Giotto -Tre scene dagli affreschi di Assisi (1290-1295)

La missione di Jack (I parte)

Vietato pensare al proprio progetto umanitario. Viviamo questo terribile momento, catastrofico e inquietante, in cui qualsiasi gesto di aiuto verso l’Altro, sembra impossibile: la generosità etica e militante, la pratica politica dell’indignazione custodita dal ribelle solidale è assolutamente bandita. Il perché non è un enigma e non attiene alla sola violenza autoritaria del capitalismo, ma al fatto che a quest’ultimo non si oppongono ancora sufficienti momenti di sdegno, di scetticismo e di controtendenza etica, di sana opposizione e affermazione del comune, dei più basici bisogni di classe. 

Verso il dono leale. Negli ultimi due mesi, seguendo le cronache dall’Italia sotto la pressione del Decreto Sicurezza, mi sono trovato a pensare a una nuova figura di indignato promossa dai Centri Sociali dell’ultima rete antagonista. Oggi si parla di rado di quella figura astratto-concreta di militante, che è emersa tra le nebbie di una sinistra italiana totalmente in crisi; ma il soggetto esiste ed è una figura molto più ingenua di quella che pretendono di imporre gli ex-operaisti. Nell’inquietante realtà ideologica e politica del mondo d’oggi, la cultura spontanea di un soggetto come Giacomo Gobbato assume un ruolo di pregnante attualità, sia per la sensibilità attiva e antiautoritaria di cui si è investito, sia per il pluralismo umanitario davvero fecondo delle sue istanze semplici e istintive. In questo contesto, la forma di vita militante non è più concepita come il naturale retaggio di miti e tradizioni dogmatiche, incarnate nelle opere di questo o di quel manifesto, ma assume l’aspetto di una esperienza vera, dritta, inalienabile, del soggetto rivoluzionario in progress.

Ciò che conta, più che il profilo teorico della missione militante, è l’atto etico, la spontaneità dell’azione, l’autenticità del sentimento. Quel momento morale, francescano, che è parte della vita quotidiana e, proprio per questo, possiede e raccoglie, come il gesto di Giacomo Gobbato, una dimensione sociale e politica estesa. Individui isolati, crucciati e depressi: ecco il panorama che ci consegna la sociologia dei nostri giorni. È il mondo del capitalismo nel quale viviamo, fatto di proprietà individuali, di proprietà di beni, di biografie che diventano destini colpevoli, di amori securitari che sono altrettanti amori infelici. Ma l’attivismo e l’indignazione hanno altre risorse, per indicarci la strada di una vita comune: oltre l’individuo. Pensare la solidarietà del libero militante significa avvicinarsi, inevitabilmente, alla fine dell’astrazione moltitudinaria. Fine che implica il termine ultimo, il traguardo in cui l’individuo come il mondo (la collettività) trova non sempre il suo compimento, ma la possibilità di riscatto e di ricominciamento.

Certamente l’immaginario solidale dei giovani come Jack evoca un momento di crisi e di rottura: insomma una catastrofe che viene rappresentata in varie forme, ma che preclude e lascia spazio alla trasformazione. Pensare la comunità attraverso strumenti ermeneutici diversi da quelli canonici è il fil rouge che lega l’incontro del Rivolta (CSOA Mestre) con la nuova critica della vita quotidiana: una chiave di lettura della solidarietà che alimentano quei gesti intensi che si trasformano in pensiero, in concetti.

CSOA Rivolta – Mestre

Che cos’è la solidarietà democratica? Nel concetto si incontrano, come sappiamo, almeno due tradizioni distinte, quella rivoluzionaria dell’appartenenza e quella fraterna della corrispondenza, della condivisione, ovvero quella del senso di immedesimazione nella cultura dell’altro, precisando che l’altro per la comunità progressista è il lavoratore; un lavoratore di qualsiasi tipo e genere che si spinge oltre la genericità della moltitudine. L’una e l’altra solidarietà alludono ad un legame tra gli individui di tipo extracontrattuale, capace di fare in modo che l’attenzione disinteressata per il “compagno prossimo” non risulti sacrificata a vantaggio della logica dello scambio. Appellarsi alla responsabilità del solidale, significa ricordare che non è solo da considerazioni razionali rispetto allo scopo che è possibile dedurre le leggi, le garanzie e le istituzioni in grado di offrire alle persone l’opportunità di condurre vite soddisfacenti e dignitose e di garantire al sistema “coercitivamente liberatorio” l’autonomia di mantenere nel tempo condizioni accettabili di stabilità. La stabilità democratica interna ad una compagine politica dovrebbe essere qualcosa di immateriale, che corrisponde ad un riconoscimento etico, axiologico del comportamento democratico. Alcune filosofie di organizzazione politico-democratiche riferiscono le norme dell’etica ad un principio universale (l’essere lavoratori per gli altri, la ragione dell’uguaglianza sociale, la natura, l’umanità, il sentimento sociale), altre ne sostengono l’origine e la pratica convenzionale.

In Le due fonti della morale e della religione (1932), Bergson pose distinzione tra la morale basata sui valori tradizionali, funzionale al mantenimento dei ceti egemoni, e la “morale aperta” che, nascendo dallo slancio creativo degli innovatori, rompe gli equilibri consolidati e ne prepara di nuovi. H. Arendt in Vita Activa rivalutò il modello aristotelico di virtù dianoetica, giudicando che la cultura occidentale contemporanea ha troppo orientato l’agire in senso individualistico; non meno fuorviante è il modello etico proposto nel totalitarismo che solo in apparenza crea forme di altruismo e partecipazione comunitaria. Queste sono proprio delle fasi isomorfe della storia, dove i cicli rivoluzionari si confondono con i cicli reazionari, nei quali il comportamento è orientato all’ideale di un progressismo ambiguo, proposto con una passione convenzionale ed un altruismo di partito.

Un altro aspetto analizzabile dalla nozione di solidarietà è quello degli squilibri etici nella società tecnologica o tecnologicamente avanzata; con tale questione si analizzano i modelli di valore tradizionali non adeguati alle problematiche poste dalla manipolazione bioetica e dal saccheggio delle risorse ecologiche. Nel Saggio di un’etica per la società tecnologica, H. Jonas auspicò il ribaltamento dell’etica individualistica, propria di un certo tipo di religiosità come rapporto intimistico uomo-Dio. Jonas rilevò che la concezione cristiana della “salvezza” è, sotto un certo profilo, l’equivalente dell’etica eudemonistica greca, basata sulla ragionevolezza individuale; anche l’etica luterana e quella kantiana, che fanno centro nel concetto di intenzione, sono modelli non più appropriati. Nell’opera Il principio responsabilità, Jonas, sviluppando la polemica anti-tecnologica, sostenne poi che la generazione del ‘900 deve assumersi la responsabilità oggettiva del prezzo che le generazioni future pagheranno per la scelta tecnologico-consumistica. Questo stesso tema, quasi come se fosse una manifestazione di rammarico, è presente negli scritti non scientifici di alcuni scienziati del secolo scorso, compreso A. Einstein, che espresse preoccupazione per la gestione amorale delle potenzialità dell’energia nucleare.

Ma il discorso è globale e riguarda in particolare l’Occidente. Anche i ragazzi italiani hanno di che riflettere. Questa società dei sans papiers, delle espulsioni, del sospetto nei confronti degli immigrati, questa società che rimette in discussione le conquiste della Sécurité Sociale e il Welfare, in cui i media sono quasi sempre monopolio dei ricchi, non è la società per cui abbiamo lottato nell’europa dell’emancipazione. Vogliono privatizzare perfino l’acqua, il bene pubblico per eccellenza. Tutte cose che avrebbero fatto inorridire i padri fondatori del Consiglio Nazionale della Resistenza. È al popolo che spetta decidere come essere governati. Il motore della Resistenza, allora come oggi, è l’indignazione. L’indignazione contro l’indifferenza. Ma indignarsi non basta. Ognuno di noi deve, con la sua propria sensibilità, saper impegnarsi su tutti i fronti della sua epoca. Perché quello che sta avvenendo nel mondo “ce n’est qu’un début”, “non è che l’inizio”. Ci sarà un “maggio” europeo? 

E qui, nel gesto di Jack, risuona, implicita la condanna contro ogni forma di dogmatismo culturale e intellettuale (creatore di un campo di forze autonomo), in opposizione a quell’attivismo da salotto, nato dal potere e per il potere. Nel delineare il quadro di questa contestazione globale, il gesto di G.G. fa sentire la voce più significativa dell’attivismo e dell’umanitarismo anarchico. Con il ritorno al “gesto del comune”, all’espressione di un’etica collettiva, di cui il Rivolta è delicata espressione, e nell’oblio della figura del comandante-attivista, come paladino incensurabile di una tradizione di élite, sta l’attuale rilancio del gesto di Jack, stimolato dalle opere del ribellismo “comune e arrabbiato”.Nulla è più complicato del darsi. Fingiamo tutti spontaneamente negli atti d’amore sociale, per credere di noi stessi quello che più ci piace credere, vedendoci non quali siamo in realtà, ma quali presumiamo d’essere, secondo la costruzione ideale che ci siamo fatti dell’ideologia che professiamo. Tuttavia, gli attivisti più svegli che conosco sognano di continuo: giustizia e libertà! I “compagni più ideologici” fanno cose assurde, avventate senza senso. Le più intelligenti, quelle che stavano nella testa di Jack parlano ai bambini, le più forti sono un sussurro insieme alla loro voce, e le più serie, come un atto generoso, ridono, ridono sempre, insieme alla rivoluzione. Quelle più giuste hanno fatto errori che non si aggiustano, e le più vive sono morte tante volte, così come di nuovo sono nate. L’altruismo per Jack è un sentimento più forte, più resistente di un tatuaggio. Ci si arriva, è un percorso, una forma di vita. Un giorno, Angelo Shlomo Tirreno mi ha detto che la frase di Picasso che preferiva era: “Sono necessari molti anni per diventare giovani”. Gli piaceva talmente che l’ha fatta scrivere anche sui muri nel suo quartiere. È una frase bellissima che possiamo usare in modo traslato. Sono necessari pochi gesti per toccare il cuore. È strano il nostro vedere: dobbiamo usare la nostra parte razionale per individuare negli altri un atto emotivo, un gesto impulsivo, una fratellanza istintiva. Se osserviamo il comportamento umano, vediamo che l’irrazionalità domina la nostra vita. 

Giacomo Gobbato – detto Jack

Spesso diventiamo francescani inconsapevoli, lì dove la vita ci ha stagionato ben bene, stanato, sbocconcellato; ma anche dopo aver conosciuto il male dell’ideologia del comando, della partizione militare/militante e della violenza. Lo spontaneismo umanistico non c’è, non si avverte, non ci sfiora, là dove c’è severità programmatica, giudizio, malevolezza disciplinare. Per Giacomo, il sentimento del riconoscimento, era un po’ come una sorella minore dell’indulgenza, meno notevole, meno in prima linea nelle dichiarazioni di guerra alla guerra e degli “odg” dello “stato di eccezione”. È un po’ timida la tenerezza, ha il muso di un tatuatore ingenuo come Jack, è schiva e delicata, istintiva e discreta. Quando diciamo dei “fioi” come Giacomo, è perché li vediamo disarmati, senza malizia, sprovveduti. Chi è tenero e generoso, come Jack, non vuole farcela a tutti i costi e soprattutto da solo, vuole udire come stiamo tutti e sente come stanno gli altri; è sorella e fratello, non è genitore, non è né maestro, né Edipo o Anti, come Toni et company, né universo disciplinare di una macchina affondata. La tenerezza di Jack sa stare alla pari, fianco a fianco, non è frontale. Così raro oggi, che giri l’angolo e trovi un guru, ma devi girare tutto il mondo per trovare un’anima sincera e spontanea come Jack che si metta dalla tua parte e non ti voglia illustrare la militanza e la risoluzione dei suoi misteri.

È interessante ricordare che anche per Marx la libertà si definisce in base al rapporto soddisfacente con l’altro. Si legge nell’Ideologia tedesca: “Solo nella comunità, con altri ciascun individuo ha i mezzi per sviluppare in tutti i sensi le sue disposizioni; solo nella comunità diventa possibile la libertà” (Marx, 54). Essere liberi significa, quindi, nient’altro che realizzarsi insieme, nella pratica adottata da Giacomo e dai suoi fratelli del Rivolta. La “libera concorrenza”, che si fonda sull’idea della libertà individuale, adottata dall’ideologia della sinistra progressista, di tutta Europa, per Jack et co., è soltanto la relazione del capitale con se stesso in quanto altro capitale, ossia il reale comportamento del capitale in quanto capitale. Attraverso la libera concorrenza, il capitale riesce a riprodursi rapportandosi a se stesso come un altro capitale e a schiacciare i più deboli, le classi non garantite degli inriconosciuti e di quelli che pur avendo uno spirito di condivisione sono relegati nel “sistema degli underdog”. Nessun attivista, mai, riesce a dare esattamente la misura di ciò che pensa, di ciò che soffre, della necessità militante che lo incalza, e la gestualità di quelli come Jack è spesso come un pentolino di latta su cui andiamo battendo la melodia di Mr. Tambourine, per far ballare tutte le forme di liberazione, mentre vorremmo intenerire i gendarmi che segregano A. Blanqui e le sue cospirazioni. Perché “L’eternità viene dagli astri” (1872). A quale domanda è piegato un militante che si dà? Da quale destino politico è indirizzato? L’universo è anarchico, come gli occhi di Jack, indipendente, impossibile da imbrigliare e da scrutare come l’amore per gli altri! Si lascia capire o ci inganna in continuazione. Jack – col suo fatidico gesto – appare tra le pagine delle ultime settimane di storia italiana come un novello Qoelet, forse uno dei tanti apparsi in epoche diverse, anch’egli gesto spontaneo di una introvabile copia originale. Giacomo Gobbato e Sebastiano Bergamaschi sono stati pugnalati a Mestre dopo aver sventato un furto ai danni di una donna. Gobbato è deceduto mentre Bergamaschi ha riportato lesioni alle gambe. “Io e Giacomo avevamo gli stessi ideali, rifarei tutto altre 1000 volte”. “Cosa farei se tornassi indietro? Inseguirei quell’uomo altre mille volte. Io e Giacomo avevamo gli stessi ideali, non avremmo potuto girare la testa dall’altra parte” ha detto Sebastiano. Sebastiano e Giacomo si conoscevano da 12 anni, dai tempi delle scuole superiori. “Abbiamo vissuto insieme tanti momenti. La nostra vita poi si è trasformata, entrambi concentravamo le nostre energie in battaglie cittadine per noi giuste. Lui faceva molte cose, adorava la sala di registrazione del centro sociale Rivolta di Marghera, era la sua creatura. Giacomo era mosso dalla passione, la sua critica era sempre motivata e intelligente, mai cieca. Proprio per questo era un trascinatore”. Bergamaschi ha ricordato che: “… una cosa che abbiamo imparato nella vita è che non bisogna girarsi dall’altra parte”.

Dice Sebastiano – con un linguaggio molto semplice e fuori dalla retorica ideologica – : “È stata scatenata una guerra tra poveri e si continua a riproporla come se questo potesse essere il modo migliore per alimentare il sistema … Ci sono fenomeni sociali evidenti come povertà e immigrazione e la storia testimonia che non si possono affrontare militarizzando le città e criminalizzando le persone. Ci sono responsabilità individuali, ma quello che dobbiamo fare è lavorare affinché non esistano più gli ultimi. Non è una contraddizione: non bisogna scegliere tra cittadini e persone ai margini, si possono aiutare entrambi”. Bergamaschi, giustamente, ha puntato il dito contro le politiche di sicurezza della filosofia municipalistica. “Questa è la prova che non funzionano in alcun modo. Le nostre non sono battaglie ideologiche, ma per la vita di tutti”. “La sicurezza di Mestre è peggiorata, è sotto gli occhi di tutti: sono aumentate le forze di polizia in città, ma a cosa è servito? La sicurezza si fa con investimenti veri da dedicare realmente alla comunità. Questo significa servizi, spazi e qualsiasi cosa possa cambiare il contesto sociale. Bisogna tornare a vivere i quartieri mettendo la solidarietà al primo posto”. Sviluppando le argomentazioni di Sebastiano, il caso Jack può proporre una nozione di solidarietà, non come imperativo deontologico, ma piuttosto come modo di agire che ci consente di realizzare al meglio noi stessi nel rapporto con i nostri pari, perché si fonda sul riconoscimento dell’interdipendenza che regola la società in cui viviamo. Interdipendenza che è all’origine di quei “contagi” che caratterizzano il nostro mondo, che, oltre ad essere il motivo del ritorno di questo concetto in filosofia pratica, costituiscono anche il terreno fertile per lo sviluppo di una possibile teoria critica, proprio a partire dal concetto di solidarietà. Se sempre di più siamo abituati a coesistere con crolli, nichilismi e catastrofi di ogni genere e tutti collegati fra loro, allora un concetto come quello di sostegno non deve semplicemente riemergere, ma deve poter fornire un ambito di sensibilità critica nei confronti della realtà. Una critica non in senso negativo, ma semmai propositiva. Infine, è fondamentale non dimenticare che la fratellanza solidale ha trovato incarnazione in grandi configurazioni storiche (dalla nazione, alla classe e allo Stato sociale) che al momento sono carenti o in fase di netta revisione, mentre stentano a prendere un volo alto le figure crescenti del sostegno, sia su scala locale sia su scala globale. Insomma, mentre mancano ancora istituzioni efficaci per una ‘democrazia cosmopolitica’, è purtroppo chiaro il segno reattivo e cautelativo di inquietanti misantropie.

L’estremismo: espressione umanitaria del libertarismo. Bisognerebbe sapere perché ci ostiniamo a non guarire dalla solitudine politica del solidale. Da questa specie di agonia differita, durante la quale è impossibile capire altro che non siano le verità assolute della nostra spinta evolutiva, della nostra considerazione dell’altro e della nostra circoscrizione (o forse circoncisione), della nostra ghettizzazione, della nostra chiusura mista ad apertura totale, della nostra segmentazione di campo psicologico contro quello ideologico e viceversa. Bisogna averla vissuta conflittualmente questa agonia umanistica, per sapere per sempre quel che si professa; nell’adolescenza e nella crescita, quel che si intende è ciò che nella propria fede si mette in pratica. È forse questo che si cerca nell’adolescenza che si sviluppa per l’altro, nient’altro che questo, la più grande “espiazione francescana” possibile, per diventare se stessi prima di dare la vita!

Nei «Quaderni dal carcere» di A. Gramsci la menzione di San Francesco compare alcune rare volte. Accostato, nel 1934, a «un Passavanti» e ad «un Tommaso da Kempis» per la sua «ingenua effusione di fede», San Francesco era entrato in compagnia dei «movimenti religiosi popolari» del medioevo. In una lunga intervista del 1989, Alceste Santini, giornalista de L’Unità, chiede ad Alessandro Natta, ex segretario del PCI: «Quale figura spirituale o religiosa senti più consona?». La risposta di Natta è la seguente: San Francesco, «uomo di una notevole modernità» e «fondatore di un movimento tra i più moderni, vicino, vicino, anche storicamente, ai problemi del mondo attuale».

Paolo Volponi

Proseguendo nel nostro sentiero, «di sinistra», incontriamo Empire , ovvero Impero. Autori ne sono Michael Hardt e Antonio Negri, più noto come Toni Negri. Il libro interpreta «il nuovo ordine della globalizzazione», nella convinzione che «l’Impero sia il nuovo soggetto politico che regola gli scambi mondiali, il potere sovrano che governa il mondo» e nella prospettiva di individuare e illustrare «le forze che contestano l’Impero e prefigurano effettivamente una società globale alternativa». Al termine del tomo, si trova un profilo che descrive «il militante», ossia «l’agente della produzione biopolitica e della resistenza contro l’Impero», colui che, insorgendo, si lancia «in un progetto d’amore e di solidarietà comunista». Qui leggiamo dell’entrata in scena di San Francesco d’Assisi: «C’è un’antica leggenda che potrebbe illuminare la vita futura della militanza comunista: la leggenda di San Francesco di Assisi. Vediamo quale fu la sua impresa. Per denunciare la povertà della moltitudine, ne adottò la condizione comune e vi scoprì la potenza ontologica di una nuova società. Il militante comunista fa lo stesso (…). In opposizione al capitalismo nascente, Francesco rifiutava qualsiasi disciplina strumentale, e alla mortificazione della carne (nella povertà e nell’ordine costituito) egli contrapponeva una vita gioiosa (alla) volontà di potere e (alla) corruzione. Nella postmodernità, ci troviamo ancora nella situazione di Francesco, a contrapporre la gioia di essere alla miseria del potere» (Hardt e Negri, p. 381.). Si direbbe che siamo di fronte a un San Francesco post-situazionista e molto trans-etico, vicino al decostruzionismo dell’ideologia francese e dei post-desideranti. Ma guarda caso Francesco non è solo una figura sfruttata dalla “metafora posse”, ma anche dall’allegoria di una agenzia pubblicitaria che si è trasformata in un movimento politico. Nel Blog di Beppe Grillo si legge: «Il M5S è nato, per scelta, il giorno di San Francesco, il 4 ottobre 2009. Era il santo adatto per un Movimento senza contributi pubblici, senza sedi, senza tesorieri, senza dirigenti. Un santo ambientalista e animalista. I ragazzi del M5S (…) nel 2010 si autodefinirono i «pazzi della democrazia», così come i francescani erano detti i “pazzi di Dio”. Ci sono molte affinità tra il francescanesimo e il M5S». Insomma, il San Francesco ambientalista e animalista è una sorta di emanazione propagandistica e pubblicitaria di vecchi e nuovi programmi politici. Per esempio, essa conquista una collocazione di rilievo nel «dialogo nell’inverno 1994» tra i «comunisti» Paolo Volponi e Francesco Leonetti. A un certo punto il primo chiede al suo interlocutore a «quale classico italiano» si riferirebbe. La risposta di Volponi è immediata: «La lezione di San Francesco è sempre attuale, e oggi più attuale che mai (…). Amo (…) la sua lezione. Che è quella di un grande rivoluzionario, in nome della bellezza della Terra e della onestà degli esseri (…). San Francesco è l’idea della felicità e della verità, nel nuovo, della rivoluzione, del presente possibile…». La risposta di Volponi contiene non solo l’immagine di un «ambientalista e animalista», ma un san Francesco addirittura «grande rivoluzionario», capace di indicare agli uomini di fine Novecento le strade per un cambiamento radicale del loro modo di agire e di rapportarsi con la vita.

Insomma, T. Negri e M. Hardt, più di tutti sono affascinati dalla figura di Francesco, anche se non appaiono tanto saggi, quanto Leonetti e Volponi (Einaudi, 1995). Secondo Michael Hardt, in particolare, il progetto comunista deve sempre prevedere una cognizione affettuosa del comunitarismo, uno strumento di relazione in cui il “noi” è “soggetto di lotta”. Una visionarietà, più che una visione, che ha “riconosciuto una comunione senza soluzione di continuità che si estende oltre i confini dell’umano per includere il mondo naturale nella sua interezza”. È una visione che si presenta gioiosa e finalizzata all’accettazione dei nietzschiani dell’ideologia francese, utilizzati nelle pubblicazioni precedenti a Impero

×