Ritratto di Giovanni Gaggia, foto di Elena Tonelli

Giovanni Gaggia. La bellezza è un punto preciso

Conosco Giovanni Gaggia da parecchi anni. Lo considero un fratello d’anima. Abbiamo per lungo tempo percorso mano nella mano un cammino professionale costruito sull’armonia, sull’affetto, sull’empatia, su di una ricerca di corrispondenze estetiche e di fede artistica che ci accomunavano e ci accomunano. Giovanni mi è sempre parso come un anacoreta.

La trasmutazione è il punto nevralgico del fare arte di Giovanni Gaggia, l’indivisibilitá dall’altro il suo luogo di approdo. Il bisturi – essenziale e sincero – dell’ osservazione della vita nella sua complessità, negli aspetti più luminosi ed in quelli più amari, diviene in lui strumento di bellezza. Non parlo di Paradisi artificiali, ma di un’alchimie de la douleur, di un’alchimia del dolore, per citare Baudelaire. “Quel che all’ uno dice: Sepoltura, all’altro dice: Vita e Splendore”. 

Non mi pare un caso che con Giovanni chiacchierassimo proprio l’altro giorno del superbo panorama dell’ arte marchigiana, di Carlo Crivelli e della sua Maddalena; ma che il nostro fluire di pensieri e di parole si sia soffermato in special modo sul suo corregionale Gino De Dominicis. E Gino sosteneva che l’ arte va dall’alto verso l’alto. Sempre.

La storia siamo noi, dalla residenza 2022

Ho intervistato Giovanni Gaggia.

Serena Ribaudo: Il termine óikos in antico greco possiede un duplice significato: Casa e Famiglia. Nel tuo percorso di vita e d’arte la casa e la famiglia -la Famiglia strettamente intesa ma anche la Famiglia d’arte e la Famiglia di Uomini- hanno sempre costituito due stelle polari. Óikos come possibilità ma anche come esigenza dell’anima. Come definisci la Casa e la Famiglia?

Giovanni Gaggia: Sono giorni che rileggo la domanda, digito e cancello,  in questo tema entra violentemente il mio senso del pudore, decisamente lontano dalla nudità, la quale un problema per me non è mai stato.  
Proprio proseguendo il duplice senso di  óikos. Una parte si incastra con l’altra completandosi e generando un unicum. 
Nella casa dove vivo e lavoro, da anni accolgo gli altri artisti e da un tempo più recente il viaggiatore. Appartiene alla mia famiglia da un paio di secoli, di generazione in generazone fino a me. Sentii  la forza delle radici, l’assecondai tornando, quell’energia andava  trasformata. Definii fin da subito il gesto di aprire le porte agli altri come la mia più grande performance. Vivo e lavoro in quella che per molti è Casa Sponge dal 2006, tanto qui è accaduto, ma ogni volta che torno ciò che sento è sempre lo stesso odore: quello di mia nonna.
Sai penso non ci possa esser affermazione più bella che: sei la mia casa, indica le mani in cui vuoi stare, accada quel che accada ci sono, in loro ti riconosci. Un amico caro mi raccontava giorni fa delle mani in cui  desidererebbe morire, quella è la casa e non ci può esser dichiarazione più intensa.
La famiglia dell’arte non esiste, semplicemente perchè è un gruppo avvezzo a rapporti strumentali, ce n’é una che segue la via del sangue e ce n’è una altra che si seglie, so che sono coloro che per me ci sono, pochi, ed io per loro: sempre.

S.R. Sosteneva Italo Calvino in Se una notte d’inverno un viaggiatore: “Volare è il contrario del viaggio: attraversi una discontinuità dello spazio, sparisci nel vuoto, accetti di non essere in nessun luogo per una durata che è anch’essa una specie di vuoto nel tempo. Poi riappari , in un luogo e in un tempo senza rapporto col dove e col quando in cui eri sparito”.
Una tua definizione di Volo?

G.G. È quell’odore che ti ho già descritto, mi permette di muovermi nel tempo in un istante. Passato, presente e futuro si appoggiano l’uno sul’altro caoticamente, si muovono cambiando la dimensione temporale.
Mi chiudo la porta alle spalle e penso: Chissà quale odore riconoscerà mia nipote, quando aprirà le porte di questa casa?
Passeggio, raggiungo l’apice della collina, l’altalena dorata di Massimo Uberti è lì, salgo, l’Appennino mi circonda a trecentosessanta gradi, è l’ora del tramonto, il tutto si gonfia di rosso.

S.R. Cosa è la Bellezza per Giovanni Gaggia?
E se Oikos e Volo fossero gli elementi che definissero proprio il senso del termine bellezza?

G.G. Per me la bellezza è un punto preciso, l’equilibrio tra la linea verticale e orizzontale. Invisibile, difficile da reggiungere: quasi impossibile. Ma lì sta l’assoluto. E’ una questione esistenziale, implica una ricerca costante. 

S.R. Ti sei sempre nutrito delle profondità del pensiero di Sant’Agostino.
Scrive Hannah Arendt ne Il concetto d’amore in Agostino: “(…) Tale realizzazione è l’amore del prossimo. Proviamo a capire cosa si intenda per l’altro nella dilectio proximi, nell’amore che deriva da Dio e nega se stesso.
La dilectio proximi è l’atteggiamento, sorto dalla Caritas nei confronti del prossimo”.
C’è in senso lato una dilectio proximi nell’arte? E nello specifico nel tuo fare arte?

G.G. Nel mio fare arte c’è in un certo qual modo il negare me stesso. Anche se più che negare è superare, conscio che io sono soltanto una parte del viaggio e non del volo, se faccio un passo indietro a vantaggio dell’altro sono fermamente convinto che è maggiore ciò che ne guadagano di ciò che perdo. Faccio un lavoro enorme su me stesso, modello il mio ego quotidianamente, questo implica una ricerca intima costante. Se non avessi messo in atto questo metodo di agire non sarei mai giunto alla danza contemporanea, non avrei mai lavorato in maniera orizzontale con le comunità e non avrei di certo di cofondato il duo Gaggia-Dubbini. Con il quale abbiamo firmato l’opera GOLPE e ci siamo aggiudicati la settima edizione di arteamcup, equivale ad un rovesciamento di pensiero, che ci ha permesso di essere ancor più liberi. Una nostra opera è attualmente esposta in uno dei siti archeologici più belli che abbiamo in Italia la Domus dei tappeti di Pietra in occasione della Biennale di Mosaico Contemporaneo a cura di Daniele Torcellini.

S.R. Prossimi progetti?

G.G. Ora, nel mio cuore c’è LA STORIA SIAMO NOI, il progetto che curo con Pietro Gaglianò nell’entroterra marchigiano a Fermignano (PU), io in qualità di artista lui di studioso, la residenza è recentessima  dentro me ci sono ancora tutte le interazioni con la comunità. Il desiderio è di continuare a lavorarci, lì, oltre alla collettività aperta c’è una amministrazione sensibile che merita il nostro supporto.
Non ti rivelerò le mostre future ma una pratica, voglio tornare all’editoria. Ho un libro da terminare, si stratta di una miscellanea sul rapporto territorio politica arte comunità. Ho altre proposte di senso che almeno nel pensiero mi fanno stare bene e sono tutte pubblicazioni.

Questo ti risposi a maggio scorso, è di recente uscita il mio ultimo libro “The colours of changement”, undicesimo e particolarissimo volume della collana Luminous Phenomena, edita da NFC edizioni, all’interno una fotografia firmata in f/to 10×15 cm. La prefazione è di Marcella Russo e il testo critico di Pietro Gaglianò.  Il libro sarà presente alla prossima edizione di Paris Photo. Tutti gli scatti sono di Michele Alberto Sereni con la collaborazione di Natascia Giulivi e sono stati realizzati In occasione della prima edizione di One Flag, un progetto d’arte pubblica realizzato a Teramo, Io ho presentato “The colours of changement”, un’azione time e site-specific andando a toccare un tema molto delicato: l’inclusività della comunità LGBT+ nel mondo dello sport.

Ciò che auspicavo è accaduto, ma il libro da ultimare ancora attende.

Serena Ribaudo

Serena Ribaudo vive tra Palermo e Firenze. È saggista, storico dell'arte. Si occupa dell'organizzazione e del coordinamento curatoriale, scientifico e tecnico di mostre d'arte contemporanea presso organismi pubblici e privati. Ha dedicato la sua attività più recente alla curatela di mostre ed eventi artistici all'interno di sedi storiche al fine di una maggiore valorizzazione del dialogo tra arte contemporanea e patrimonio artistico-architettonico del passato

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