Interno 14, Bagliori Notturni, fotografemi 2020

La fotografia fake (terza parte)

Ovvero la fondazione definitiva della fluff-art o della (phos)-fluff-art

«… la fuffa visiva rappresenta un’alterità così radicale
che non si può guardarla senza morirne»

Angelo Shlomo Tirreno

Nel sermone delle pagliacciate fotografiche di 
Castrashia e della sua setta. 
Ale Ci Fà cita fra le sue giustificazioni della strategia della tensione 
la sete dell’occultamento per arroganza. 
La prima sete,  si capisce, ma perché la seconda? 
Correre dietro alla menzogna non significa forse liberarsi? 
Ciò che qui è preso di mira non è il fine ma la corsa come tale, 
l’inseguimento e l’attaccamento dell’Occulto.
 – Sfortunatamente, sul cammino dell’oppressione è interessante 
soltanto lo smascheramento della Fuffa.
La liberazione? Non ci si arriva, ci si sprofonda, ci si soffoca.
La fuffa stessa – un’asfissia! La più salata però!

Angelo Shlomo Tirreno

5. Nota a margine della narrazione: Se pensiamo a questa parola – Fuffa (eccesso inutile; Merce dozzinale, di scarsissimo o nessun valore; ciarpame, paccottiglia) -, ancora una volta dobbiamo andare là dove ci conduce l’immagine di Giovanna Castrashia. Ma anche in quel luogo dove tutto finì e trovò la sua fine, dove alla fine molto venne alla luce ancora una volta. Dobbiamo ritornare alla Psicofuffa sistemica dei Fiancheggiatori della Menzogna e del Nuovo Leviatano della Fuffa (NLF: «f» sta sia per fuffa che per fascismo). Essi si dissero e si compresero come inviati della Provvidenza del male fotografico, e dunque un intoccabile dimensione gregaria di Mastro Fuffa. Castrashia, derise tutti gli attentati dei suoi nemici e ne uscì viva come una che il destino l’aveva chiamata al proprio posto; e così probabilmente fu. Apparve come una inviata e invasata, come colei che doveva compiere qualcosa. In lei si incontreranno molte cose, come per l’ultima volta, e forse da sé non inventò nulla. Agì come coatta, nel nome e nello spirito di altri coatti, sebbene in prima persona. Ciò che accadde, non poteva appartenere ad un’altra. In quel luogo e in quel tempo, la Fuffa si espose (si sposò) attraverso di lei quasi inconsciamente, più come fascistizzazione che come azione diretta all’immagine di per sé.

Mentre Roland Barthes definisce la fotografia un “messaggio senza codice” poiché, osserva, nel passaggio dal reale all’immagine fotografica si verifica un fenomeno di riduzione che riguarda la proporzione, la prospettiva e il colore, ma non un processo di trasformazione (poiché non è necessario disporre di un codice; come avviene invece con il linguaggio verbale e il testo scritto) per passare dal reale alla fotografia, che ne costituisce dunque il suo analogon (non a caso le fotografie antecedenti l’era digitale sono chiamate ‘analogiche’), Castrashia manipola i poeti e vuole falsificare la funzione della fotografia (NLF) attribuendogli dei valori letterari che essa non possiede e non possiederà mai. Si potrebbe pensare che Castrashia fosse meno propensa per quel gruppo di idee trasmesse da Roland Barthes; in verità i tentativi di non farsi umiliare da questo studioso incontrarono in lei reazioni più adatte alla fuga e alla deviazione, anziché alla chiarezza. In un certo senso Roland Barthes, attraverso di me, era il peggiore di tutti i nemici di Castrashia, di quelli che si fossero fermati per qualche tempo al punto di saturazione della conoscenza fotografica. Invece, in definitiva, per me, risultò il migliore di tutti, dimostrando come sia vero che è lo spirito della ricerca a plasmare le vocazioni antidogmatiche, e che talvolta esse sanno suscitare le migliori difese da quello che apparentemente sembra il materiale meno adatto. Ma tutto questo per Castrashia era difficile capire. Arrivati alla questione centrale dell’identità della fotografia, Castrashia quasi sempre si perdeva tra i narcisismi del contenuto e le banalità della forma. Insomma, per lei la fotografia era solo uno specchio per trattenere il respiro e constatare che stava cadendo a picco. Roland Barthes smentisce l’operato mortifero di Castrashia, mettendo in evidenza la differenza tra la fotografia e le arti imitative come il disegno, la pittura o il cinema, che, per quanto mirino a una restituzione fedele del reale, sono intrinsecamente connotate dallo stile dell’autore. Elemento che, secondo il semiologo, non sarebbe presente nella fotografia. La fotografia quindi, espone Barthes ne La camera chiara, si limita ad affermare l’esistenza di ciò che riproduce in maniera così indiscutibile che “non si distingue mai dal suo referente”, dal quale risulta inseparabile. È proprio questa aderenza tra fotografia e referente a rendere estremamente difficile l’individuazione della sua identità. A riprova del legame intrinseco tra immagine fotografica e realtà rappresentata, Roland Barthes ricorda come la fotografia non sia il punto di arrivo della mano dell’artifex, ma una reazione chimica, allorché “una circostanza scientifica, la scoperta della sensibilità alla luce degli alogenuri d’argento, ha permesso di captare e di fissare direttamente i raggi luminosi emessi da un oggetto variamente illuminato”.

Roland Barthes, C&C, 1981

Proprio per questo, mentre per Roland Barthes, la fotografia sarebbe letteralmente un’emanazione del suo referente, il suo analogon, la testimonianza che una “cosa necessariamente reale è stata posta davanti all’obiettivo” e che “la cosa è stata là”: ne rappresenta l’autenticazione poiché anche se “può mentire sul senso della cosa, [non può farlo] mai sulla sua esistenza”, nel caso della fotofuffica – di Castrashia – la stampa fotografica si pone come principio di incertezza tra l’analogico e la riproduzione dello scanner, raggiungendo il trompe-l’oeil dell’immondizia, la derisione di se stessa, una dimensione contro lo spazio reale come sua seduzione borderline. Essa fa vacillare i poli vitali. Non è il polo opposto al reale, è qualcosa che abolisce l’opposizione distintiva e quindi la stessa fuffa, così come questa si è incarnata storicamente nella fuffocrazia e come può incarnarsi domani nella fuffocrazia iconica e veritativa. Il ragionamento di Barthes non teneva conto, né poteva farlo, del procedimento digitale, e quindi potrebbe risultare oggi superato in quanto la tecnologia digitale è in grado di creare dal nulla immagini verosimilmente reali, ma la sua tesi risulta ancora condivisibile all’interno di una continuità trans-strutturale. In sostanza, lo scatto fotografico rimane identico e, sia nel passaggio analogico che in quello digitale scolpisce la stessa sostanza connotante. Viceversa, per effetto dello zoom foto-fuffico, la dimensione del reale di Castrashia è abolita, la distanza dello sguardo lascia il posto ad una rappresentazione istantanea della mostrificazione, quella della fuffa allo stato puro, spogliata non solo di ogni bellezza, ma della stessa virtualità della propria bruttezza; bruttezza così vicina, da confondersi con la propria rappresentazione dell’orrendo: fine dello spazio prospettico, che è anche quello dell’immaginario e del fantasma, fine della scena, fine dell’illusione.

In altri tempi, si sarebbe detta, inviata colà dalla verità (fossero anche, dopo lunghe buffonerie) ciò di cui l’arte deve sapere ora rispondere al posto delle patacche abolite. Qui, dunque, scorgiamo la fuffa come per l’ultima volta, al suo stadio terminale: ciò che deve accadere, lo scorgiamo in una mimetizzazione di ciarpame, come concentrato nella paccottiglia ottusa del più assurdo orizzonte fotografico; un orizzonte che esso stesso, se dovesse fallire, non cesserebbe di profetizzare. Non lei, ma la Castrashia della Fuffa, la sua stessa compressione, il centro della Morte dell’Arte, si sarebbe trovata più in là, e noi oggi possiamo vedere tutto ciò che questo ha comportato. Cecità di una follia opulenta, hybris del ready-made, analogon della merda d’artista e inarrestabile fin dall’inizio. Poiché c’erano i nemici, ed erano potenti, si sapeva tutto e tutto si combatteva senza poterci fare nulla. Una tragica insolubilità si erge qui contro una fotografia fondata su un principio di falsificazione del mondo, un principio che parte dall’imposizione di codici che non esistono, un castrashismo che vuole falsificare la sterile verità dell’analogon fotografico.

Come dice Roland Barthes: nei giornali, la fotografia è un tramite tra la fonte di emanazione e la compilazione del giornale, tra la macchina fotografica, che nel caso di Castrashia scatta quasi da sola, e lo stereotipo del nulla.

Nello stesso tempo possiamo vedere anche quello che con ciò finì. Da quel momento, nella vista, nella storia del vedere e nell’arte, il fonema, adocchiato e incompreso da Castrashia, il concetto o il sentimento di questo non reggono più. Ma questo significa forse che ciò che non si considera più sia inesistente e che la fotografia, occupandosene e stando nel suo segno, non sia catastrofica o non sia più di moda o non all’altezza della nuova bugia, perché non corrisponderebbe ai tempi? Il cinema, come fabbrica della fiction, per le masse venne inventato e sviluppato negli stessi anni del primo fascismo. Esso prendeva il posto della fiction generalizzata, passando alla funzione di Museo. Ma anche questo si diede nuove leggi. Le fotografie Cast … trash di Castrashia, qualunque cosa possano arrecare, non si pongono mai come definitive di ciò che si può fare al limite del fuffico. Con Castrashia è come se ci trovassimo nella fine mostrificata dopo gli eventi, nell’eco di ultime partite, come in un funerale della fotografia. Castrashia, che incarna la nera derisione del bene di una virtualità cancellata, ancora piena del sentimento trash per l’apparire falsato e per la sua insolubile fragilità, spinge le anime dei suoi soggetti nell’intreccio della simulazione, della giustificazione nel Regno della pseudologia.

Interno 14, Traum-monti dell’Annus horribilis, Italy 2020

La Fuffica, divenuta simbolo di un intero sistema interpretativo del mondo, rimane tuttavia una ricca fonte per misurare i mutamenti degli interessi odierni rispetto alla sua funzione originaria. Oggi Marco Polidori è divenuto l’uomo della fondazione degli interessi fuffici. Ma una volta fu il fiancheggiatore del destino di Castrashia. Oggi, egli serve all’occultamento burocratico teso alla dominabilità del mondo. Chi conosce questo caso e ne tiene conto, è forse in grado di fare ordine in sé, di conservarsi e di salvarsi? Il caso degli Zombie era leggermente diverso. Là, proprio negli stratagemmi per vivere, vi era una sorta di situazione senza scampo e, per riconoscere i propri doveri di inquinatore, era necessaria una coerenza (al sangue) assoluta. Si esigeva la controfattualità arrogante. E, nonostante tutto ciò, vi erano l’intervento malefico e l’azione vampirica, impotente nel sopportare una colpa incolpevole. Chi scampava, era istruito più dalla saggezza della violenza, che dalla tracotanza di sfuggire alla vita o di volerla padroneggiare. Il cinema purificava l’assenza della parola fino alla prossima pellicola horror, mai identica. Ma essa elevava e rendeva consce le trame nel sorriso della rivolta intuitiva, contro l’impotenza verso la natura delle cose, degli accadimenti e della nostra essenza, ovunque questi si manifestassero. Dopo Marco Polidori e Giovanna G.L. Castrashia, ci dissero, non ci sarebbero stati Zombie a fare la storia, ma il fuffismo allo stato puro. Ciò che veniva detto destino doveva essere preso nelle proprie mani e mutato ogni quattro anni; da allora la responsabilità è assunta da tutti e tutti possono precipitare insieme nell’abisso, come prima uno solo per tutti. Allora, nella hybris fuffica mono-totalitaria, i normali dovevano essere puniti da un altro Fuffismo despota (NLF party), con diritto o senza, come accade nella storia della vita. Oggi sembra che il destino assegnatoci sia determinato dal trash del fuffismo, che un giorno si vendicherà. Ma il Fuffismo rimane sempre lo stesso, anche quando viene conosciuto, negato, disprezzato, patito senza rimedio o deriso, e anzi, proprio allora, è minaccioso e sempre presente. Soltanto là dove se ne terrà conto, foss’anche velatamente, vi sarà fotografia; tutto il resto apparterrà alla storia delle menzogne, in forme sempre nuove. Anche questa è un’arte, ma anche una insidiosa trappola – un’altra.

Comunque sia, la fotografia che afferma la fuffa è l’arte dei nostri tempi, della loro cecità e della loro esasperazione. Essa dovrà contenere il trash, persino nella sua negazione oppure non sarà. La sua ricchezza è determinata da quanto ne è gravida, ovvero da quanto trash essa reca in sé. Il fattibile, ovvero il fuffibile, tuttavia, non è soltanto una categoria dell’imbroglio e della manipolazione, attiva fino all’ibrido dell’ultra-privilegio social-picologico dell’umano. Esso è anche una categoria dell’Estetica del Brutto. Così, d’un tratto, tutto è permesso: spostamenti nelle fotografie delle Castrashie, falsificazioni, iperfuffica testuale e non solo nelle traduzioni, nelle scenografie del vuoto, o nella distribuzione del malefico. A partire da questo campo di battaglia, nessuno si sente di essere di fronte al tribunale della responsabilità, nei confronti della distribuzione del trash e dell’abbondanza di like e consensi, il giudice viene intimidito e trasformato in laido zombie e reso inadeguato ai tempi, così da essere costretto alla conformità. E dal momento che l’intero sistema del fare e le coordinate dei pregiudizi nei media corrispondono a un tempo deforme, si formerà l’immagine di un’immagine che si appropria del mondo in una tirannide di Simulacri, in una fuffica liberal e necessaria, e che un giorno starà di fronte al tal giudice, se sarà ancora capace di reggersi. La virtù iperfuffica del trash di un’umanità senza logos, poiché essa una volta fu il suo delitto perfetto e la sua più alta virtù – quella assegnatale dall’immagine di Marco Polidori e Giovanna Castrashia – divenne Leviatano.

Per Barthes l’annotazione (nota come didascalia), oltre a produrre un messaggio, funge anche da canale di trasmissione, cioè da mezzo di propagazione fisica del codice, che l’emittente utilizza quando attiva la comunicazione per inviare il messaggio al ricevente, in questo caso il pubblico dei lettori: così la didascalia ha il potere di forzare la fuffa. Da ciò deriva il ruolo fondamentale che viene ad assumere il testo che accompagna la fotografia, in quanto l’immagine riproduce il contenuto del messaggio e la didascalia, affiancata da importanti elementi di contestualizzazione dell’immagine nel giornale, il mezzo per esprimerlo. La pornofuffa di Castrashia è, invece, la quadrifonia dell’immondizzia. Essa aggiunge una terza e una quarta pista all’atto del clic. Regna nell’allucinazione del dettaglio deforme, nel voyeurismo dell’inconcludenza, nella pianificazione definitiva dell’estetica del mostruoso. Tuttavia Barthes, esaminando l’utilizzo della fotografia in ambito giornalistico, deve riconoscere che il messaggio fotografico in questo contesto contiene l’elemento connotativo, insito già a livello di produzione e ricezione dello stesso. Il paradosso fotografico consisterebbe allora nella coesistenza di due messaggi, l’analogon fotografico sprovvisto di codice e il “trattamento” o “scrittura”che ne è dotato. La connotazione, consistente nella “imposizione di un senso secondo al messaggio fotografico propriamente detto”, si esplica ai vari livelli della produzione, in base a una serie di procedimenti che Barthes classifica in due gruppi: il primo attiene alla modificazione del reale e comprende trucco, posa e disposizione degli oggetti; il secondo riguarda i processi di fotogenia, cioè le tecniche di cambiamento favorevole all’estetica dell’immagine, o estetismo, che si manifesta quando la fotografia è deliberatamente manipolata per avvicinarla alla pittura o esasperarne il valore. Quest’ultima entra in gioco nel caso di sequenze fotografiche, in cui il senso è dato dal preciso ordine in cui i singoli elementi vengono disposti. Venendo a parlare più specificamente del rapporto immagine e didascalia, Barthes afferma che il testo che accompagna la fotografia costituisce un “messaggio parassita”, la cui funzione è connotare l’immagine e quindi attribuirle significati secondi. Si tratta di un rovesciamento storico importante,perché non è più l’immagine a essere subordinata a un testo, per il quale fungeva da illustrazione, ma è il testo a venir dopo l’immagine, risultando attraverso la parola un elemento di chiarimento o precisazione. L’effetto connotativo dell’immagine si incrocia con quello del testo, con una relazione variabile che può essere rappresa nell’affermazione secondo la quale “più la parola si avvicina all’immagine e meno sembra connotarla”, tanto che la missiva verbale sembra confermare semplicemente l’elemento denotativo. Tale effetto viene amplificato dalla disposizione fisica della didascalia rispetto all’immagine. Tuttavia una referenzialità assoluta del testo è impossibile, in quanto nel passaggio dalla struttura iconica a quella testuale vengono elaborati ulteriori sensi di connotazione, i quali possono soltanto enfatizzare l’immagine oppure risultare completamente nuovi, cioè “proiettati retroattivamente nell’immagine”. È questo il caso della strumentalizzazione dell’immagine a cui viene attribuito un significato arbitrario; in effetti, le condizioni linguistiche proprie del verso sono completamente diverse dalla struttura dell’immagine. Il gioco tra immagine e testo viaggia su due binari diversi e forse non sono neanche paralleli. Forse si tratta di un binario approfittatore e leviatanico che da tempo vorrebbe totalmente fagocitare i testi letterari, ibernandoli. Non va inoltre dimenticata, continua Barthes, l’essenza storica e culturale della connotazione, per cui l’attribuzione di significato a un’immagine risulta inevitabilmente viziata dal contesto entro cui avviene. Questo conduce lo studioso a una conclusione, che mette in discussione tutta la concezione della fotografia fuffologica (e come analogon denotativo): la percezione dell’immagine avviene per mezzo di un processo di verbalizzazione, vale a dire il pensiero dell’osservatore che recepisce il messaggio fotografico traducendolo automaticamente in un metalinguaggio interiore, che rappresenta quindi una “connotazione percettiva” e riporta lo spectator a mediazione politica del logos. Per Barthes, l’unico caso in cui è possibile una denotazione pura sarebbero le foto cosiddette traumatiche (catastrofi, incendi, naufragi, ecc.), poiché lo choc “sospende il linguaggio e blocca la significazione”, l’impatto violento dell’immagine impedisce il flusso di pensiero, con cui normalmente l’osservatore descrive nella mente ciò che guarda, ma purtroppo la fuffa fotografica non è in grado di riprendere neanche questo elemento di choc. La fuffa fotografica, lo choc lo occulta, produce una strategia della tensione che partorisce il silenzio fuffico del terrore. In Retorica dell’immagine, portando avanti il ragionamento precedente, Barthes si concentra sui tipi di messaggio che la fotografia può contenere e prende come punto di riferimento la pubblicità, poiché in questo settore “il significato dell’immagine è sicuramente intenzionale”, in quanto sono stabiliti a priori i significati del messaggio, in base alle caratteristiche del prodotto da promuovere: quello linguistico, formato dalla didascalia e dalle etichette inserite nella scena come “en abyme”. Ma l’immagine contiene altri due tipi di messaggio, quello iconico e il cosiddetto “messaggio senza codice”. Il messaggio iconico esprime i valori, potremmo dire, culturali, sottesi agli elementi presenti nell’immagine. Si potrebbe, quindi, intendere come un messaggio simbolico, definito da Barthes “iconico codificato”, cui si oppone il terzo tipo di messaggio, definibile “letterale” o “iconico non codificato”. Quest’ultimo riguarda gli oggetti della scena in quanto tali, che, essendo in relazione di “quasi-identità” con quelli reali, non necessitano di un codice per la loro conoscenza: in questo senso la fotografia è intesa come analogon dell’effettivo. I due messaggi iconici sono difficilmente distinguibili e, a livello di fruizione, non vi è separazione tra il recepimento del messaggio percettivo e di quello culturale: “questa confusione di lettura corrisponde alla funzione dell’immagine di massa”, il cui obiettivo è far sì che il pubblico associ determinati valori culturali a determinati oggetti. I due messaggi, infatti, sono strettamente correlati, dal momento che quello letterale funge da supporto a quello simbolico: una simile struttura corrisponde al problematico rapporto tra denotazione e connotazione. Entro l’ambito iconico del messaggio fotografico, si può collocare la teoria espressa da Barthes ne La camera chiara riguardo alla fruizione dello spectator, cioè colui che è coinvolto nella fotografia, attraverso due modalità: lo studium e il punctum. Lo studium è “una sorta di interessamento, veloce, certo, ma senza particolare intensità”, che induce l’osservatore a rivolgere la propria attenzione alla fotografia, sulla base delle proprie conoscenze. In questo modo, egli rivive le intenzioni del fotografo, ma attraverso il proprio filtro di spettatore. Il punctum è invece ciò che di una fotografia “mi ghermisce” (dice Roland Barthes), è l’elemento che “viene a infrangere (o a scandire) lo studium”: è il particolare che attira l’attenzione, correlato allo studium, ma fra essi “non è possibile fissare una regola di connessione”, poiché i due momenti sono compresenti. Spesso il punctum è un oggetto parziale, un particolare non necessariamente collegato a qualcosa di etico o relativo al buon gusto: in conclusione è ciò che il fotografo non ha messo in maniera intenzionale. È quindi “un dettaglio che viene a sconvolgere tutta la mia lettura, il mutamento vivo del mio interesse, una folgorazione”, “un supplemento che io aggiungo alla foto e che tuttavia è già nella foto”. Dunque lo studium è sempre codificato, mentre il punctum non lo è mai ed è prettamente soggettivo, ambivalenza che rende ancora più difficilmente definibile l’essenza del messaggio iconico. Per quanto riguarda il messaggio linguistico Barthes osserva come il legame tra immagine e testo diventi ricorrente a partire dall’avvento del libro e si chiede quale sia la “struttura significante dell’illustrazione”, se enfatizzi il testo in maniera ridondante, o al contrario sia essa l’elemento dominante a cui il testo aggiunge informazioni. Forse è questo il motivo per cui Castrashia, con la sua strategia dell’occulto ce l’ha a morte con quel libro. È il libro che ella vuole ferire, ibernare e distruggere, perché è proprio da esso che è partita la sua vicenda ricca di errori fotofuffemici. 

Viceversa Roland Barthes – osservando il contesto della medialità, in cui rileva una costante presenza dell’elemento testuale accanto alle immagini, in forma di titolo, didascalia, articolo di stampa, dialogo di film, fumetto – giunge alla conclusione che sia improprio definire la nostra società come ‘civiltà dell’immagine’ in quanto è ancora pienamente una ‘civiltà della scrittura’. Avendo riconosciuto come nel recepimento del messaggio fotografico complessivo abbia un ruolo determinante il messaggio linguistico, Barthes ne individua le funzioni principali nell’ancoraggio e nel ricambio in rapporto ai due messaggi iconici. L’ancoraggio attiene alla qualità del testo scritto, di fissare la “catena fluttuante dei significati” dell’immagine che, per sua natura, è polisemica: il messaggio linguistico è una delle tecniche che le società sviluppano per “combattere il terrore dei segni incerti” e facilitare quindi l’identificazione degli elementi della scena mediante una descrizione che orienta la percezione e l’interpretazione dell’osservatore. In ambito pubblicitario e giornalistico questa funzione risulta fondamentale per trasmettere un messaggio univoco riguardo al prodotto da vendere, in un caso, e alla notizia da trasmettere, nell’altro. La funzione di ricambio, più rara, riguarda invece soprattutto i disegni umoristici e i fumetti, in cui il testo si presenta in forma di frammento di dialogo ed è in rapporto di complementarietà con l’immagine, detenendo il compito di far procedere la narrazione.

Interno 14, Il dono dell’arte, that physical or chemical, Dettagli 2021