Khulekani Msweli, Hear No Evil, See No Evil, Speak No Evil, 2013

L’Africa a Pescara – Breve resoconto della prima residenza firmata YAG/Garage

L’arte ha mille volti: è fatta di pensieri, di sensibilità, di atteggiamenti eterogenei; è fatta di oggetti e di azioni. L’arte, in sostanza, è espressione dello spirito e dell’intelletto umano. L’arte è fatta di Linguaggi oltre confine. Sono talmente vere queste affermazioni che spesso le diamo per scontate, così allo stesso modo diamo per assodata una determinata percezione dell’arte e delle sue forme, dimenticando quanto spesso esse siano solo il frutto di un’infinità di fattori culturali stratificatisi in noi nel tempo. Nel flusso di ciò che appare ovvio spesso si fatica ad accogliere linguaggi differenti da quelli più diffusi nella nostra cultura e non è sempre vero che il “diverso”, l’inconsueto anche in arte, è accolto di buon grado.

Tutto questo per introdurre l’interessante operazione che ha visto la YAG/Garage di Pescara, progettualità della Carlo Maresca SpA e guidata nella direzione artistica da Ivan D’Alberto, già impegnata sul fronte dell’arte emergente da qualche anno, organizzare una residenza per un ristretto gruppo di giovani artisti provenienti dal continente africano che, dal 9 al 17 novembre, hanno vissuto l’inaspettata esperienza di vita di una città, quale è Pescara, che non sia la solita usuale meta turistica dell’arte italiana. Esperienza non a senso unico. Anche Pescara ha avuto l’opportunità di incontrare e conoscere persone nuove e, indipendentemente dal gusto personale, apprendere qualcosa di chi l’arte la crea da prospettive e angolazioni diverse dalle nostre. Le parole chiave per questa residenza potrebbero dunque essere: accoglienza, apertura, incontro, conoscenza, dialogo ed esperienza. 

Collin Sekajugo, Elolo Bosoka, Khulekani Msweli, Marwa Saad, Nelson Niyakire e Selome Muleta sono i sei artisti giunti a Pescara, rispettivamente da paesi molto differenti fra loro: Rwanda, Ghana, Swaziland, Egitto, Burundi ed Etiopia, un dato che, già dal principio mostra la volontà della YAG di penetrare culture distanti, questo anche per contrastare quell’erronea percezione del continente che spesso ci porta a considerarlo come unitario. Il primo contatto con la città si è avuto nella giornata del 12 novembre quando, allo spazio Matta di Pescara, in collaborazione con l’Associazione Grand Hotel e Artisti per il Matta gli artisti si sono letteralmente donati alla città cercando, parlando chi inglese chi francese, chi soltanto in arabo, di comunicare con i presenti. Singolare ma significativa la confusione creatasi in quel momento, positiva s’intende, perché motivata da un sentito desiderio comune di conoscenza. Scopriamo così che per ciascuno di loro Pescara ha rappresentato una sorpresa, grazie alla sua architettura e il suo paesaggio peculiare, facendoli, in ultima analisi, ricredere sull’immagine che dell’Italia avevano prima di partire.

Francesco Alberico, Tu che cambi, io che ti vedo sempre uguale, Spazio MATTA 2019, ph Giuseppe Di Meo

In quel contesto, così difforme, così inusuale, si colloca l’intervento di Francesco Alberico che, come una sorta di schiaffo poetico, ha posto tutti di fronte all’evidenza della poca conoscenza che abbiamo del continente africano. Riproducendo quasi a misura naturale le sagome di taluni animali della savana, collocati nello spazio del secondo mattatoio pescarese in stato di abbandono, Alberico duplicando immagini desunte da antiche illustrazioni medioevali, ci ricorda come l’immaginario selvaggio associato all’Africa sia più una costruzione letteraria che realtà. Un’edificazione mentale vera e propria protrattasi fino ai nostri giorni, tanto da rendere difficile ipotizzare un qualsiasi stato di civiltà ed evoluzione per chi vive al di sotto delle acque del mediterraneo. Eppure, benché coscienti di questo limite culturale, la resistenza ad accogliere il diverso è qualcosa di così radicato da impedire anche al più istruito di noi di apprendere una lezione basilare: dialogare per conoscere, incontrarsi per scoprire. Benché coscienti di questo limite culturale Alberico, in ultima analisi, ci mostra come continuiamo ancora oggi a vedere i nostri vicini quali belve o bestie da tenere ingabbiate, magari addomesticate è meglio!

Mandra Stella Cerrone, Cena silenziosa, 2019 ph Giuseppe Di Meo

La vera gabbia è però il limite posto nella comunicazione, sicché il giorno seguente, la performance di Mandra Stella Cerrone: Cena silenziosa, cui hanno partecipato 35 commensali, ha assunto un significato ancora più intenso perché svoltasi nel corso generale di questa operazione. Impossibile parlare, impossibile esprimersi verbalmente. Consentiti solo gesti, sguardi, lauti sorrisi, consentito solo ascoltare i rumori delle posate durante il pasto. Ebbene, tutti, paradossalmente o forse no, hanno comunicato molto più del giorno precedente, attraverso il corpo e una serie di gesti evidentemente universali. Nessuno si è sentito in imbarazzo, nessuno se ne è andato. La Cena Silenziosa di Mandra Stella Cerrone è diventato un atto comunicativo molto più potente di tante parole inutili che quotidianamente si sprecano. È diventato quasi l’atto chiarificatore di quei processi culturali che, anziché avvicinare, creano distanza, riportando ciascuno dei presenti alla semplice consapevolezza che i gesti comunicano e valgono di più di qualsiasi altra cosa. 

Dal silenzio al giusto rumore dell’inaugurazione della mostra nella serata del 16 novembre, anticipata il giorno prima in una breve preview, oltre che da un incontro il giorno 14 presso l’Accademia di Belle Arti de L’Aquila dove, gli artisti hanno incontrato gli studenti ma anche assistito ad un focus sui sull’arte contemporanea africana intitolato Art Exchanges oltre che a Segni d’Africa, esposizione dei materiali di ricerca d’archivio raccolti MU.SP.A.C sulle culture africane de L’Aquila. Un progetto, quest’ultimo, curato da Martina Sconci, volto ad evidenziare il lavoro svolto dagli etno-antropologi e africanisti Tino Spini e Giovanna Antongini da anni impegnati  su questo fronte.

Un programma denso e ricco di incontri, dibattiti e talk che, come dicevamo pocanzi, si è chiuso con l’esposizione Young Afrivan Art – Linguaggi oltre Confine dove, finalmente si sono potute apprezzare le opere dei sei artisti africani. 

In mostra i lavori pittorici misti a collage di Collin Sekaiugo, primo artista nel suo paese ad aprire un centro dedicato alle arti visive “Ikuva” (rinascita) che sollevano e riflettono il conflittuale legame fra arte e la sua comunità, evidente nelle piatte sagome di uomini spesso senza volti. Segue il grande wall di Eolo Bosoka che, realizzato con oggetti trovati privi di relazioni di memoria fra loro, se non l’essere accomunati dalla loro dimensione di scarto, mostra drammaticamente la realtà del capitalismo e del consumismo entro i confini del Ghana. Khulekani Msweli, fra i sei quello che più di tutti conosce l’Europa essendo vissuto a Manchester per anni, e probabilmente quello che, nelle sue opere, trasmette più connessioni e mescolamenti fra culture, nelle sue sculture e installazioni pone in scena proprio quei processi di pensiero che collegano antico, moderno e contemporaneo, generando una sorta di file rouge che rende evidente come la distanza fra linguaggi sia solo un congetturato concettuale. Marva Saad, proveniente dall’Egitto e formatasi al Cairo, per certi aspetti mostra nei suoi lavori talune vicinanze più evidenti con le avanguardie storiche europee come Surrealismo ed Espressionismo di cui riorganizza l’espressività ricollegandola al presente. Dal 2014 infatti, i suoi lavori traggono ispirazione dai cactus e dai ricci, per meglio intenderci dalle loro corazze spinose, sollecitando ad una riflessione fra un esterno ruvido e un interno morbido che, concettualmente, narrano l’epoca in cui viviamo e che per la sua crudeltà costringe gli uomini a corazzarsi per difendersi. Tuttavia, Marva Saad, proprio nell’evidenziare tale contrasto, ci ricorda la vera natura dell’uomo. Nelson Niyakire propone invece immagini fotografiche dove appare egli stesso nell’atto di spogliarsi da blocchi di argilla. Queste, residuo visivo della performance La COQUILLE (GUSCIO) assumo significato proprio nella connessione all’azione, svoltasi durante la serata inaugurale e che da tempo l’artista propone per sollecitare ad una riflessione fra il suo corpo e la materia quale atto puramente creativo. Semplice ma intensa, la performance di Niyakire tradisce, per certi aspetti, la ritualità che si accompagna alla cultura del proprio paese dove, l’argilla, un materiale importante nella stessa architettura burundiana, diventa nell’atto di manipolazione, in combinazione alla gestualità del corpo, sinonimo e simbolo di trasformazione, ovvero qualcosa che accomuna l’individuo a prescindere dalla sua provenienza e cultura.  Infine, di grande impatto visivo, sono le pitture dell’etiope Salome Muleta, pitture anch’esse riconducibili, per certi aspetti, ad un’espressività di matrice occidentale e primo novecentesca, quasi da Die Bruke per via delle tonalità acide e i contorni frastagliati, esse si focalizzano su soggetti femminili – talvolta autoritratti – che denunciano la condizione della donna nella società in cui vive ma che, a guardarli bene, non appaiono poi così distanti dai nostri modelli femminili, lasciando intuire, in ultima analisi, quanto determinate condizioni ci avvicinino più che distanziarci. 

È chiaro, dunque che, per ciascuno di questi artisti, sebbene provenienti da esperienze formative diverse, da Paesi culturalmente distanti, anche da rapporti con la realtà sociale spesso cruenti e affatto idilliaci, il proprio vissuto, lo spirito del proprio luogo di appartenenza così come la propria specifica condizione, rappresenti il nucleo principale della propria espressività. Tuttavia, tali espressività, più pacate e molto meno spettacolarizzate rispetto a quelle cui siamo abituati noi,  riescano a connettersi in modo più convincente e penetrante nella nostra percezione dell’arte mostrando connessioni culturali più stringenti di quelle immaginate. Alla fine, dunque, quei Linguaggi oltre confine – sottotitolo che accompagna quest’esperienza, potrebbe tranquillamente tradursi in Linguaggi senza confine. Con questo spirito positivo, ci auguriamo che tale esperienza non si esaurisca qui ma che la YAG/Garage prosegua in questo tipo di progettualità. Se c’è qualcosa di cui abbiamo bisogno e l’arte, in questo caso, ne è stata una vera e propria testimonianza, è di: accoglienza, apertura, incontro, conoscenza, dialogo ed esperienza.

Young African Art – Linguaggi oltre Confine è un progetto promosso dalla Carlo Maresca SpA realizzato con il sostegno economico di Bluserena, Valagro, Almacis e Seantio.

Maria Letizia Paiato

Storico, critico dell’arte e pubblicista iscritta all’Ordine dei Giornalisti d’Abruzzo, insegna Storia dell’Arte presso l’Accademia di Belle Arti di Macerata. Dottore di Ricerca (Ph.D) in Storia dell’Arte Contemporanea, Specializzata in Storia dell’Arte e Arti Minori all’Università degli Studi di Padova e Laureata in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Ferrara, è ricercatore specializzata nel campo dell’illustrazione di Primo ‘900. La trasversalità d’interessi maturata nel tempo la vede impegnata in diversi campi del contemporaneo e della curatela, della comunicazione, del giornalismo e della critica d’arte con all’attivo numerose mostre, contributi critici per cataloghi, oltre a saggi in riviste scientifiche. Dal 2011 collabora e scrive con costanza per Rivista Segno, edizione cartacea e segnonline. letizia@segnonline.it ; letizia@rivistasegno.eu