Gerhard Merz
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La Casa Immaginata di Rosanna Stoppani a Viterbo: il racconto del labirinto della vita

“È sempre un gioco di intrecci e di contrasti, usciamo dal dedalo dell’arte per entrare nel labirinto della vita”, riferisce Rosanna Stoppani nel testo critico della mostra collettiva “La casa immaginata”, tenutasi il 17 ottobre presso il prestigioso Boutique Hotel dei Papi di Viterbo.
La curatrice “ha pensato alla propria casa come a un labirinto, all’interno del quale i lavori dialogano, collegati tra loro dal filo di Arianna. Il labirinto è paradigma del viaggio esistenziale nell’intricata rete di informazioni, che caratterizza la postmodernità”, si legge ancora.
A esporre le giovani artiste Giulia Apice, Giorgia Baroncelli, Cecilia Damiani, Nicoletta De Santoli e Ilaria Pennoni, selezionate per “Arnia 33” (direzione artistica di Antonio Rocca) e fortemente desiderate per dare voce ed espressione alla V edizione del progetto residenziale ideato dalla Stoppani.

Parole chiave de “La Casa Immaginata,”, vita, labirinto e sogno, ma se l’arte è anche segno, allora il visitatore più attento non potrà che intravedere una “quarta dimensione”, o meglio “una quarta parete” che tutto svela e insieme ricostruisce: un profondo e suggestivo senso di intimità.
Il progetto residenziale “La Casa Immaginata”, in modo cauto ma diretto, sembra voler risollevare un quesito caro a Giulio Carlo Argan quando, rivolgendosi alla collettività tutta e agli esperti di settore, ha chiesto: l’arte è da ritenersi una struttura autonoma, una sovrastruttura o un canale immediatamente connesso alla storia della società?
Il dedalo dell’arte e il labirinto della vita in quale punto esatto si incontrano?

Il progetto espositivo “La Casa Immaginata” ha inizio con la pseudo-cupola della ravennate Giorgia Baroncelli. L’opera Da qui, la verità comincia a illuminare un tragitto tracciato lungo il perimetro di candele che fungono da cornice al principio di un sogno. La soglia del mausoleo rilancia i suoi ori, contesi tra la pietra e il tessuto, tra la solidità di ogni certezza e la vaporosa sensuale mistica del pensiero.

Il tentativo di deformare i contorni di una visione semi-circolare avanzato dalla Baroncelli viene dunque ripreso nella sala del primo piano con Giulia Apice e la sua “camera effimera” titolata Bagdad. Qui un trittico di lenzuola dipinte, a mo ‘ di pareti affrescate, orna un letto a baldacchino quasi a voler aprire un sipario per annunciare l’inizio del secondo atto del dramma postmoderno: spenta la fiaccola del raziocinio, della materia pensata, lo spettatore è accompagnato a fidarsi del proprio sogno, attraversando la medianità del sussurro e precipitando dentro la necessità di un abbandono, terra di nessuno e insieme principio di ogni cosa.

Il senso vago di un simile disorientamento richiama il visitatore a un momento di sospensione e di raccoglimento. Salendo ancora di un piano, infatti, il labirinto diviene oasi di circoscrizione e stasi con Nicoletta De Santoli e la performance Pensavo fosse un sogno e invece era il passato. L’artista posa dormiente su un letto, mentre dalla stanza accanto una registrazione spiega in che modo le relazioni umane, liquefacendosi, provano a farsi forma, ricongiungendosi all’ombra di ogni solitudine.

Infine, l’ultimo piano accoglie il visitatore con un’opera a quattro mani realizzata da Cecilia Damiani e Ilaria Pennoni. Le stoffe pregiate di Pris entre-deux feux, “con la lunga storia di filatura, tessitura, cucitura e ricamo” costruiscono una parete che taglia, per l’appunto, la continuità spaziale dell’ambiente. Attraverso i segni di combustione “incisi” dalla Pennoni, i tessuti divengono epidermici, una nuova o seconda pelle per il corpo concreto della coscienza. Le immagini tessute, prese in prestito dal mondo naturale, divengono archetipe, quasi primordiali: dove vuol condurre, ancora una volta, il filo di Arianna?

Ascendendo, il senso della collettiva artistica interroga su quanto dell’inconscio siamo davvero disposti a conoscere. Giunti a questo punto, il moto discendente diviene inevitabile. La Casa Immaginata, nel suo farsi e disfarsi, anela dunque alla luce della concretezza che, nell’arte e per l’arte, mira dritto a definire ogni via presumibilmente percorribile. E questo, al fine di schiarire i cieli che sovrastano una profondità che così come allontana e spaventa, così chiama a sé e seduce.