Alicja Kwade, Reality Slot, 2019. Foto Roberto Sala. Courtesy the artist & Kamel Mennour Gallery Paris/London

Il ridicolo interesse dell’arte per l’ecologia. Per una critica della natura

In my mind your whispers are calling my name
memories of magic you wanna reclaim
close your eyes and hide in the days of the dream
will you take me there,
the deep forest?

“Deep forest green”, Husky Rescue

Sei mai stato/a in collina la sera, accanto a un ruscello, un laghetto, a percepire la frescura umida, a osservare le stelle e udire il gracidare delle rane? Quel “gra gra gra” a intermittenza, continuo, in coro, instancabile, non è affascinante? Cosa diranno mai questi splendidi anfibi, sotto lo sguardo docile della luna? Mortificheranno l’insensatezza di vivere, facendole il “verso”? Racconteranno tra loro le avventure quotidiane? Canteranno, pregheranno? Ma sì, certo che sì. E chi può contraddire ciò che sostengo, e cioè che le rane siano le poetesse dell’ultima fase evolutiva di questo fragile pianeta?

Ogni sera faccio sempre la stessa cosa. Perché, in fondo, ho un’esistenza del tutto inutile. All’incirca tra le diciannove e le venti cerco, con le mie orecchie, le rane che una volta udivo dalla finestra di casa. Poi, sconfitto, mi siedo davanti la tv per guardare i vari telegiornali. Lungi da un interesse reale, dato che le storie sono sempre le stesse e le informazioni pari a zero; tanto per arrivare all’ora di cena, ecco.

Da circa un paio d’anni, o poco più, non manca servizio ai tg [1] che analizzi una sorprendente innovazione ecologica o una mostra d’arte a tema ambientale. Non sono contro ciò che mira a preservare la natura. Macché! Chissà che darei pur di udire ancora le ranocchie, pur di incontrare qualche farfalla, qualche grillo, qualche lucciola [2], pur di modificare la nostra civiltà. Il fatto è che, dopo anni di esistenza del tutto inutile, la mia tolleranza per le idiozie è carente: nell’inutilità la coscienza si acuisce e le emozioni si affievoliscono. Assistere alla vanità di santificare eventi che di ecologico hanno soltanto il nome, lo devo ammettere, fa male. E poi è difficile conciliare la pazienza della logica con dei miserabili imbrogli ambientali3. Imbrogli che non solo compromettono il reale processo ecologico, bensì contribuiscono a “sponsorizzare” la posizione meno sana (sì, la metto in questi termini) di ciò che dovremmo intendere per ecologia.

Ora avviciniamoci al nostro campo, con piccoli passi. Le modalità con cui l’arte contemporanea tratta i temi ambientali, fuori da qualsiasi tentativo di sottolineare i fallimenti culturali ed economici, fuori da una riflessione concreta o da un impianto pedagogico, con mostre ridicole che contengono opere ridicole, sorrette da scritti critici ridicoli i cui autori sono infidi e palesemente impreparati, a mio avviso costituiscono un pericolo la cui gravità è pari all’esplosione di una centrale nucleare, ma al rallentatore. Il pericolo maggiore, il punto di non ritorno, lo raggiungeremo quando saranno resi sterili quei saperi dell’ecologia “buoni” a colpire e scardinare i dogmi in cui le società occidentali sono cadute.

Da cosa nasce questo timore? Due le risposte. La prima sta per realizzarsi, purtroppo. Anticipo un accenno con questo esempio. Quando sradichiamo un sapere dal suo terreno, e lo forziamo in altri terreni, non facciamo altro che minacciare le sue possibilità di sopravvivenza. Mi spiego meglio, con la stessa metafora. Da quando l’ecologia è entrata in terreni a lei estranei, come la politica, l’attivismo, i media, i social, la didattica scolastica [4] ecc. è diventata di una banalità sconcertante. Anzi, si è proprio disgregata. Ciò è accaduto per un motivo semplice: è da scellerati installare l’ecologia in quei terreni “inquinati” dalle stesse spinose questioni che tale scienza confuta da sempre.

Seconda risposta, leggermente più complessa. L’arte, per quel poco che ne sappiamo, è comunque un linguaggio. Spesso questo linguaggio, da adattivo [5], s’è ridotto ad accontentare la fame di divertissement delle élite, o a ricoprire alcuni centimetri quadrati sulla parete di una galleria, di un museo, racchiudendo la sua essenza in una manifestazione “pornografa”. Caso di specie degli ultimi secoli è tutta quella arte, o merce, che è stata osannata dai due continenti affacciati sull’Atlantico. Questa arte ha danneggiato il pensiero speculativo e ha costruito l’identità di un ampio asse geografico che, riunendosi politicamente sotto la fede al commercio, ha perduto la bellezza di un senso passionale, vario e tremulo come il gusto. Questa arte – nulla di più lontano da un savoir-faire che sarebbe d’uopo ripristinare – è oggi indiscutibilmente tale, anche se non dovrebbe.

Ripeto e sintetizzo: il mio timore è che ridicolizzando l’ecologia mediante l’arte, o meglio mediante ciò che finora ha proposto questa arte esibizionista, l’ecologia possa perdere il suo profilo più importante: la vitale alternativa allo squallore corrente. Ebbene, perdendo ciò, l’ecologia verrà neutralizzata. E siccome essa è l’ultimo “appiglio” rimastoci prima dell’inevitabile epilogo dell’essere umano sulla faccia della Terra, be’, se ci teniamo giusto un po’ al nostro destino, sarebbe corretto evitare che venga catturata e seviziata per sollazzare il pubblico annoiato (un pubblico che pone più attenzione alle serie tv di Netflix, che alle tragedie della nostra epoca). In altre parole, non possiamo permetterci che questo prezioso sistema scientifico – l’ecologia, appunto – venga manipolato da un sistema strampalato – l’arte – il cui scopo è lo show onanistico. Forse è un timore ancora precoce, ma fondato. Fondato perché l’arte, ne abbiamo le prove, è incline a scadere nello squallore [6].

Quello che in questo momento mi pare di vedere, da mostra a mostra e da pubblicazione a pubblicazione, è pura e becera retorica: qualche citazione strappata dai libri di biologia, di filosofia ambientale, di etica ecologica (l’ipotesi Gaia di Lovelock, la Biofilia di Wilson, l’ecologia delle idee di Bateson, la Decrescita felice di Latouche, l’ecologia sociale di Bookchin ecc.), artisti e opere che ripetono allo sfinimento concetti scontati e “immobili” creativamente, e una critica d’arte che, priva di funzione ormai da anni, si sta rivelando addirittura superflua, di intralcio. Il succo di tutto ciò è una teoria artistica della natura in diorama. Desolante, tanto desolante…

Finché l’interesse dell’arte per un tema davvero impellente sarà questo, mantenendo vecchi modelli, e per il piacere burocratico dello spettacolo, allora quello che hai appena letto sarà indispensabile unicamente alla toilette come carta per igiene personale.

1. Mi riferisco ai tg perché incidono moltissimo alla formazione delle opinioni popolari.

2. Questi sono solo alcuni desideri estetici. Tuttavia, con il lockdown, qualche ape in più rispetto al passato l’ho incontrata. Sarà una mia illusione.

3. Come gli orti verticali, le automobili elettriche, l’energia “cosiddetta” verde, le bioplastiche, l’agricoltura chic, l’economia green ecc.

4. Il mio auspicio sarebbe, magari, rivoluzionare la didattica (che è in stallo) e cominciare a trattare per i prossimi dieci o venti anni la “Deep ecology” nelle scuole, sempre che le scuole ne intuiscano l’importanza ed eliminino dai loro programmi ogni carattere “concorrenziale”.

5. Per approfondire questo tema, rinvio al mio libro intitolato “La gonna di Baubò”, Villaggio Maori Edizioni.

6. Squallore personificato da coloro i quali la attuano o frequentano

Dario Orphée La Mendola

Dario Orphée La Mendola, si laurea in Filosofia, con una tesi sul sentimento, presso l'Università degli studi di Palermo. Insegna Estetica ed Etica della Comunicazione all'Accademia di Belle Arti di Agrigento, e Progettazione delle professionalità all'Accademia di Belle Arti di Catania. Curatore indipendente, si occupa di ecologia e filosofia dell'agricoltura. Per Segnonline scrive soprattutto contributi di opinione e riflessione su diversi argomenti che riguardano l’arte con particolare attenzione alle problematiche estetiche ed etiche.