Questi ultimi due mesi del 2020, se avessi avuto un diario, li avrei intitolati “A scomparsa”. Sì, questo tempo, tempo che sgocciola, m’è sembrato simile a quelle porte eleganti nelle case dei ricchi che, con un dito, le lasci scorrere e finiscono dentro il muro. Purtroppo, però, non sono mai riuscito a tenere un diario. Non è cosa mia. È la logica che mi frega (oltre al fatto che io, di scrittura, fondamentalmente non ne capisco una mazza). E poi, non so te, ma a me fa orrore sapere che può esserci in giro un mio pensiero leggibile, appartenente a un Dario di qualche tempo fa. Mi inquieta. Sono troppo contraddittorio, e per nulla coerente, affinché possa leggere con piacere quello scrivo. Brrr.
Tuttavia, se avessi avuto un diario, la prima pagina della sezione “A scomparsa” l’avrei dedicata al racconto di una vicenda che potrebbe essere riassunta con questa esclamazione: «I lose my baby!». Ricordate chi l’ha pronunciata? Ma certo che no! È stata una madre, su quel palco di morte che la popolazione europea si ostina ancora a chiamare mar Mediterraneo, forse con un po’ di stucchevole romanticismo. Nei giorni successivi alla tragedia il nostro ricco Paese ha pianto un paio di lacrime, la stampa ha riempito di retorica i suoi spazi, e tutto è scomparso nel peggiore dei modi (non c’è eco in mare, e qualunque urlo viene inghiottito dall’orizzonte; lo diceva un poeta).
In un’altra pagina del diario, in rapida rassegna, senza successione cronologica, avrei annotato veloci riflessioni sulla morte di Maradona, sul pubblico inesistente alla prima della Scala, sul mistero per niente interessante del monolite (che poi non è un monolite) e sul catalogo Ikea che non verrà più stampato. Tutti episodi importanti che con la scomparsa hanno più o meno attinenza, e che gli italiani, non avendo altro di cui discutere, adorano (se avessero argomenti, i talk show di prima e seconda serata non registrerebbero share così alti).
Riguardo al relitto di Büchel, invece, non sarei stato così frettoloso. E no. Recentemente l’installazione è tornata ad abitare le riviste d’arte internazionali a causa di una controversia molto, molto complessa, che vede protagonisti la Biennale, la città di Augusta (in Sicilia), l’artista e la sua galleria. Tra loro, c’è chi quella barca non la vuole più, chi la reclama, chi prende tempo. E da opera che avrebbe dovuto smuovere le coscienze (questa era l’intenzione, no?), da opera che avrebbe dovuto riempire le colonne rinsecchite della critica, è divenuta opera su cui avvocati e giudici tenteranno una risoluzione all’interno di un’aula di tribunale.
Quell’installazione, a distanza di molti mesi, mi fa sorgere dubbi e pruriti. Un anno fa, su Segno, avevo dedicato parecchi articoli di carattere spudoratamente sardonico, come sempre faccio se scrivo d’arte (non riesco diversamente). Malgrado non siano stati capiti, e illustri giganti della critica mi abbiano bollato tipo un appestato, l’idea di fondo a cui mi riferivo in quei pezzi era semplicemente il rispetto per chi perde la vita e la necessità di ripristinare, il prima possibile, un limite di cui siamo sprovvisti: quello tra spettacolo e pudore.
Lo so. Per chi vive in Occidente dissociare dall’essenza della vita l’artificialità culturale è pressoché impossibile. E così, col gioco tipico delle allegorie, un gioco che definirei sgradevole in certi casi*, spesso ci permettiamo ciò che non dovremmo: anche mostrare, attraverso il dolore altrui, la freddezza dei nostri sentimenti.
*Per comprenderne il motivo, cfr. Bateson, Ecologia della mente, il quale ho difatti citato negli articoli su “Barca nostra” con desiderio pedagogico