Immagine dalla pagina facebook di Vittorio Sgarbi

Il ruggito del coniglio

Tempi duri per Firenze, tra censure al suo simbolo e gonfiabili d’acciaio. Per fortuna ci soccorre il sarcasmo di Vezzoli.

Perché farmi questo? Perché chiedermi di scrivere di uno scultore che adoro (!) come il mitico Jeff Koons? Adoravo, a dire il vero, il Koons di Made in Heaven, ancora tonico e fresco, ubriaco di abbracci e di stelle cadenti. Un’adorazione che, nella carestia adolescenziale, rasentava l’invidia. Mai come da giovani si piange per non avere ciò che nessuno ha mai avuto realmente; ma tant’è. Il Koons di oggi, il fioraio fallito cui neppure i vecchi amici – in primis musei e gallerie – concedono il bacio dell’addio, dove poteva svernare se non a Firenze? Dove deporre le sue uova dorate da bimbo malcresciuto? No, non è un refuso: deporre, non mostrare, perché, come ha acutamente osservato Mattioli, le opere di Koons le conosciamo già abbastanza.

Vederle fisicamente non dà alcuna rivelazione. Semmai le restituisce alla loro condizione di giocattoli in disuso: inutili, ingombranti. Condannati, senza neppure la grazia di un filo di polvere, a sostare per qualche istante nel magazzino della storia. Declinare al presente la capitale dell’antico è tutt’altro che indolore. Persino il David, simbolo della forza dell’uno, della sua sfida alle convenzioni, ai potenti, alla fede, ha dovuto piegarsi ai diktat della buoncostume. Al padiglione italiano all’Expo di Dubai gli hanno oscurato le parti basse: quasi quasi avrebbero fatto meglio se lo avessero evirato. Sarebbe stato, come insegna il Vangelo, un bel modo di raggiungere il Regno dei Cieli.

E che dire del Marzocco, il leone cittadino? Francesco Vezzoli, come Caravaggio al suo cane Cornacchia, gli ha insegnato a camminare sulle zampe posteriori. E tuttavia la bestia, affatto innocua, ruggisce. Che dico: stritola tra i denti una testa di statua. Non si limita a ironizzare il passato: lo ferisce. Mette a nudo, con la sua posa alla Metro Goldwyn Mayer, la conseguenza prima dello sfruttamento di un’immagine, la sua autodistruzione. Non hanno forse fatto la stessa cosa i maestri del Rinascimento coi relitti della storia?

Noi, coi nostri potenti mezzi, possiamo attingere a una quantità di frammenti anche maggiore: ci mancherà sempre il tutto. E il risultato, come Frankenstein – penso alla creatura metà diva metà musa alla De Chirico nello Studiolo del Granduca – sarà comunque un ibrido mostruoso. Complimenti a Vezzoli. Com’è sua consuetudine, ha scritturato per il cortometraggio i protagonisti di un tempo passato che in fondo sa morti in partenza: ectoplasmi che si aggirano sul luogo del delitto senza rendersi conto di essersene già andati. E noi, turisti paganti, tutti in fila al coffee bar.