Pablo Echaurren
Pablo Echaurren, foto Claudia Salaris

Abbasso il Corpus Christie’s: Pablo Echaurren

Se c’è un’accusa che è davvero impossibile rivolgere a Pablo Echaurren è di mandarle a dire. Il suo ultimo libro, Adotta un artista e convincilo a smettere per il suo bene (Kellermann, 112 pagine, euro 13), con una postfazione altrettanto esplosiva di Gianfranco Sanguinetti, ultimo situazionista e sodale di Guy Debord, è un’invettiva contro la mercificazione dell’arte che unisce alla trattazione sistemica un talento per lo slogan da memorizzare e ripetere in cor(te)o che si affaccia sin dal titolo: nella seconda metà degli anni ’90 Echaurren aveva fondato insieme al cyber-artista Giuseppe Tubi il partito del tubo. Uno degli slogan era appunto “adotta un politico e convincilo a smettere”. E se facessimo lo stesso coi critici-curatori per tutte le stagioni?

“Mezzo grammo per un riposo di mezza giornata, un grammo per una giornata di vacanza, due grammi per un’escursione nel fantasmagorico Oriente, tre per un’oscura eternità nella luna”. Così Huxley descrive il “soma”, la sostanza psicoattiva onnipresente nel suo Mondo nuovo. Ora, se l’artista contemporaneo è un malato compulsivo da convincere “a smettere per il suo bene”, l’arte non potrà che essere una specie di droga.

Che l’arte sia l’oppio dei popoli è un’affermazione di Pinot Gallizio che ho sempre condiviso. Ma non è alle droghe o al loro effetto psichedelico che intendo riferirmi quanto all’illusione che l’arte genera nelle menti di generazioni troppo impostate all’inseguimento del successo, ai facili guadagni, a considerare la creatività una carriera tutta in discesa e alla portata di chiunque decida di considerarsi “artista”.   

La droga – è un discorso che vale per ogni forma di dipendenza, anche per la dipendenza da illusioni – almeno all’inizio, è piacevole. Può persino dischiudere nuovi stati di coscienza. Per questo, forse, le avanguardie sono momenti felici. Come diceva Ungaretti, “è sempre pieno di promesse il nascere”. Col passare del tempo, però, la felicità non si dà più come accrescimento dei propri orizzonti, ma come cessazione del dolore. Ci si droga per evitare di star male. Intendi forse suggerire che gli artisti, che dovrebbero essere gli uomini liberi per eccellenza, acquisiscono, per il solo fatto di esercitare, di essere presenti sul mercato, una grave dipendenza?

Ci sono sostanze che portano all’isolamento, all’autodistruzione, e sostanze che spingono a creare socialità, comunità, allargamento della sensibilità. Le avanguardie storiche sono state un potente generatore di idee innovative che si diffondevano in ogni dove (geografico, sociale, mentale) generando una connettività creativa unica e irripetibile. Oggi siamo contaminati da un modello che valuta il valore di una cosa basandosi sul suo prezzo. Un modello devoto al Corpus Christie’s e al Corpus Sotheby’s, determinato da marker economici da cui non si riesce ad affrancarsi. Uno scenario in cui la fa da padrone il contestatore a contatore, il lanciatore di sampietrini da operetta, dove la farsa ha preso il posto della tragedia per dirla ancora una volta con Karl Marx.

Insistendo con la metafora, mercanti e galleristi sarebbero narcotrafficanti, critici e curatori pericolosi spacciatori.

Sì, ma trafficanti di falsa coscienza, spacciatori di originalità conformista, animatori di uno spettacolo con colica finale. La parte comica è sopraffatta dalla smania di passare alla cassa. Di staccare biglietti contraffatti e firmati da quelli che vengono definiti, senza alcun pudore o orrore, “Most Expensive Living Artist”.

Tra tutte le categorie, la critica è quella su cui scagli meno strali: per la sua insignificanza?

Io non intendo attaccare nessuna categoria in particolare, solo mostrare lo stato di miseria in cui versa l’intero comparto. La sudditanza a banalità che vengono ammannite, imbandite, come trasgressive, rivoluzionarie, sovversive perfino. 

Ma come disintossicarsi? D’accordo, Make art, non money. Ma non mi pare che il singolo artista, senza l’aiuto dei suoi pari, possa andare lontano.

Certo: artisti di tutto il mondo unitevi. Lottate per affermare la vostra indipendenza, fondate comunità alternative, sottraetevi all’impero di Biennali, Quadriennali, Piani Quinquennali in cui si stabiliscono i termini e gli ambiti di interesse del mercato. Imperativo categorico del pensiero creativo è quello di demolire i miti convenzionali, senza tale tensione non si può che parlare di sottomissione a un sentire dominante.

Quanto al supporto dello stato, soprassediamo. Penso a ciò che ti è successo quando hai offerto la tua collezione di Bassi elettrici al Museo degli Strumenti Musicali di Roma. 

Detesto l’idea di un’arte assistita, sorretta da interventi statali che spesso mettono a nudo meccanismi di collusione, non mi piace l’arte pensionata.

Viceversa, la collaborazione con la Biblioteca Hertziana è stata molto fruttuosa. Poter consultare online il ricchissimo fondo di fanzine, volantini, disegni, manoscritti, fotografie – il più importante archivio della creatività politico-artistica del post ’68 – da te raccolti è una gioia senza pari.

È stata l’occasione di mettere a disposizione di tutti un segmento di memoria che non può essere svenduto né privatizzato. Dal situazionismo agli indiani metropolitani. Una realtà che alcuni (Umberto Eco e Maurizio Calvesi) hanno definito “l’ultima avanguardia” o meglio un’avanguardia di massa.

Che cosa pensi delle riedizioni contemporanee della controcultura “originale”? Hanno ancora senso in un mondo iperindividualista, che sembra aver perso ogni gusto per l’ideologia?

Tutto è utile quando si deve infrangere un assedio ideologico, non sono un moralista. Per restituire dignità e visibilità a una storia dimenticata si possono percorrere numerose vie. Credo che anche un mondo iperindividualista (come ogni altro mondo) può essere messo in crisi da cose all’apparenza minimali, crepe impercettibili, piccoli accidenti, fenditure che sempre più si allargano e attraverso cui può filtrare un flusso benefico ed imprevisto. Bisogna sempre assecondare con astuzia ciò che minaccia la solidità e la stolidità.

“Il quadrato è un santuario di fiducia e amore al cui interno abbiamo tutti gli stessi diritti e gli stessi doveri” (The Square). Il tuo Adotta un artista…, come il film di Östlund, è la smentita più netta di questo dogma incontrastato: l’arte contemporanea, checché ne dica il Decalogo dei Sapiens, non ci migliora affatto; ci rende anzi insensibili al reale.

Ci sono quadrati e quadrati. Il quadrato di Malevic è la scoperta del nuovo zero da cui ripartire. A lui dobbiamo riferirci. Il White Cube è la trasposizione moderna della sacralità laica, peggio della spiritualità capitalista. Un’alienazione estetica. La peggiore truffa che il potere ha perpetrato alle spalle del popolo (uso un’espressione semplicistica per cercare di farmi capire) è quella di fargli credere che il readymade sia un oggetto da museo quando invece è un oggetto da impugnare. Da scagliare contro le convenzioni. 

La “soluzione finale” sarebbe dunque distruggere il quadrato, o meglio la gabbia, liberando gli animali dello zoo?

La soluzione è quella di desacralizzarlo. Ricondurlo alla geometria, sottrarlo alla mitologia che lo vede come uno spazio chiuso in cui costringere e limitare, una forma statica. Anche il quadrato può essere dinamizzato. Può essere abitato da dubbi e idee contrapposte, trasformarsi in un ring per scontri salutari in cui mettere all’incontro opinioni diverse. Non uniformate. È preferibile un Pantheon affollato ad un santuario abitato da un dio unico.

In Neander / Tales, esibizione virtuale dei tuoi ultimi lavori (http://www.pabloechaurren.com/), grattacieli e “manuport” si contendono lo spazio, come in una valigetta di Duchamp: “all’uomo primitivo – uso le tue parole – possiamo attribuire la nascita dell’arte mentre a quello moderno la sua morte”.

Il Neanderthal è stato disprezzato, svalutato, rappresentato come un essere bestiale, un subumano. Siamo stati noi Sapiens a bullizzarlo convinti di essere l’apice dell’evoluzione, il fine ultimo del progetto divino. Ora, piano piano si va scoprendo che forse invece il Neanderthal, una specie differente dalla nostra, ci ha anticipato in molte cose, nella percezione simbolica, nell’accudimento, nella sensibilità di gruppo e mille altre manifestazioni del pensiero e della tecnica, ma non nell’essere aggressivi, invasivi, distruttivi, che sono nostre prerogative. Poi si è estinto ma ha convissuto col Sapiens per migliaia di anni. E se fosse sopravvissuto lui e non noi? Un’altra evoluzione sarebbe stata possibile…

Un’ultima domanda. Se “il sonno dell’immaginazione genera mostre”, perché ti ostini a creare? Non vorrai indurre gli altri artisti a ritirarsi sinché rimangano soltanto le tue cose? [ride]

È appunto il sonno che genera mostre, non l’immaginazione in sé. Quindi lungi da me erigermi a detentore assoluto di una creatività che è appannaggio dell’intero genere Homo. L’immaginazione non andrà mai al potere (quando tenta di farlo produce sconquassi), l’immaginazione è inconciliabile con il potere. Dove c’è l’una non può esserci l’altro e viceversa.