1. Una volta, pensavo che la scrittura post-sismica fosse una cosa del tutto preclusa ai terremotati e, nella fattispecie, a me. La prima volta che Luca volle discutere con chi scrive, in occasione delle prime uscite di Città & Città, il titolo per un testo da redigere, la pagina rimase bianca per alcune ore, prima di esser riempita. La volta successiva, incominciai a stendere qualche riga. Ringrazio Luca per aver dissipato il tabù dell’errore. Quell’esperienza, adesso che la pratico, mi dice qualcosa d’interessante: la scrittura non è una meditazione, non comporta il parricidio del luogo, del territorio da dove si sviluppa, non si oppone all’oralità, non presuppone una conoscenza perimetrale all’universo della grammatica, neppure l’erudizione di una lingua borghese o sofisticata. La scrittura di Città & Città deve essere anzitutto scrittura del presente, orizzonte politico trans-sismico. La scrittura di Città & Città è dissidente rispetto a qualsiasi conformismo, dinanzi a qualsiasi regime, e comporta il rischio dell’incomprensione, il rischio di vita, il rischio di una letteratura artistica che si trasforma e si dissemina. Quello che ci hanno raccontato i nostri amici napoletani e terremotati, quello che ci raccontano tutti i giorni è davvero straordinario: la leggerezza dell’oralità oltre l’interpunzione lineare, il distacco dall’aggressione del mercato dell’arte, l’ironia in un continuo racconto spezzato, ci insegnano molto in questa dissidenza. La scrittura non è un argomento accademico, dunque: non si tratta di praticare l’assenza paragrafematica, per citare l’ortografia di Nanni Balestrini o di Pizzuto, è argomento politico realistico. Nella nostra età sismica per qualsiasi intellettuale di Napoli è una questione imprescindibile: non possiamo non parlare. Non possiamo non proseguire in questa battaglia rispetto alla libertà della parola nella redazione di Città & Città e soprattutto nella resa dello spazio urbano. Non possiamo non dire, scrivendo. Non possiamo non parlare al di là dello spazio ordinario dell’interpretazione e dell’interpunzione. Dire che la libertà è della parola e non del soggetto è una grande arbitrarietà che va performata, spostando l’obbligatorietà interpunzionale, sintattica, commentativa, apostrofica, forellinica. Dire che la libertà è della grafia e non della voce che sfrutta l’interlinea popolare è un grande sfondamento anti-derridiano, e anche in questo ringrazio Emilio Villa e Luca. Vorrei ricordare che all’interno della scrittura giornalistica occidentale odierna esiste la problematica del cosiddetto protocollo. Protocollo è una parola che sembra appartenere più a un rituale o a una burocrazia. Non dovrebbe, forse, appartenere al mondo della libera medialità? Di fatto la situazione attuale è che il giornalista d’arte esegue certi tipi di interventi e di cesure, che sono quelli prescritti dal formulario del Gallerista e del Mercante, che deve vendere l’opera d’arte, e Napoli ne è un esempio evidente!
Le trasformazioni strutturali, che sconvolsero le città vesuviane durante il terremoto dell’80, riflettono un complesso di forze che continuano a plasmare le metropoli contemporanee. La rapida crescita delle reti di comunicazione, la decentralizzazione degli impianti di produzione e il diffondersi della competizione globale, le innovazioni tecnologiche collegate alle pratiche della scrittura e l’impatto della nuova cultura dell’automazione, della flessibilità e del dialogo frammentato, la formazione di nuove categorie lavorative e il crescente flusso di precarietà, rappresentano fattori che hanno largamente contribuito alla ristrutturazione del laboratorio di scrittura di Città & Città.
Durante gli anni ’70, da un lato le amministrazioni del territorio vesuviano soffrivano di enormi problemi economici, mentre i fondi regionali necessari per garantire i servizi sociali venivano ridotti drasticamente, dall’altro nuove società di delinquenza organizzata rimpiazzavano i vecchi impianti industriali nel panorama urbano, rendendo superflua la manodopera non specializzata. Nel frattempo, investitori privati acquistavano opere d’arte e attività di ricerca in aree popolari con il solo intento di speculare, lasciando gli abitanti dell’hinterland napoletano con ben poche possibilità di trovare forme di sostegno a buona offerta. In un mercato del lavoro incerto e con servizi sociali inesistenti, la comunità vesuviana e le classi più disagiate furono inevitabilmente le più colpite: alla catastrofe sociale si aggiunse quella del Sisma del 23 novembre 1980. Nel 1982-83 sotto la bandiera del rinnovo metropolitano, il proletariato e il sottoproletariato urbano, segregati dai meccanismi della vita sociale ed economica cittadina, furono esposti a una disoccupazione massiccia con conseguenze profonde sulle relazioni comunitarie. Nel momento in cui la mappa della popolazione e della forza lavoro urbana stava mutando, il passaggio da un’economia caratterizzata da medio impiego e bassi salari a un’economia di servizi con bassi stipendi creò nuove forme di diseguaglianza che si aggiunsero alla catastrofe sismica e all’attività sistemica della delinquenza organizzata.
Gli anni del dopo terremoto sono caratterizzati da una inversione della tendenza che aveva condotto il perimetro urbano a svolgere le funzioni di altre agenzie – del forum, del laboratorio, del cantiere e del set ricostruttivo – e ad assorbirne finanche l’al di là del linguaggio: qui ebbe luogo il più vistoso sbilanciamento. Da quel momento in poi, la città e le sue mura hanno assunto un ruolo espansivo: lo spazio sminuzzato, il cantiere dei segni distintivi e dei mostri fuori dalla cornice. L’opposizione tra fine e sconfinamento era una risultante epistemica della cultura primo-moderna, nella quale la città perimetrata costituiva lo strumento di socializzazione delle dromologie della decadenza. In virtù di un simile ruolo, le Mura della Città avevano sviluppato la propensione al marginalismo minaccioso ed alla esaustività del campo del sapere. Il mutamento urbanistico strutturale della tarda modernità, già ravvisabile nella fine delle opposizioni al Museo, vanifica, definitivamente, l’orizzontalità della comunicazione e dello specifico espositivo.
La crisi terminale dell’esposizione, considerata come una crisi delle forme simboliche della modernità, può essere osservata attraverso quel collettore operativo del moderno che è la città, nel passaggio dai segni del contenitore incorniciato ai segni del contenitore «s/contenuto e senza cornice». Con ciò si verifica un’inversione del movimento centripeto che a Napoli, sul finire del 1983, aveva condotto gli oggetti della pratica del ready-made, applicati all’architettura cittadina, a dilagare dai confini della Città.
2. Quante volte ci è capitato di sobbalzare sorpresi da un suono o da una voce improvvisa? Un vetro rotto, il clacson di un’auto o le grida inaspettate di un bambino, spesso coincidono con l’inciampo in un testo effrattivo, s-definito, conformato al limite della stessa scrittura. Spesso si parla di suoni bianchi, quelli che coprono i rumori esterni e, dopo poco tempo vengono dimenticati dal cervello. È come se passassero in secondo piano, quasi come se fossero ignorati, permettendoci così di rilassarci o di concentrarci meglio. Questo tipo di suono bianco può essere trovato anche nei testi di Città & Città, scritti da me e da Luca tra l’83 e ’84 del ‘900, periodo di singolare interruzione della pubblicazione realizzata in una grande tipografia di Fuorigrotta. Infatti, siamo costantemente circondati da suoni che possono essere piacevoli o disturbati, stimolare emozioni positive o negative, e ancora rilassare o far innervosire. L’esperienza del saggio scritto o dell’articolo monografico, in Città & Città, veniva usato come uno strumento, un utensile al servizio dell’errore. La domanda era: quando fu che il mugugno quasi animale, appena significativo, si mutò in voce e poi la voce si mutò in scrittura anortografica? E che cosa faceva davvero la differenza della pratica di Città & Città? Quando, esattamente, il suono informe divenne scrittura? Che cosa lo snaturò e lo frammentò, a tal punto, da farlo coincidere col magma ortografico?
La scrittura di Città & Città, per noi della redazione (editoriale e coord. red.: Luca; in red.: Alfredo D’Agnese, Federico Giandolfi, Ferdinando Grossetti, Pino Petillo, Antonio Milanese, Antonio Salomone, Valeria Vingiani, Bruno Daniele, Silvia Rocchi, Giacomo Scotti, Carla Baratti, Lucia Gangheri), era la veste civile del grugnito, del verso scientifico di cui parlava René Ghil nella “tradition de poesie scientifique” (Traitè du verbe. Etats successifs (1891-1904), a cura di T. Goroupi, Nizetr, Paris 1978). In effetti, avevamo in testa le parole di Roman Jakobson e quelle di Hans Hartung: il primo ci suggeriva che il superamento delle abitudini linguistiche era la presa totale del signans e del signatum; il secondo suggeriva l’astratto al di là dell’ismo, come scrittura diretta e più normale della pittura iconica, illimitata e più razionale della scrittura figurativa cinese. In effetti, quelle nostre ricerche coincidono con gli ultimi anni di lavoro di Viktor Sklovskij e soprattutto con la forza che ci ha profuso “la vitalità dell’imprecisione”, regalandoci L’energia dell’errore. La parola energia catalizzò subito l’interesse della piccola redazione di Città & Città e soprattutto ci fece meditare sulla resistenza dell’inesatto, del proibito, della svista, in una parola del fallo. Se le teorie evoluzionistiche hanno ragione, forse l’animale divenne persona quando inventò l’errore (in senso etimologico) nella scrittura e lo produsse: un suono che scompone, sorretto e diretto da un’intenzione certa. L’errore, suono armonico del processo di scrittura e della post-dodecafonia, con la vocazione ad essere comunicato, ruggisce, ulula sulla «pagina bianca», modulando barriti e pigolii del senso. La scrittura di Città & Città è sconquasso urbano, valore deceduto, qualità sproporzionata: numero, espressione, colore, calore, scossa, desiderio. Fu scrittura quando la persona disse e vomitò sul papiro: “ERRORE” … La scrittura di Città & Città esce dalla penna e dai calcolatori. La scrittura di quel Mucchio Selvaggio fu da subito contigua al cibo che ingurgitava Luca, al nutrirsi come dissetarsi e darsi spazio nell’incidente. L’incidente è sopravvivenza. Forse il primo errore sarà risuonato nel fondo di una caverna, riecheggiando sopra superfici umide e incrostate.
Come può Città & Città, devota al culto dell’errore liberato e ossessionata dall’orizzonte dialettico del bello scrivere, tramare, costruire le intenzioni di una ortografia sismica e informativa da semianalfabeti? Archeo-testo fitto di errori e orrori, regionalismi, gergalismi, punteggiature anomale, esecuzioni letterarie dettate da un flusso quasi indistinto di parole, al limite della scorrevolezza? Eppure la capacità di penetrare la storia dell’ultimo ventennio del ‘900 da parte di Città & Città, coordinata dal dimenticato Luca (Luigi Castellano), non ha pari, né precedenti, in nessun altro quindicinale del 1983-84, in nessun manuale di storia di quel periodo, in nessun resoconto giornalistico di «quelle epoche tremende», in cui in Italia si consumava la prima parte della tensione degli anni di piombo e si scrivevano tali ed assurde storie della critica d’arte! Cos’era quel Laboratorio messo su da chi scrive e soprattutto da Luca Luigi Castellano? Un architetto post-cubo-futurista, post-dadaista, fautore di Documento Sud e uno dei grafici militanti che dopo il Rotfront e l’insegnamento di John Heartfield, aveva attraversato tutti gli eventi salienti del secondo ‘900: dall’emersione di Mario Colucci, l’Internazionale Situazionista, al precorrimento del Gruppo di Arte Relazionale. Infatti, il linguaggio di Città & Città proviene da Linea Sud, Documento Sud, il gruppo che animò No (1969-1971), il collettivo della Prop Art e il concilio tra l’esperienza di OULIPO, Il Nouveau Roman e i quaderni dada russi della prima metà del ‘900.
Storicamente il capitalismo ha sradicato la scrittura. Nei primi tre secoli del suo dominio si tratta di uno sradicamento regionale, talvolta intercontinentale, come nel caso del commercio di tratta africano. Il nuovo fenomeno del XX sec. è che le migrazioni cicliche di popolazioni umane hanno assunto un carattere letteralmente planetario. Poiché il capitale diviene planetario, lo stesso accade alla forza lavoro nella forma di massicce migrazioni di manodopera a buon mercato, mobile, facilmente strutturabile, in quanto dotata in gran parte di status illegale nelle società ospiti, eppure nello stesso tempo potenzialmente rivoluzionaria. Ciò che Marx aveva definito il potere collettivo delle masse, da fenomeno esclusivamente nazionale, diviene effettivamente planetario nelle sue implicazioni.
Il tempo in cui c’era la scrittura nel confine della scrittura è passato. La scrittura come mistero, la scrittura come seduzione, la scrittura come eros fine a se stesso, la scrittura come desiderio esclusivo della scrittura, la scrittura come inferno, la scrittura come bordo di se stessa sparisce. La negatività della scrittura cede il posto alla positività della scrittura metropolitana dell’anti-omologazione. La proliferazione delle pratiche basse di scrittura dà luogo a quei mutamenti patologici, che trasbordano dall’universo cittadino e invadono le città senza confine. A renderlo diverso, non sono divieto e proibizione, ma l’ipercomunicazione del post-terremoto, non rimozione e negazione, ma permissività e affermazione. Non l’accettazione della repressione, bensì lo stato reale del sisma, come sintomo patologico e di disagio del nostro tempo, che trasforma la scrittura lineare in architesto tellurico. La pressione catastrofica non proviene dall’interiorità del linguaggio, ma dal movimento sismatico e stratificato dalla performance graffitara. La performance tellurica, in quanto pressione che proviene dall’interno, sviluppa tratti di schizo-aggressività, segue il percorso di Felix Guattari e delle sue riflessioni sul guerrigliero katanga e post-situazionista di Una tomba per Edipo. L’esplosione del tellurico, tramite la scrittura virale di Città & Città, mette in moto un diverso tipo di processo sterminatore, quello di autodistruzione dell’estetico per l’affermazione orale del politico! Vale in generale la dialettica del contro-referenziale: un sistema che riconosce la negatività di qualsiasi altro e che sviluppa tratti grammatici autodistruttivi, per parlare continuamente lingue, dialetti e idioletti differenti. A causa della sua positività, la violenza tellurica orale di Città & Città è invisibile, strisciante, ma sonora. La proliferazione della sua sintesi si muove sul plesso della grammatica barocca napoletana, sull’ordine del discorso disordinato e, da un certo punto in poi, la produzione non è più produttiva bensì distruttiva, new wave. L’informazione non è più informativa bensì deformativa, la comunicazione non è più solo comunicativa bensì mediale. La stessa pratica della scrittura informativa assume oggi la forma “illogica della logicità sociale”.
“La scrittura di Città & Città viene da altrove, da fuori, viene dall’altro metropolitano. Le voci che si leggono sfuggono a ogni confinamento, a ogni localizzazione forzata. Le tesi di Derrida sul fonocentrismo, che vanno così di moda in questo periodo, insieme alla moda del recupero totale di Heidegger, che sponsorizzano nella voce un luogo privilegiato di immediata presenza a sé, prospettano una particolare vicinanza della voce al senso-caos, mettono fuori uso l’esteriorità della voce, quella voce che noi – tramite i kool killer – abbiamo avvicinato alla scrittura metropolitana insieme al movimento del ’77, le pratiche della ricerca No (militata da Emilio Villa e da Luca) e tanti altri che scrivono tramite la dislessia ortografica e perimetrata. Come la scrittura mediale è una voce tellurica, è un medium dislocato nello spazio della città che guarda all’ortodossia e all’ortografia della pagina scritta, pur scrivendo nel dissenso, e fino a iscriversi nell’altro della pagina, nel destabilizzante, il post-dada, l’inquietante realismo del sismico scava nel complesso della cornice”. La s/punteggiatura di Città & Città è tanto odiata dagli artisti e dagli autori del Gruppo redazionale di Fuorigrotta, quanto indispensabile nella contro-etica del discorso artistico. Parte fondamentale della redazionalità di Città & Città, è l’errore di Sklovskij: assolutamente imprescindibile per formulare una letteratura artistica scorretta e comprensibile nel fallo sociale. Vi serve un esempio per convincervi? Eccolo qui:
«Bisogna strapparsi alla propria casa, al calcolo sicuro sul domani o sul dopodomani, e prendere il volo per sé, per un’esigenza interiore, ma non come un uccello, perché gli uccelli seguono le vecchie vie; volar via come vola solo un uomo che lavora, che conosce il ritmo delle possibilità … [ …] Niente riesce senza fatica. I fiori sbocciano e gli uccelli arrivano al momento giusto solo dopo molte ore di preparazione. Il mondo sembra protestare contro i primi tentativi di fare un piano di creazione, cioè di prendere coscienza di esso. Superando il passato, noi andiamo avanti, prendendo coscienza della differenza fra intenzione ed esecuzione. In seguito, nel suo articolo su Maupassant, Tolstoj scriveva che il talento aiuta lo scrittore a «vedere la verità». Se egli sbaglia nel rappresentare il mondo, il suo talento gli mostrerà l’impossibilità di costruire, lo costringerà a scrivere la verità. L’energia dell’errore, l’energia della libera ricerca, quest’energia non abbandonava mai Tolstoj. Egli comincia a scrivere di Kutuzov pensando a Guerra e pace. Crea uno schema del suo carattere, non conforme alla realtà, pur inserendo fatti realmente esistenti. Ma l’energia dell’errore, l’energia delle prove, dei tentativi, l’energia della ricerca, lo induce a descrivere un altro uomo, questa volta vero. Per far questo ci vogliono anni. Egli vuole chiarire la figura di Alessandro I, ma l’energia dell’errore, l’energia della ricerca, cancella la raffigurazione solenne di Alessandro, che è concepito come un benefattore della storia, e il personaggio scompare viene retrocesso nei piani secondari del romanzo … » (Viktor Šklovskij, Energija zabludenijaž. Kniga o sjužete, Sovetskij pisatel’, Moskva, 1981).