesto antropologico dello sguardo.

Con subdola tensione, con apparente distrazione, quasi inavvertitamente, senza che me ne rendessi conto, il mio sguardo guardava il mio stesso sguardo; provavo a riflettere sull’enunciazione di quel ritratto e pensavo allo sguardo che guarda la foto, allo sguardo che prova ad entrare nella foto e comincia a percorrere le inquietanti profondità di quell’ignoto, senza nome, che forse rimarrà ignoto, quelle inquietanti profondità che la sua superficie cercava di nascondere ai miei occhi. In quelle profondità, abitava una donna, o forse una persona, una creatura senza nome e senza storia, un misterioso essere dalla presenza precaria e cangiante che, con la malia di un gesto, di una posa, rapisce il guardante verso la decifrazione del guardato, di un remoto alfabeto guardato e sospinto al di quà e al di là della maschera.

“Sono tanto cari i ricordi di storia della fotografia”, disse la vocina di Flaubert che mi scorreva dentro, carezzandosi i baffi. 

“Proprio così” proseguì la vocina della critica militante a riposo, “il tuo racconto è pregno di domande. Oggi, purtroppo, queste domande non accadono più, i tempi sono mutati”.

“Infatti” disse la vocina flaubertiana “giorni or sono, le ho raccontate al mio figliolo. Nel discorso con lui, ho cercato di concentrare tutte le domande sull’immagine e non sono riuscito a cavarne neanche l’enunciazione sulla ricostruzione della maschera. Vuoi sapere cosa mi disse? “Quella tua immagine, quella foto recuperata al mercatino doveva essere veramente enigmatica”. Così commentò l’episodio”.

“Eh sì” proseguì la vocina “il materialismo dell’immagine oggi … d’altra parte, che colpa hanno i ragazzi, se le immagini si presentano tutte anonime, che colpa ne hanno se crescono in questo clima di anonimato digitale?”. 

“Non lasciamoci dominare dalla tristezza” continuò la vocina, battendo una mano sul manico del bastone, che teneva stretto tra le gambe.

“Lei,” e si rivolse espressamente alla Signora Immagine sconosciuta, quella che si scambia con la Maschera “cosa ci vuol raccontare? Cosa è capace di raccontarci? Su quale grammatica, effettivamente, si basa per dire la sua, per portarci a riconoscere nell’immagine ciò che è il caso di rilevare, cosa effettivamente vediamo e identifichiamo in essa?”. 

“Io?” e portò l’indice contro il volto, forse il mento, di quella immagine. 

“Sì … lei. Vuole forse sottrarsi al tema della serata? Forse vuole sottrarsi alla domanda delle domande: “Perchè ha comprato quell’immagine al mercatino, perchè sta scoprendo ora che quell’immagine faceva al suo caso? Perchè quell’enigma è diventata una fotografia?”.

La controvocina critica sorrise e socchiuse gli occhi. Poi disse: “I personaggi del Boccaccio, Pampinea, Fiammetta, Dioneo, avrebbero stabilito argomenti più vivaci? O forse avrebbero stabilito argomenti: visto che si tratta di confronti serrati fra parole, discorsi e immagini? Forse le immagini della letteratura sono la stessa cosa delle immagini, come quel pezzo di foto sconosciuta? Partendo dalla critica d’arte, questo viaggio nell’eterno mascheramento dell’immagine e della persona si trasforma subito in poéme en prose, secondo la lezione più squisitamente baudelairiana; ma la sottile eleganza di rivolgersi all’ignoto e il sapore simbolista che nutre questa ostentatissima prosa, non ignora la vertigine aperta dalla letteratura moderna sull’immagine, le fantomatiche maschere che non faticano a morire …”.

“Perché, subito, i ricordi di Nadja si fanno realtà? Perché da soli e con molti riferimenti, ma con la pretesa di scambiare iconologia, iconografia e iconopatologia, fanno il verso a Aby Warburg senza neanche riconoscerlo? Perché siamo stressati da queste lancinanti immagini, che riescono a significare niente?”. 

“Non volevo dire questo; solo che il mio è, come dire?, un’eccezionale domanda sull’identità di quella foto. Forse eccezionale domanda sulla fotografia stessa. Ecco tutto”. 

“Bene!”esclamò il signore della vocina flaubertiana. 

“Ce lo racconti, quel ritratto” incalzò la controvocina critica. 

“Dato che insistete con questi monologhi interiori, davanti ad una cazzo di fotografia, mi accingo ad annoiarvi”. Allungò gli occhi, allungò lo sguardo, prese la tazzina, dopo aver sorseggiato il caffè, e cominciò a parlare: 

“Avevo gli anni del liceo. Fate uno sforzo di immaginazione e vedetemi in formato ridotto, bello così dicevano i miei, con i capelli fulvi da perfetto indiano metropolitano, punkeggiante, così dicevano quelli come Mark Fisher e i k-punk … piccolo poeta, come del resto sono tutti i ragazzi, i giovanissimi del liceo, se a questo vocabolo diamo il significato vichiano”. 

“L’età in cui si avverte, con animo perturbato e commosso, che l’immagine è l’immagine e che forse ha bisogno di essere supportata da una preponderanza commentativa, da un discorso, perché da sola, nella sua fisica enigmaticità, dice tutto e dice niente” disse la controvoce critica. 

“Proprio così … e ora venite con me in camera oscura; quel ragazzino gira per lo spazio della stanza, la professoressa di latino e greco, una bella signora dai capelli biondi, parla dei fiori. È una magnifica giornata di aprile!  Ella esordisce: “A questo punto avrei bisogno di Roland Barthes. Per lui Henriette Ginger non era che “mam.”, la madre. Eppure, non sono i titoli a reggere di fronte all’evento inappellabile della morte, anzi i titoli sono i primi ad essere messi a repentaglio, eclissati nella deriva silenziosa dell’anonimato. Il 13 agosto 1977, con la madre agonizzante, Barthes annota: “D’improvviso, il fatto di non essere moderno mi è diventato indifferente”. Di fronte all’evento della morte incombente, lo scrittore-scrivano della letteratura (sulla letteratura e dell’immagine sulla letteratura) sveste il proprio camice e si presenta solo, nudo, privo di qualsiasi titolo accademico, puro artista davanti alla memoria delle immagini. Ed è così che lo ritroviamo nelle pagine di Dove lei non è, vero e proprio diario di lutto, scritto all’indomani della morte della madre, tra il 26 ottobre 1977 e il 15 settembre 1979.” Ritorno spesso su quell’insieme di piccole schede scritte a penna o a matita, l’ipotesi di un libro mai veramente finito, così come è la foto acquistata al mercatino. La perentorietà di un fatto che sorprende e ferisce: lo scandalo del “mai più”, nel quale Barthes immediatamente ravvisa la contraddizione di questa “espressione da immortali”, perché dire “mai più” vuol dire mettersi dalla parte di chi non morirà mai. E siamo sicuri che la fotografia non morirà mai? O lo scandalo speculare del “lei non soffre più”, dove un lei senza luogo si colloca in un presente senza tempo, entrambi gli azzardi necessari per constatare la permanenza e la durata di “mam.” nel lutto. Per Barthes la morte della madre è l’evento immobile, che si fa strada in un solco silenzioso, che apre, dall’interno del tempo, un varco sull’eterno. È la coscienza del proprio destino, della propria morte riflessa in quella della madre, e non più desunta da un “sapere preso in prestito”. È quindi certamente la paura, ma più che la paura della negatività dell’esistenza, è la paura di non essere all’altezza di quell’evento, di non saperlo preservare: la paura di banalizzarlo, di divenire insensibili, di farne della letteratura, ma al contempo il riconoscimento che la letteratura nasce da questa eterna verità, una verità che non può essere sostituita da nessuna fotografia, da niuna immagine che potesse documentare l’istantanea della Mamma. Perché la mamma non è l’istante della fotografia, la madre è al di là di qualsiasi istante, la madre è come la Terra che ritrae in sé, nelle cose del rigenerarsi, per dare spazio definitivo al divenire del mondo. Il fatto che mi distingua dall’ambiente, ponendomi nella mia individualità, non legittima una mia eventuale pretesa alla trascendenza. Io sono e rimango dentro al mio ambiente. Mi diversifico all’interno del mio ambiente, prendo una posizione a parte per stabilire il mio angolo d’osservazione e di azione, ma rimango dentro; la fotografia è fuori e rimarrà per sempre fuori. Sono un animale fra gli animali e partecipo, grazie a mia madre, come unità alla costituzione dell’insieme ambientale. La mia partecipazione cosciente conferisce una luce dettagliante a questo insieme, ricostruendo come una molteplicità di cose distinte. Ma, grazie a mia madre, rimango dentro come una cosa distinta tra le cose distinte, a differenza di quella foto che partecipa alla opacizzazione dell’indistinto, perché essa somiglia a tanti distinti, quanto a tanti indistinti. E se io tento di auto-chiarirmi, distinguendomi, più distinguo l’ambiente, che è in rapporto con la mia distinzione, più la foto, la sua naturalità, diviene nulla. Dunque, io sono un essere tra gli esseri che compongono il mio ambiente naturale. Io sono natura, quell’immagine è una copia della natura e quindi anche se somiglia vagamente a mia madre la somiglianza non è un punto di forza ma è un punto di distanza da mia madre. Tornando al discorso di Barthes con la Madre: a nulla valgono i tentativi di auto-psicanalizzarsi, di misurare il decorso del lutto, di ridurlo a figurazioni dell’inconscio, o prevederne le generalità. Non vi è ombra di nevrosi, invece, o di una generalizzazione che equivarrebbe a un furto, ad una espropriazione, e lo stesso termine lutto, “troppo psicanalitico”, nasconde il candore della parola tristezza. Così come, con delicata tenerezza, dispare la Madre freudiana per far posto alla mamma, o ancora più affettuosamente “mam.”; e con essa “l’anonimato del cuore prende il sopravvento su quello della struttura, l’idilliaco trionfa sul simbolico, il privato fa il suo outing, il neutro scompare dal mondo”. E vediamo aprirsi nell’intimo il cuore di Barthes, nel pianto ricorrente, nell’ammissione della solitudine, nella mancanza di un vivere minimale denso di significato, nel tentativo di “parlare” con la madre imitandola nelle sue abitudini, nella paura di non poter avere più paura per l’essere caro. Mentre diminuiscono le cose da dire e il tempo attenua l’emotività, rimane quell’unica tristezza “inesprimibile e tuttavia dicibile”, ed è in essa che Barthes desidera abitare, perché abitando in essa sa di abitare in “mam.”, “nucleo irradiante, irriducibile”. Si spiega, perciò, la volontà di dare un monumento alla madre: anche se non vi riuscirà nel romanzo mai realizzato Vita Nova, Barthes assolverà in parte a questo compito nel saggio sulla fotografia – forse il suo libro più noto – La camera chiara (1980), la cui seconda parte si apre proprio con il ritrovamento di una foto di “mam.” all’età di cinque anni, che rinnova ed eterna il lutto di aver perduto “non l’indispensabile, ma l’insostituibile”. Ma a divenire monumento alla madre è tutto ciò che Barthes ha scritto, poiché la madre è presente – presente, non allusa o figurata – dovunque vi sia “un’idea del Bene sovrano”. Ma questo bene sovrano, che Barthes conserva nella foto della madre, dove posso cercarlo? Dov’è che si può ripresentare in me, nel momento che Mam, Mimmina, è là, ferma nel suo letto a 96 anni in cerca di un figlio perduto?

Ed ecco così che quel lutto, presentatosi in questo diario in così tante forme, viene finalmente compreso come “disponibilità dolorosa”, come allerta per la venuta di un senso di vita, lontano dall’essere un effetto speciale della scrittura letteraria, ma anzi reclamando eternità, quanto più lo scrittore si allontana dalla penna! L’animo mio, come il tuo, è in tumulto, avrei bisogno di qualcos’altro per rifarti e rifarmi la domanda su quell’ignoto ritratto. “Il vostro compagno – continua la maestra – ha portato questi concetti sulla fotografia, sull’immagine, che saranno utili per la spiegazione delle figure letterarie”. E, dopo averlo carezzato, lo esorta a tornare in camera oscura. Io la guardo estasiato; la sua voce, i suoi modi mi incantano; tutto è oggetto di venerazione. Invidio la borsetta, che ha la fortuna di starle vicino; il parasole, che può essere toccato dalle sue bianche mani; la spilla che porta al centro della camicetta, la stessa spilla che si vede in quella misteriosa fotografia, in quell’ignoto ritratto. Come vorrei poggiare il mio capo sul suo petto, ascoltare i battiti del suo cuore e dirle: i miei sono più forti, più forti! 

La controvocina dice: “Avverto un tuffo al cuore. Chiama proprio me? Così come quella foto ignota mi chiama? “Vieni caro, vieni perché io non sono tua madre”. Mi avvicino alla porta della Camera Oscura, non oso salire sulla pedana dello sviluppatore di negativi. 

“Su giudizio critico, avvicinati”. Ora sono vicino a lei; guardo tutto il complesso dello studio fotografico dall’alto, credo di essere in paradiso. Mi prende una mano e mi dice:”Indica ai tuoi compagni che cos’è un’immagine”. Il contatto della sua mano mi raggela il sangue, mi ricorda quella di Mam, quella che è ancora lì viva, all’età di ‘96 anni, quella che ha spento il suo udito, quella che ha difficoltà nella sua comunicazione, quella che mi permette di comunicare con lei solo attraverso il silenzio di mia sorella, solo attraverso l’interruzione dei rapporti voluta da mia sorella, solo attraverso le ingiustizie, da lei volontariamente perpetrate. “Che manina fredda!” dice, sorridendo. I suoi denti bianchi, belli mi incantano. Mi impegno, per dimostrare di essere un bravo critico fotografico. “Benissimo! Ora indica i ritratti”. Con la manina tremante prendo i negativi e li mostro ai compagni; il film sezionato in fotogrammi sta lì decomposto sul tavolo; i volti dei ritratti fanno risaltare la bianchezza delle mani di fata. “Sei stato molto bravo … meriti un bacio e tutti meritate il ricordo di quella bella poesia di Guillaume Apollinaire sulla Fotografia: 

“M’attira il tuo sorriso come
Potrebbe attirarmi un fiore
Fotografia tu sei il fungo bruno
Della foresta
La sua bellezza
I bianchi sono
Un chiaro di luna
In un pacifico giardino
Pieno d’acque vive e d’indiovolati giardinieri
Fotografia sei il fiume dell’ardore
La sua bellezza
E ci sono in te
Fotografia
I toni illanguiditi
Vi si sente
Una melopea
Fotografia tu sei l’ombra
Del Sole
Tutta la sua Bellezza” … 

Dopo aver recitato con passione i versi di Apollinaire, le sue labbra si poggiano sulla mia guancia. “Su, ora torniamo a Calvino”. Sto fermo, non ho la forza di muovere un passo, l’espressione del mio viso deve essere buffa, perché i compagni cominciano a ridere. Ella batté con forza la mano sul banchetto della camera oscura e poi grida “Silenzio, rispettiamo il mondo delle immagini!”. 

All’improvviso vedo qualcosa che le sfugge dalla bocca, odo un rumore, lì sotto i miei occhi sta per intero il suo sorriso, sembra un sogghigno tra i negativi virati in seppia. Chiudo gli occhi inorridito e, di corsa, la sensazione che un genio maligno dell’immagine, un genio maligno fuoriuscito da quella quantità infinita di ritratti si fosse sprigionato nello spazio, per farci soffrire. Mia madre poi mi confortò e mi spiegò ogni cosa, ma io, per alcuni giorni, non volli tornare a scuola. Qualche ora dopo, presi la bambola di mia sorella, quasi come se stessi appropriandomi di una maschera, quella che lei teneva sul lettuccio e la guardai con curiosità (avevo sviluppato lo stesso sguardo che si è sviluppato in te, da quando sei tornato dal mercatino con quell’ignoto acquisto). Poi le strappai i capelli, gli occhi, le braccia con una gioia mai provata …”. La controvocina Antipirina, che era in me, fece pausa e sorrise. Poi aggiunse: “Distruggevo, con le mani, il mondo delle dolci illusioni fotografiche; allora ignoravo che in seguito, per vivere, avrei dovuto crearne altre, per poi vederle crollare, pezzo per pezzo, fotografia per fotografia, fotogramma per fotogramma. Anzi quel sogghigno, fra quei negativi già virati in seppia, si raffreddava in una stampa che lo mortificava, che inceneriva la sua stessa riproduzione”.