Ogni volta che ti vedo
Moravagine, Vizi
tu mi parli ed io non sento.
E mentre mi perdo dentro me
penso al tempo che è passato
e che non è mai morto.Ho perso i miei vizi e ho perso te.
[…]
Oggi sì che è il giorno giusto
per rompersi le palle.
Oggi è il giorno che ricado
tra tutti i miei vizi.
Giorni fa ero su una pagina web che m’ha quasi commosso (consultabile qui). Non tutti gli articoli pubblicati su questo sito sono nelle mie corde, ma lo frequento spesso e ne riconosco il valore.
Nell’articolo in questione, intitolato “Parole oscene” (che invito a leggere con attenzione perché è un contributo eccezionale), trovi una lunga rassegna di parole “scorrette”: più comunemente dette parolacce. Perché mi sono commosso? Beh, perché ho pensato al mio passato, al tempo che sto vivendo e al futuro in un unico lampo. Procedo con ordine (no, non è vero: sarò sgangherato).
1) Ho pensato al passato perché, quando ero bambino, mi divertivo (da matti e con euforia) a cercare tra i grandi autori della letteratura, in poesia e prosa, tutte le zozzerie ch’essi avevano annotato. Zozzerie che annotavo a mia volta su un quadernetto che è andato perduto. Il mio non era soltanto un comportamento da gypsy-punk in età puberale, non era un’inclinazione depravata al dirty talk o chissà quale principio di malattia psichiatrica. La spiegazione è molto semplice: avevo intuito che la letteratura era divertente, rivelatrice di nuovi scenari, e non era certamente quella cosa riprovevole che veniva proposta a scuola. Avevo anche una classifica di autori, una sorta di jukebox dell’osceno, che andava da Cecco Angiolieri a Pietro Aretino, da Petronio ad Aristofane ecc. Ma non voglio dilungarmi.
2) Ho pensato al tempo che sto vivendo perché seguo, con parecchia irritazione (provo la stessa irritazione quando ascolto ciarlare di ecologia in tv), questa moderna vicenda sul “parlar corretto”, sul bandire Courbert su Facebook, sul tagliare un brano di de Sade su Instragram o una vignetta (veramente) satirica su Twitter perché reputati “sporchi”. Il tutto accade mentre, un paio di post successivi, uno dei tanti contatti social che ho tra gli “amici” deve necessariamente mostrarmi quanto le stia bene la sua minigonna trash; o mentre un tizio mi aggiorna sull’ampiezza del suo “pacco”, gonfiando i bicipiti in palestra come la legge delle bestie alpha indica; o ancora, mentre entrambi mi informano di amarsi alla follia (buon per loro… almeno un “cerchio” s’è chiuso).
3) Ho pensato che, a causa della corrente isterica associazione tra etica e correttezza, molto di moda malgrado ci sarebbe altro di cui occuparsi (malgrado ci sarebbe da rivedere l’etica per intero), stiamo correndo un grosso rischio. Il rischio è che un giorno, un giorno spero lontano, la bellezza complessa e contraddittoria della lingua e l’irruente forza dell’immaginazione possano scadere in dei meri mezzi per comunicare (comunicare alla maniera di una pubblicità), e abbandonino ciò che essi sono invece deputati a fare: diventare uno spray corrosivo per scrostare le illusioni e le false convinzioni che camuffano l’intimità dell’esistenza, creando nuovi punti di vista, distruggendo quelli vecchi.
La lingua e l’immaginazione dovrebbero essere (dovrebbero continuare a essere) il frutto di uno scontro: quello tra chi possiede una consapevolezza e l’ambiente, come avrebbe detto un Lamark un po’ più pop o meno scientifico (l’intuizione non è mia: non sono così intelligente). Se i risultati di questo scontro non venissero più accettati in letteratura, nella musica o nell’arte, in quanto “espressioni” che segnano il tempo e limitano il vezzo delle autorità*, a quale funesto evento cognitivo potremmo andare incontro? In altre parole, quale umanità stiamo progettando?
Ho un’ipotesi. Se l’osceno artistico dovesse scomparire, se non dovesse essere più sottoposto a una seria analisi, il nostro mondo si trasformerà in quello che il perverso desiderio di potere di molti, camuffato in sconclusionata lotta civile, impone: un luogo malato, falso, burocratico e coi fiocchettini, in cui il rispetto tra le soggettività (ne parlerò più avanti) è posto non come inclinazione naturale, bensì come atto per evitare una sanzione. Dunque vi imploro: spiegatemi per quale motivo è così difficile capire quanta distanza sussista tra la realtà e la sua rappresentazione; qualcuno mi spieghi perché le masse contemporanee non riescano a notare l’abisso che separa la volgarità dentro una forma apparente e la violenza concreta, la quale frequentiamo e finanziamo pure quando dormiamo. La butto là: che questo problema sia, piuttosto, una lacuna pedagogica? Mi spiego meglio: è possibile che il disorientamento a cui assistiamo sia il frutto di una mancata un’educazione all’indecenza?
Una bellissima canzone del 1980 dei Siouxsie and The Banshees, intitolata “Happy house”, mi pare emblematica. Traducendola in italiano e interpretandone il senso, e cioè travisandola, questa canzone non fa che ironizzare su quanto stiamo vivendo: «Siamo felici perché dimentichiamo noi stessi, e fingiamo che non esista l’inferno».
Difatti leggi fra le righe quello che i media propongono di ora in ora (dai quotidiani ai talk show alle serie tv; tutto un unico pentolone di marciume, privo di onesta indecenza): stati d’animo incerti, paure, collassi. Sono o no “visioni” ben oliate per scacciare, dimenticare la paura con la paura, l’inferno con l’inferno? Non rimane che un pensiero, steso ad asciugare al Sole. Nemmeno uno straccio scolorito. Soltanto rabbia. Oh, beh — potresti obiettare — e che vuoi raccontare di ‘sti tempi? Semplice, scrivi tu il tempo: per esempio una lettera d’amore. Non è questo esercitare democrazia? Questo è un argomento che abbiamo sentito spesso.
Ritorniamo alle soggettività. Come sempre, un’illuminazione arriva dal dialetto. Dalle mie parti, in Sicilia, quando un soggetto A offende un soggetto B quest’ultimo dice: «Stai sbagliando a parlare!» (l’ho trascritto in italiano). Tale frase viene pronunciata per mettere in chiaro un aspetto, e cioè che sarebbe preferibile non valicare dei limiti importantissimi, sacri.
Mai sosterrei l’offesa, né giustificata né gratuita; e lo scrivo appositamente, anche se non è necessario, perché oggi fraintendere i messaggi è uno sport molto popolare (o uno dei tanti effetti del neo-analfabetismo). Tuttavia ritengo che il “parlare sbagliato” non dovrebbe venir corretto, bensì studiato (chi può concretamente arrogarsi il diritto di giudicarlo e punirlo? ti trovi in una condizione di integrità morale che ti permetta di farlo?). E c’è una ragione di fondo. In questo tempo in cui tutto è confuso, in cui tutto è fallito, in questo tempo in cui non c’è possibilità di districare i nodi, “parlare sbagliato” è forse l’unica cosa che c’è rimasta per capire chi siamo, dietro noi stessi e al di là di tutti i titoli che abbiamo affissi sul petto come le medaglie di guerra.
Concludo; e ciò valga per i giorni a venire. Se il mio “parlare sbagliato” non ti piace, e non ti ho offeso con intenzione, ma probabilmente ho soltanto affrescato un verità della vita con modi sardonici, indecenti, il problema è tuo, non mio. Ecco, su questo problema dobbiamo battere la testa. Lascia perdere la finta etica, quella inventata dai repressi, ché tanto non porta a nulla ed è soltanto violenza travestita da orsacchiotto. Leggi, studia, educhiamoci. L’indecenza artistica è una risorsa, è la sveglia alle quattro del mattino, è la goccia di aceto sull’insalata. L’unica nota stonata in un’esistenza ipnotica.
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*Ovvero soffocare la libertà individuale per suo tornaconto. Non tutte le arti, purtroppo, sono in grado di farlo.