Francesca Fini | Cyborg Fatale – performance e video tra reale e virtuale (2011-2021)

Francesca Fini si racconta, in una intervista ad Azzurra Immediato, a seguito della pubblicazione della monografia curata da Bruno Di Marino che indaga il decennio 2011-2021 di sua attività, tra reale e virtuale.

La complessità del lavoro e della ricerca di Francesca Fini è divenuta il focus che Bruno Di Marino ha posto al centro di una monografia edita da Postmediabooks e accompagnata da testi di Lori Adragna, Giacomo Ravesi, Adriano Aprà e Camelia Mirescu. Una sorta di indagine pluriverso e polidiomatica che ha affrontato la complessità del mondo messo in atto dall’artista nell’ultimo decennio, in una pratica ontologica prima e perfomativa poi – ma non sempre l’ordine è così stringente – che altalena tra virtuale e reale nell’alveo dell’intero paradigma artistico di Francesca Fini.

A poco tempo dalla pubblicazione del volume e dopo averlo letto con particolare interesse, ricordando dettagli, in particolare di una performance tenutasi a Bologna nel 2018 – Fair & Lost presso la Narkissos Gallery – ed avendone incamerato suggestioni e valenze sperimentali inusuali, ho posto all’artista alcune domande per i lettori di Segnonline.

HIPPOPOETESS
Experimental animation-based film, 2018

Azzurra Immediato: Un decennio tra reale e virtuale, vissuto in un momento storico collettivo in cui il virtuale ha preso sempre più spazio nella vita quotidiana, trasformandone abitudini, paradigmi, previsioni e fluttuazioni antroposociologiche. In quanto di ciò che nella tua visionaria azione tecnologica avevi già visto e praticato, hai riconosciuto, ex post, un valore predittivo del tuo lavoro?

Francesca Fini: Non mi aspettavo che il mio lavoro potesse avere un valore predittivo, ma come tutti gli artisti che lavorano con la sperimentazionee, soprattutto, con un grande sguardo rivolto alla tecnologia e a come, a dove, la società va e dove si posiziona il ruolo dell’artista, ho probabilmente anticipato certe cose. Cose che però erano nell’aria, non credo nemmeno di essere l’unica artista con questa funzione. È ovvio che a un certo punto si lavori nella sperimentazione. Al riguardo, esistono due modalità: o si lavora sulla sperimentazione, oppure sulla riflessione del proprio lavoro, e di conseguenza anche su una sorta di refining (in americano) costante del proprio linguaggio, e anche in modo ossessivo. Io tendo più, invece – quando ho incorporato, esplorato, un argomento, un concept, una tecnologia – ad andare subito a cercare altre cose: è questo tipo di “voracità” che mi ha condotta, probabilmente, ad anticipare certe cose, proprio per la continua ricerca che faccio. Fa parte della mia modalità creativa, della mia produzione artistica, la quale è continuamente proiettata verso l’esterno, verso ciò che accade in maniera molto veloce.

A.I.: Francesca Fini / Cyborg Fatale – performance e video tra reale e virtuale (2011-2021)è il titolo del volume edito da Postmedia Books e curato da Bruno Di Marino, arricchito da interventi critici e di analisi a firma diLori Adragna, Adriano Aprà, Giacomo Ravesi, Camelia Mirescu. Una raffinata sublimazione di una ricerca che rimanda alla centralità da te affidata al corpo che interscambia, in modalità polimediale, il ruolo di oggetto e soggetto, riportando l’osservante a ragionare non più o non solo sulla performance quanto sul suo più intrinseco significato. È come se scrivessi con il tuo corpo parole invisibili; in dieci anni di lavoro e analisi, quanto profondo è diventato il dialogo con chi assiste ed interagisce con te?

Francesca Fini: Il dialogo è costante ed è stato sempre fortissimo, perché mi aiuta a capire il mio percorso, il mio processo artistico. L’inconscio collettivo, la saggezza anche, delle persone comuni e che magari non appartengono nemmeno alla nostra piccola nicchia (ma che osservano quello che faccio con la propria intelligenza e il proprio vissuto quotidiano) mi porta a comprendere tantissimome stessa, e quindi a imparare e a crescere. Il rapporto con il pubblico è sempre stato fondamentale per me. E questo è strano.In genere gli artisti sostanzialmente agiscono in modo indipendente dal destinatario. Un artista agisce ignorando il pubblico, mentre un designer, per esempio, deve sempre tenere in considerazione il suo target. Io chiaramente agisco guidata dalla necessità di esprimermi, che sì è indipendente, però ho questa fase successiva di feedback del pubblico che mi aiuta a ripensare a quello che ho fatto. Il pubblico dà al mio lavoro un significato nuovo. Mi aiuta anche a crescere come persona, prima che come artista. Quando io faccio una performance c’è sempre più di una personache viene a parlare con me per chiedermi se un dato segno o azione all’interno della performance significa questo o quell’altro, perché vuole avere conferme sull’idea che si è fatta del mio lavoro. Io parlo spessodel mio lavoro anche a lungo con queste persone dopo la performance o i film. Questo dialogo mi ha fatto scoprire tante cose che non avevo capito completamente. Ricordo benissimo quella volta in cui feci al The Watermill Center di Bob Wilson la mia performance Fair and Lost, quella con gli elettrodi in cui cerco di truccarmi il viso. Venne una signora super agghindata, una di queste patrone delle arti del Long Highland, molto ‘upperclass’. Mi disse: «quando ti truccavi il viso mi hai ricordato tantissimo quelle donne in metropolitana che si capisce subito che hanno qualcosa che non va, la classica donna matta in metropolitana», in qualche modo aveva individuato subito una tipologia alienata femminile che si riconosce per il trucco messo male. Questo ci fa capire che è entrato un meccanismo di distacco dalla realtà, che si manifesta immediatamente come uno degli elementi più distintivi del genere femminile, e cioè l’abbigliamento e il trucco esteriore. E questo è straordinario, perché quella performance esprime proprio il distacco dalla società, dal condizionamento, e l’alienazione. Lei quindi con quella frase, intelligentissima a mio avviso, aveva individuato il nucleo centrale del mio lavoro. Io lì ho capito che in qualche modo avevo raggiunto il mio obiettivo. Per me la pazzia è una forma di libertà, è un valore, un modo di ribellarsi alla società, per cui anche la ribellione al trucco e all’essere sempre presentabili e curate è confermata da quelle parole. Il rapporto con il pubblico mi fa perciò scoprire delle cose importanti, di me e del mio lavoro.

A.I.: Ogni tua performance si interroga ed interroga la complessità tecnologica intesa quale meta realtà in cui immergersi per comprendere le dinamiche di quanto sta accadendo nel rapporto tra uomo e macchina, definendo un perimetro sempre meno netto e sempre più collettivo che, dal 2011 al 2021 pare essersi trasformato in una dimensione ‘Cyborg Fatale’. Quali sono i passaggi fondamentali di tale percorso e che hai traslato in performance narrativa?

Francesca Fini: Sicuramente la mia crescita è sempre una riflessione su me stessa e sullo schermo. Anzi, su un’amplificazione di me stessa, per questo il mio linguaggio è ‘cyber punk’. Ma il mio non è il ‘cyber punk’ degli anni ’80 o ’90, con quei dispositivi scenografici o maschere fantasiose che si innestavano nel corpo, che rappresentavano l’estetica ‘cyber punk’. Le mie performance sono soprattutto in maniera molto concettuale e minimalista una riflessione su me stessa e un’amplificazione di me stessa attraverso il dispositivo. Questo percorso è segnato da performance che costituiscono dei punti cardinali del mio lavoro.Sicuramente uno di questi è Cry Me, una performance molto breve, dove ho uno schermo televisivo in cui viene riproiettata la mia immagine, e io passo questo schermo sul mio corpo, mi sincronizzo in maniera coreografica con il contenuto del video, che contiene pezzi del mio corpo che io sto andando a mostrare in quel momento con lo schermo. Quindi qui c’è una sovrapposizione tra il mio io fisico e quello digitale. Se penso alle altre performance che ho fatto, io riesco a tracciare un percorso lineare, molto chiaro. Questo mi rassicura anche molto sul fatto che non sto andando a caso o mi sto facendo trascinare dalle mode del momento. Sto seguendo un percorso molto preciso. In Fair and Lost con degli elettrodi sulle braccia cerco di truccarmi il viso creando delle scosse sui muscoli che mi impediscono un movimento naturale e generando un movimento condizionato. Questa performance è eseguita dal vivo davanti a una webcam che riprende i dettagli del mio volto con il trucco sfatto, le lacrime che diventano gigantesche alle mie spalle. Dopo un po’ quindi il pubblico vede il risultato di questa performance, l’output digitale. Anche in questo caso, quindi, c’è una sovrapposizione tra il mio io digitale e quello fisico. La stessa cosa avviene in SkinTones, dove io addirittura proietto enorme su uno schermo la visione microscopica del mio corpo. Passo un microscopio digitale sul mio corpo, registro la mia pelle che si vede amplificata, e la riproietto su uno schermo davanti a me. Io sono nuda, all’inizio sono sempre concentrata su questo corpo femminile nudo che è sempre un po’ sconcertante, anche se sono di spalle. Guardo me stessa, mi contemplo, in maniera narcisistica ma anche estremamente filosofica. Il pubblico dopo un po’ smette di guardare la donna e comincia a guardare la pelle, è il punto finale di questo percorso, che è ancora tutto in crescita.

MOTHER-RYTHM
Video art, 2014

A.I.: Cyborg Fatale, un titolo complesso e dalle plurime sfaccettature in cui poli opposti ontologici, concettuali e processuali intervengono e si missano. Uscendo fuori dalla sintesi, cos’è per te il ‘Cyborg Fatale’?

Francesca Fini: Questo titolo non l’ho inventato io, per questo mi piace tantissimo. È il titolo di una mostra sul mio lavoro a cura di Roberto Malaspina, uno degli eventi collaterali di una fiera di Bologna di qualche anno fa, che si tenne nella NarkissosContemporary Art Gallery. Questo titolo straordinario, Cyborg fatale, lo ha dato appunto Roberto Malaspina, che ha analizzato le mie performance. Perchécyborg fatale? Per quanto riguarda il cyborg è la celebrazione della cultura che mi anima, fa parte della mia formazione, in cui ci sono Donna Haraway con il suo Cyborg Manifesto, Monna Lisa Cyber Punk di Gibson. ‘Fatale’ perché Roberto Malaspina ha individuato un elemento ipnotico e di attrazione, che, inconscio, fa parte del mio linguaggio, ed è qualcosa di inevitabile. Nel mio lavoro c’è inevitabilmente, infatti, la volontà, del tutto inconsapevole, inconscia, di attirare, come una macchina, il pubblico verso di me e verso quello che voglio dire. Ed è un’attrazione fatale, da femme fatale, in un certo senso, perché è qualcosa che faccio usando il mio corpo. Sono questi i due elementi che ritornano nel mio lavoro.

A.I.: La performance si nutre di due anime: quella hic et nunc – la cui forza è nell’accadimento, nella interazione tra perfomer e azione, tra perfomer e pubblico, tra pubblico e azione – e c’è, poi, un’anima che sopravvive all’atto scenico, che sopravvive nella documentazione e come tale si reinnesta nella scansione temporale successiva. Quando rileggi o osservi nuovamente i tuoi lavori o la registrazione dei loro dati oggettivi, cosa ritrovi? Quanto essi riescono ad agguantare la nuova realtà in cui li analizzi ex post?

Francesca Fini: Questa è una domandona! L’eterno dilemma di tutta la performance art, la quale, in quanto arte effimera, temporanea, che deve vivere nell’hic et nunc e si deve agganciare al luogo e al momento nel quale viene agita,ha sempre avuto un rapporto molto ambiguo ed estremamente conflittuale con la sua documentazione. Ci sono performer che rifiutano qualsiasi forma di documentazione della performance, non lasciano niente perché l’unica cosa che deve rimanere è il ricordo di chi ha osservato e partecipato attivamente. Il pubblico partecipa sempre attivamente a una performance, la influenza in ogni momento in cui viene agita. Lo spazio influenza la performance, i rumori che vengono da fuori. Tutti questi elementi non si possono documentare in una foto e nemmeno in un video. Per quanto riguarda le mie performance, non mi preoccupa tantissimo la documentazione, non è una cosa che mi assilla, non ne tengo neanche tanto conto. Se qualcuno fa delle belle foto mi sono utili, in maniera pratica, per la diffusione. Perché sul web e sulla carta stampata sono necessarie delle belle foto. Di conseguenza, però, vanno bene se fatte da fotografi bravi, non uso mai le foto della performance che sono state fatte col cellulare dagli amici, dalle amiche. Se voglio una documentazione, e succede una sola volta per una performance, chiamo un fotografo professionista; com’è accaduto per Fair and Lost, di cui utilizzo sempre le stesse foto, perché il fotografo ha arricchito con il suo punto di vista la mia opera. E qualcosa quindi di diverso, non si tratta di una documentazione, ma di un’altra forma d’arte. La performance in sé io non la documento in video quando viene eseguita dal vivo, tranne in rarissimi casi, quando il contesto è particolarmente prestigioso. Semmai faccio sempre una videoperformance, ovvero rifaccio la performance, in un ambiente controllato, in uno studio, ed è una performance che mescola linguaggio cinematografico e linguaggio performativo,fatta appositamente per la videocamera. Ho trovato quindi questo tipo di compromesso rispetto alla documentazione: o deve essere una documentazione straordinaria, in cui c’è anche il contributo di uno sguardo “altro”, di un artista, oppure qualcosa che io ricostruisco in maniera creativa all’interno di una situazione “altra”, come la videoperformance. Oppure ancora, molte performance le documento con i miei bozzetti. In ogni caso penso che la documentazione sia sempre estremamente incapace di ricostruire quello che volevo creare, e quando vedo la documentazione delle mie performance resto sempre molto delusa, perché in qualche modo manca tutto quello che io ho percepito che, chiaramente, non è possibile riprodurre all’interno della documentazione.

A.I.: Oriana Persico ti ha definita – come si evince in Cyborg Fatale – una ‘hacker dell’immaginario’, affermazione che hai dichiarato, esser su misura per te. Cos’è, o meglio, chi è, dunque, una hacker dell’immaginario?

Francesca Fini: Un hacker dell’immaginario è un hacker che non sabota un sistema, un network, uno strumento, un dispositivo, per piegarlo ai suoi scopi e utilizzarlo in un’altra maniera creativa. È un hacker che sabota l’immaginario collettivo e che ti offre una visione altra rispetto alle tue convinzioni, ai tuoi preconcetti, ovvero a quella griglia di sicurezze che hai espresso al mondo.

A.I.: Francesca Fini / Cyborg Fatale – performance e video tra reale e virtuale (2011-2021) è una sorta di retroversione analitica del tuo percorso giunto sino ad oggi – è già proveniente da una serie di esperienze professionali ed esistenziali che ti hanno vista al centro sempre di grandi sfide e grandi cambiamenti –. Cosa hai tratto da questo decennio e come ti stai preparando al prossimo?

Francesca Fini: Da questo decennio ho tratto innanzitutto è stata un’epoca di grandi svolte tecnologiche: la tecnologia è sempre più veloce e oramai il progresso è esponenziale, da questo punto di vista. La tecnologia è usata per comunicare, per creare, è quella che mi serve per realizzare le mie opere. È stato un decennio per me caotico ed estremamente febbrile. Mi sono ritrovata a lavorare costantemente sul mio immaginario e sui miei processi creativi. È anche stato un decennio che ci ha portato a separarci gli uni dagli altri: quasi si può dire che il Covid-19 sia stata, in questo senso, una metafora di questo decennio. Pian piano abbiamo cominciato a separarci e a utilizzare il dispositivo per comunicare. Questo ha chiaramente i suoi pro e contro: da artista, sto concentrandomi proprio su questo grosso problema, ovvero sul come venire a patti, trovare un compromesso, con questo processo inevitabile (un processo che non si può assolutamente interrompere, e non si può fare niente per tornare indietro), e come questo processo può essere interpretato e mitigato dagli artisti, come trovare una soluzione creativa che possa eliminare le conseguenze più drammatiche di questa separazione costante che stiamo vivendo gli uni dagli altri.

I WAS THERE
Live media performance, 2014

In ciò che Lori Adragna legge come flusso di una fascinazione ibrida tra corpo, realtà e new media, l’agire di Francesca Fini si inserisce in modo sperimentale, di matrice inconscia e, al tempo stesso, di contatto diretto con il dato reale. Senza svelare cosa nasconde il libro Francesca Fini / Cyborg Fatale – performance e video tra reale e virtuale (2011-2021) senza dubbio nasce e cresce la curiosità di scoprire come il lavoro di una artista così poliedrica come la Fini riesca a tracciare un percorso di una coerenza straordinaria, i cui prodromi sono da ricercare sì in una biografia dai tratti eccezionali, ma anche in una capacità di vedere, al di là dello spazio che abitiamo ogni giorno e degli oggetti che ci accompagnano ormai nel quotidiano, prospettive che si compongono nella relazione tra corpo, tempo e spazio, tra percezione soggettiva e percezione evocata e suggerita. Bruno Di Marino ha tessuto una trama dall’ordito affascinante e da scoprire, grazie all’intervento di chi, il lavoro di Francesca Fini lo conosce in profondità e permette oggi, a tutti, di entrarvi in contatto, per stupirsene innanzittutto e trarne suggerimento poi, in un mondo in cui il rapporto tra reale e virtuale sta dissolvendo sempre più i confini.

Azzurra Immediato

Azzurra Immediato, storica dell’arte, curatrice e critica, riveste il ruolo di Senior Art Curator per Arteprima Progetti. Collabora già con riviste quali ArtsLife, Photolux Magazine, Il Denaro, Ottica Contemporanea, Rivista Segno, ed alcuni quotidiani. Incentra la propria ricerca su progetti artistici multidisciplinari, con una particolare attenzione alla fotografia, alla videoarte ed alle arti performative, oltre alla pittura e alla scultura, è, inoltre, tra primi i firmatari del Manifesto Art Thinking, assegnando alla cultura ruolo fondamentale. Dal 2018 collabora con il Photolux Festival e, inoltre, nel 2020 ha intrapreso una collaborazione con lo Studio Jaumann, unendo il mondo dell’Arte con quello della Giurisprudenza e della Intellectual Property.