Kunst Meran apre le porte al pubblico con una nuova mostra, TURNING PAIN INTO POWER, una collettiva il cui valore artistico, sociale, collettivo e di impegno contro le ingiustizie emergeva a chiare lettere sin dalla presentazione.
Ne abbiamo parlato con la curatrice, Judith Waldmann, a cui Segnonline ha posto alcune questioni riferite alla mostra ed alla riflessione che essa sottende.
Azzurra Immediato: TURNING PAIN INTO POWER, è il titolo, inequivocabile, che la mostra da te curata, accoglie il pubblico del Kunst Meran Merano Arte. La consapevolezza delle ingiustizie ma anche del potere che il dolore provocato riesce ad operare nelle persone vittime di prepotenza, guida la ricerca degli artisti scelti per raccontare questo tema. Come è nato questo progetto di mostra?
Judith Waldmann: La mostra affronta il tema della discriminazione nella nostra società. Si tratta di un tema che, purtroppo,ci sembra più importante che mai, soprattutto nei tempi attuali. L’omofobia e la xenofobia stanno sempre più prendendo piede e minacciano l’apertura e la generosità delle nostre comunità. In questi tempi di crisi, si rafforzano le rappresentazioni del nemico, dividendo sempre più la nostra società invece di fornire connessioni. Legami di cui abbiamo urgentemente bisogno, soprattutto di fronte a crisi che dovremmo affrontare insieme, come la guerra e il cambiamento climatico. Abbiamo quindi ritenuto fondamentale affrontare questa situazione e provare a fare qualcosa per contrastarla. Se vogliamo muoverci insieme e unire le nostre energie rispetto a queste sfide, dobbiamo opporci a queste forme di rappresentazione e smettere di opprimere e discriminare. Proprio qui entra in gioco la possibilità di TURNING PAIN INTO POWER. La mostra offre una piattaforma ad artist* che usano la propria pratica per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle ingiustizie sociali e politiche.Vengono affrontati da diverse prospettive temi come il razzismo, la violenza di genere o la lotta alle discriminazioni (come quelle rivolte alla comunità LGBTQIA+). Le opere esposte non vogliono istruire ma informare, attraverso strategie creative e insolite capaci di sottolineare le iniquità e far sentire la propria voce. In questo modo, dimostrano l’importanza della presa di posizione e come accettare in silenzio forme di ingiustizia implichi una complicità.
A.I.: La mostra, in forma di collettiva, abiterà sino a gennaio gli spazi del Kunst Meran, seguendo la volontà di risvegliare le coscienze attraverso opere che, grazie alla loro potenza concettuale, visuale e comunicativa portano aevidenza tematiche come la lotta alle discriminazioni di qualsiasi tipo. Quale è la risposta dell’arte ultracontemporanea a questi temi?
J.W.: Le risposte a questa domanda sono molteplici. Da una parte, i codici visivi e i simboli possono diventare segno distintivo di un movimento, garantendone il riconoscimento e la difesa dei contenuti per cui si batte. È il caso, ad esempio, della attuale rivoluzione femminista in Iran che vede un forte uso del linguaggio simbolico. Anche all’interno della mostra i simboli giocano un ruolo centrale.Il lavoro di Giuseppe Stampone, ad esempio, cattura un momento storico impresso nella nostra memoria collettiva: nel 1968, durante la premiazione alle Olimpiadi di Città del Messico, l’atleta afroamericano Tommie Smith alza il pugno proponendo il saluto del movimento Black Power, un segno contro la discriminazione della popolazione afroamericana. A distanza di circa cinquant’anni, il gesto di inginocchiarsi proposto da molti atlet* in tutto il mondo come atto di solidarietà, in relazione al movimento Black lives matter, si ricollega a queste strategie di protesta pacifica. Philipp Gufler, il cui lavoro si occupa della discriminazione della comunità LGBTQI+ in Germania, riprende invece in una delle sue opere il “triangolo rosa”, cioè il simbolo cucito sulle casacche delle persone omosessuali deportate nei campi di concentramento. Nella Germania postbellica questo segno, accompagnato dalla scritta “Omosessuali contro l’oppressione e il fascismo” è diventato un simbolo contro l’omofobia e contro l’oblio delle atrocità perpetrate dal nazionalsocialismo. Alcune opere propongono anche un “approccio pratico”. È il caso delle “Calling Cards” di Adrian Piper, dei biglietti da visita che possono essere presti e portati con sé nel portafoglio, per essere poi consegnati a persone che attuano comportamenti razzisti o sessisti. Si tratta di un modo creativo per alzare la propria voce e non lasciare che simili situazioni passino sotto silenzio. Silvia Giambrone, invece, ha ricamato su coperte per bambini, “Security Blanket”, una serie di consigli di difesa per donne in caso di tentativi di stupro. I modi attraverso cui vengono affrontate a queste tematiche sono molteplici, sorprendenti, forti e spesso molto toccanti.
A.I.: Il messaggio del progetto sembra chiarirsi sin dall’ingresso del museo, dove campeggia l’opera di Monica Bonvicini ‘I won’tshut up’ – che è anche identità visuale della mostra – ed è un claim riferito all’art 11 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. Il diritto di far sentire la propria voce di fronte alle ingiustizie è assolutamente impari nel mondo, molto spesso fonte di pericolo. L’arte è essere un medium di resistenza attiva?
J.W.: Sì, l’arte può essere un medium di resistenza attiva. Tuttavia, come hai giustamente sottolineato, esprimere delle critiche al sistema non è un diritto tutelato in tutto il mondo. Il lavoro di Monica Bonvicini affronta il privilegio della libertà di espressione, sancita dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che esprime quasi il dovere di “aprire la bocca” e non accettare in silenzio le ingiustizie. Le relazioni annuali di organizzazioni come Reporter Senza Frontiere, PEN International o FREEMUSE – defending artistic freedom fanno emergere i casi di coloro che, pur in assenza di una protezione legale, resistono criticamente. Questi report indicano quant* artist*, musicist*, giornalist* vengono imprigionat* o addirittura scompaiono senza lasciare traccia a causa delle loro prese di posizione.
A.I.: In che modo si è svolta la scelta degli artisti e che processo avete seguito per il progetto allestitivo?
J.W.: L’aspetto centrale è stato il modo in cui gli artisti e le artiste hanno affrontato le iniquità riportate. La mostra non vuole porre i visitatori e le visitatrici “davanti al dolore degli altri”, come criticato da Susan Sontag nell’omonimo saggio. Non vengono mostrate “vittime”, ma strategie artistiche consapevoli e creative che affrontano e contestualizzano chiaramente le ingiustizie e incoraggiano la riflessione, l’azione e la discussione.
A.I.: I venti della Destra che soffiano sull’Europa e non soltanto appaiono come anacronistici e soprattutto spaventano. Nel mondo i diritti civili e sociali sembrano essere a repentaglio, in una confusione populista dettata da certa politica. Il ruolo degli artisti, della cultura e degli intellettuali, la loro libertà è anch’essa in pericolo secondo il tuo parere? In che modo gli addetti ai lavori possono operare affinché il diritto dell’arte di educare e far comprendere le dinamiche del mondo non venga rinchiuso entro limiti invalicabili?
J.W.: Penso che la situazione sociale che stiamo vivendo porti persone che operano nel contesto artistico e culturale a esprimersi in modo più forte, diretto e forse anche più politico. Nel clima attuale queste posizioni potrebbero incontrare una maggiore opposizione da parte dell’opinione pubblica. Al momento non credo sussista un pericolo in termini di leggi fondamentali, ma il problema potrebbe rappresentare piuttosto il venire meno di vigilanza, attenzione e coraggio da parte della società civile nel prendere posizioni di fronte alle ingiustizie. Non solo chi opera in questi campi, ma ciascuno di noi ha il diritto di esprimersi contro ogni tipo di discriminazione. Mi auguro che TURNING PAIN INTO POWER possa porsi come fonte di ispirazione per affrontare temi di grande attualità e mettere in discussione narrazioni tossiche di esclusione.
A.I.: TURNING PAIN INTO POWER, cosa deve aspettarsi il pubblico? E cosa ha in serbo il Kunst Meran con questo progetto e ciò che seguirà?
J.W.: È una mostra incredibilmente intensa che ti entra nella pelle e ti mette alla prova. Non vengono serviti “piatti leggeri”, ma si affrontano questioni complesse. È una mostra che richiede tempo e attenzione, in cui il pubblico può aspettarsi esperienze intense, toccanti e anche capaci di scuotere. Alcune opere mostrano la vulnerabilità delle persone che subiscono discriminazioni, rendendo davvero tangibile la pressione che la nostra società esercita su alcuni gruppi, mentre altre opere colpiscono per il loro pragmatismo e l’invito all’azione. TURNING PAIN INTO POWER è pensata da Merano Arte come punto di partenza di un lavoro a lungo termine sui rapporti tra arte, attivismo e formazione, volto a indagare, mettere in discussione e contrastare i “punti ciechi”, cioè quelle forme di pregiudizio talvolta anche inconsapevoli, da cui scaturiscono le diverse forme di discriminazione.
TURNING PAIN INTO POWER
A cura di Judith Waldmann
Assistente alla curatela Anna Zinelli
Kunst Meran Merano Arte
Via Portici 163, 39012 Merano
Artist*: Cana Bilir-Meier, Monica Bonvicini, Rosalyn D’Mello, Regina José Galindo, Silvia Giambrone, Philipp Gufler, Giulia Iacolutti, Paulo Nazareth, Dan Perjovschi, Adrian Piper, Puppies Puppies (Jade Guanaro Kuriki-Olivo), Sven Sachsalber, Giuseppe Stampone
Dal 15.10.2022 – 29.01.2023
Orari: martedì-sabato: 10-18. Domenica e festivi: 11-18
Info: info@kunstmeranoarte.org | www.kunstmeranoarte.org
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