«Filigrane», breve luce …

Strano momento quello che stiamo vivendo, attraversato da contraddizioni sempre meno sostenibili, se non fosse per quel “filo di speranza verso la poesia e la letteratura che ognuno trae da sé all’ultimo momento”. Se da una parte, infatti, si celebra alla grande il “dantismo di ritorno”, dall’altra gli operatori tutti del settore sono chiamati a confrontarsi con una crisi che non è più strisciante: un pessimismo caricato di nero dalla scomparsa ravvicinata di tanti, tantissimi, troppi autori, di storie, di letteratura e di teleologie.

Garufi, il mare e il tempo, ovvero  il loro marchio …

Costruisci la tua nave di morte,/
Costruiscila in tempo,/
E ponila tra le mani della tua anima

D.H. Lawrence

L’apparente ricchezza di materiale delle edicole non dovrebbe, con queste premesse, essere diverso dall’annaspare disperato di chi sta per annegare. È il collasso, dunque, di un’editoria, di una cultura editoriale, di una scuola, di un’Università, di Modelli di studio, di formazione, di conoscenza, di lavoro, di sviluppi e sottosviluppi, di chiavi di lettura del mondo, di orizzonti d’attesa, di organicità e di disorganicità che, in troppo breve tempo, ha assunto dosi massicce di recessione determinata e deterministica, di burocratizzazione permanente, di anabolizzazione made in globalizzazione & fuffologie varie. Ad un passo dalla fatidica catastrofe pandemica, con migliaia di morti che si aggiudicano il mucchio della registrazione anonima, si alza finalmente il sipario sulla misteriosa esistenza del liberismo assassino, il “personaggio-Mostro Invisibile” più discusso ed odiato, ma anche amato, nella storia della crisi umana contemporanea.

In uno scoppiettante fuoco d’artificio di domande e di risposte, fra «un calice e l’altro di  amaro prosecco», il neo-liberismo non solo dice la sua sui temi più dibattuti di questa inquietante nuova-millenarizzazione, ma ci racconta anche i segreti dell’aldilà. Cosa accadrà durante la fine del mondo, e quali saranno le strutture e le pene dell’Inferno post-moderno? Colto e raffinato come un gentiluomo di altri tempi, concreto come un manager del movimento di gentrificazione e del politicamente corretto dei nostri giorni, settima sfinge della «cancel culture», amante di tutti i piaceri ma paladino della giustizia ad ogni costo: chi avrebbe mai sospettato, dopo secoli di grottesco identikit, che sarebbe stata questa l’autentica immagine del liberista anti-poesia e anti-parola. Altri fattori, disgraziatamente concomitanti, poi hanno contribuito, come il costo della finanza e della burocratizzazione sociale della cultura, letteralmente schizzati verso l’alto, e il pesante costo di rientro dell’estetica anti-poetica.

E allora? Cos’è mai, un poeta resistente e nemico di questo fantasma neo-liberista? Brillano auree mitiche nel gran libro della sapienza antica e a noi vengono lumi. “Io sono parte del sole come il mio occhio è parte di me”. D.H. Lawrence. Del resto, del suo panerotismo sarebbe superfluo dire. Ora, da Lawrence, visto che è caduto ad esempio, a Guido Garufi il salto non è facile: non lo sarebbe dal Nottinghamshire all’Arcipelago marchigiano-leopardiano se entrambi gli scrittori, sia anche in modo diversissimo, non ri-portassero il discorso ad una certa matrice che non riguarda lo svolgimento della loro scrittura e tuttavia nel suo corpo si è fatta nostalgia del logos (logos spermatikòs (Zenone); nostalgia dell’essere), un po’ come le astratte figure che talora si notano in trasparenza agli strati di una sedimentazione. Non a caso conversando con Garufi, si può avere la sorpresa di sentirsi citare Zenone (o Democrito), a proposito di certo meccanismo all’apparenza casuale ma rigorosamente deterministico, che regola il mondo. D’accordo, non è un linguaggio per un narratore noto soprattutto per le sue storie di mare, ma la citazione è sua, la trova pertinente a quelle storie, ed è un suo elzeviro che troviamo: 

l’equazione mare-vita-filigrana

“… Dicevo dell’acqua ininterrotta, circolare, per dire della collocazione del poeta-marinaio, magari quella di The rime of the Ancient Mariner di Samuel Taylor Coleridge. È un non essere come gli altri perché non si è in un lamento come gli altri. Il che si avverte, più che nella concitazione della tempesta, col mare calmo. Con calma si annodano e si dipanano quei sentimenti, nella monotonia, stando fermi. Il poeta-marinaio, il “naufragar m’è dolce” è il solo poeta moderno che provi nostalgia”. È una dichiarazione che potrebbe stare ad epigrafe quasi dell’intera produzione dello scrittore/critico/poeta nato a Macerata nel 1949 e sodale di Remo Pagnanelli. Salvo che per, la evidenza della scrittura di Atelier d’Inverno (Accademia Montelliana, Montebelluna, 1985.), è quella fascia d’acqua azzurra (forse!), circolare, l’elemento in cui si intramano i fili dell’autobiografia con leFiligrane de I Preparativi per la Villeggiatura: “verso i boschi del mare l’aria è un tronco color [avana,/ le selve acqua e ali vellutate. Il settecento allora vola,/volano i suoi lumini verso i numi delle onde accese/ (arcadia infinitesimale)” (Amadeus, Montebelluna, 1988). Il mare finisce per diventare una componente fondamentale: tanto che si pensa al mare-vita di un’equazione famosa nella letteratura romantica, solo che nei termini dei quali è costituita si consideri venuta meno una levitazione drammatica, propria della sensibilità d’altra epoca che non la nostra. Diradano, infatti, le tempeste, ma non le pandemie. È rimasta la similitudine del poeta che, come un’imbarcazione in mare dentro cui vagano gli uomini e le loro vicende: “La vita, insomma; il tempo. Sì, il tempo …”.  Ancora lui Guido Garufi. Prima la possibile citazione a memoria di Remo; ed ora questa faccenda del tempo-critico modulato ne Le parole agoniche della Poesia (Macerata, Alfabetica, 1993). L’equazione viene ribadita nelle sue componenti classiche. Il tempo vi trova una sua trama, mentre tutto avvolge e domina, la forma del mare; e se non sono gli uomini a vivere in immersione, sono i pesci ad acquistare sentimenti umani. Uno dice, nel Canzoniere Apocrifo: “Ma è stata la poesia, la mia seconda “attività passionale”, che in qualche modo ha equilibrato la depressione che sopraggiungeva così vasta e irrevocabile. L’università non fu altro che una sorta di giardino d’infanzia, un secondo posto di vacanza, un tornare finalmente al mare in età più matura conservando, grazie alla poesia, almeno, un certo colore e una inedita lettura del mondo”(p. 26). La stessa, ad insistere su quel richiamo dell’amico-fraterno Pagnanelli e dello stesso fratello di Garufi pur del tutto casuale, che un personaggio di Filigrane vede stampata in un mare d’acqua, e quasi ha l’illusione di frantumare a sassate, fin quando al centro, al cuore di tutte le Filigrane, non torna a riaffermarsi il tremolio vivido ed incandescente della candida luna leopardiana, non del tutto distrutta, bianco corpo infuocato che si contorceva e resisteva, non ancora squarciato, non ancora violato …

Una simile luna e un simile mare potrebbero essere uno dei tanti momenti o aspetti di un dominio psicoanalitico, che non a caso l’altro, il personaggio garufiano, prendendo a sassate il suo stesso immaginario chiama con un suo nome antico. Dopotutto, noi siamo pesci notturni, torna opportuno Garufi, chiusi in un possesso autarchico dell’essere, cui non sono ammesse che le fughe della nostalgia: buon per quelli che ne sono ancora capaci!

Garufi, si è visto, indica a questo proposito il poeta-marinaio, il critico benjaminiano (o forse anche alla Franco Fortini), ma è naturalmente un’indicazione che prescinde dall’esercizio di una professione, da una divisa, per riguardare ognuno che, in grado di avvertire la mediazione con qualcosa d’altro dalla sua condizione esistenziale, si piega come ad ascoltare un’elegia del sangue contemporanea al battito del mare-tempo, anche se da esso distinto, come un passamano trovato in un buio totale, cui viene distinto affidato l’orientamento e la direzione dei  suoi e dei nostri passi di formazione. Va da sé che ciò non significa dipanare i sentimenti in astratto, basta saper distinguere il mito della vacanza e della gioia dal mancato concorso all’università, il cono di luce mattutina al mare dalla macchia di petrolio (qui possiamo metterci l’inferno di Petrolio di Pasolini) su qualsiasi altra superficie. È nel sottinteso che Garufi  lamenta l’avvio al lavoro post-universitario, è nella perdita della speranza di contenersi nel luogo degli alti studi che si concretizza la derealizzazione:

”Avevo anche compromesso che la dimensione ludica che tanto amavo era l’unica che mi avesse concesso un minimo ristoro, una piccola sopravvivenza, un breve spazio di sorriso. Tutto questo era finito. Ora era necessario affrontare i concorsi avendo intuito che rappresentavano un grande teatro. Mai tanto grande come i tre concorsi per entrare all’Università. Avevo troppe informazioni, conoscevo tante persone (forse troppe?), la mia era una conoscenza quasi lobbistica della vita universitaria, ne individuavo le più piccole varianti, conoscevo benissimo come si entrava nella “caverna” di Platone, i pericoli, le illusioni …  Tuttavia ci provai. A quei tempi ero giovanissimo e pensavo che potesse essere sufficiente, oltre alla tesi di laurea, un libro già edito dalla fondazione Giovanni Pascoli, a Barga, e un secondo su Campana. Dico, fuori di metafora, che fui fatto fuori da una bellissima ragazza che frequentava lo stesso mio istituto e che probabilmente di qualità aveva soprattutto la fascinazione estetica, pure ammettendo la sua innata simpatia, ma a me questo non sembra un titolo, si fa per dire, accademico. Oggi questi scandali affollano i giornali ma nessuno ne parla, non fa comodo, non è politicamente corretto. Assicuro che anche allora c’erano i telefoni e le centraliniste …

La somma delle delusioni davvero potenti per nessun motivo provocò un abbattimento o, come mi sarei aspettato, una fisiologica delusione. Anzi, una forma di realismo ironico e quasi sarcastico si impadronì di me, mi salvò, aggiunse ulteriore forza, specialmente nell’ambito universitario: in quel luogo, pienamente, la teatralizzazione della vita, la farsa, un mascheramento paludato dagli Ermellini aveva raggiunto l’apice. L’ironia e la lettura “facile” di certe dinamiche mi avevano aperto gli occhi, allo stesso modo sulla “seconda matera” del mio canto, in quel Purgatorio che è la politica. Qui, davvero, non tanto la falsità e l’ipocrisia, quando la recita teatrale, la maschera, il ruolo di attore avevano uno sviluppo potentissimo: consideravo Pirandello o Kafka dei principianti …” (p. 27-28).   

Fin qui un lungo ideale dialogo con Guido Garufi, in cui più che domandare per apprendere, si domanda per verificare un’idea, o le impressioni che già si possedevano dell’autore e di Filigrane. Una cosa in verità non facile se si indulge a Garufi, all’impeto di persuasione che sempre mette nel suo discorso, qualunque sia l’argomento apertosi alla digressione delle sue esperienze e delle sue delusioni. Quelle esperienze e quelle delusioni che si intrecciano come dei fili luccicanti nella sua esperienza, o nella sfera pubblica e nella sfera privata della storia di questo paese. È marchigiano, si dirà; ma bisogna aggiungere: e tuttavia gli manca il timbro sottomissivo della segreteria vaticana. C’è piuttosto la civiltà, come dovrebbe avere notato qualcuno, che fa dolce la linea di Recanati, e quel mare che ritrova, su dalla risalita dei Dori, i colori che, tra l’Adriatico e lo Ionio della Leptis Magna, erano stati magnificati da Omero o forse dalla lunga tragedia della morte di Virgilio, tramite le parole di Hermann Broch. Il mare della letteratura e della parola. Vi si immaginano giochi di delfini, e vi si accetta una macchia d’olio o di petrolio con un sentimento di rivolta che non ha radici nel cuore umano più di quanto possa sicuramente averne in una regione di antica e intatta bellezza poetica: “Tutto ciò non mi annoiava, seguitavo a scrivere di critica letteraria e di poesia ma mi interessavo molto e da vicino di politica, non nel suo aspetto sociologico, che già sarebbe stato un passo avanti; d’altronde la stessa sociologia non spiegava nulla, o quasi, e di questo convinto. Solo la letteratura e il suo grandioso inganno, solo le metafore letterarie potevano compendiare questo dolcissimo inganno, dolcissimo e umano. Curzio Malaparte aveva scritto che votare non era altro che un esercizio scialbo, aveva affibbiato alle elezioni una fase emblematica, “Ludi cartacei”, così Malaparte interpretava la chiamata alle armi, ovvero ai seggi elettorali. Io, piuttosto, pensavo alla Batracomiomachia di Giacomo, alla battaglia tutta ironica (ma drammatica) tra le rane e i topi” (p. 28).

Garufi parla del suo uomo interiore, e questi, quasi si trattasse di un aneddoto, cresceva nelle stesse vesti del poeta Giacomo di un racconto della Batracomiomachia, una narrazione, che non riusciva a legare col suo circostante e che si rifugiava su quel colle in grado di vedere e di trasformare la poesia, la critica letteraria e la letteratura stessa, uno “sguardo ap-partato”. Però, chi può affermare che non si tratti ormai di sentimenti memoriali? In quel mare che è il tempo di Garufi lo si è sempre stati; anche in un romanzo politico di tutt’altre apparenze, come la vita stessa del conterraneo Giacomino (come chiamavamo Leopardi negli anni del liceo), non c’è che un simile risvolto. Garufi preferisce mantenerlo in termini marinari e presocratici, com’era il rapporto col mondo di quei tali che spiegavano tutto partendo dall’acqua, dal fuoco … . Lui, anche se non pretende di spiegarsi definitivamente, resta ancorato in uno spazio narrativo nel quale si avverte il respiro di una libertà organica cercata, una libertà naturale  ricca di significati: dove il mare e il tempo ha questo e quest’altro, che è un po’ aver messo le briglie alla Batracomiomachia di Giacomino. Si possono mettere le briglie a una  Batracomiomachia, con un margine di ambiguità che si esaurisce soltanto per mediazione linguistica – tra realtà e simbolo, cronaca e fantasia – e scelta interpretativa.

Se è vero che ogni biografia è soprattutto l’evocazione di una esistenza in ciò che essa ha di singolare è pur vero che ogni vita è, al tempo stesso, condizionata in qualche modo e dalla parola e dall’agnizione in cui si svolge e si compie.  Accostarsi a Guido Garufi vuol dire gettare uno sguardo, seppur marginale, sulla storia intellettuale e poetica dei primi decenni del Novecento: gli anni del pieno fervore dell’ermetismo, della riaffermazione di autori come Sklovskij, Kafka, Savinio, Gadda, Borges, Montale, Sereni, con l’aggiunta di un grande amore come Giacomo Debenedetti, la ripresa di Shelley e la Difesa della Poesia rivista dai simbolisti e dai post-simbolisti, dello scriba luziano, nonché la tradizione del canzoniere (da Petrarca a Saba) e la ripresa della Ballata del vecchio marinaio di Coleridge. Si tratta di un’epoca  che si avvia a divenire storica, senza aver ancora esaurito il suo obiettivo profondo e meditativo. Non sappiamo quali saranno gli aspetti e i caratteri che di essa sopravviveranno. Possiamo tuttavia sin d’ora affermare che il periodo in questione è di particolare rilievo, nella storia della dimensione poetica riconoscibile e che il posto occupato da Guido Garufi, in questo contesto, è assai importante. Se alcuni dei personaggi coi quali egli si è incontrato sono oggi dimenticati, altri sono divenuti personaggi chiave, figure di rilievo, da Eugenio Montale a Mario Luzi, da Umberto Saba a Giacomo Debenedetti, la cui vicinanza lo ha portato nel cuore della crisi modernista. 

Se si eccettuano alcuni momenti, pochi in verità, in cui si è lasciato coinvolgere dai fatti contingenti, Garufi è, durante tutta la sua gioventù, ma ancora adesso nella maturità, uomo schivo, che preferisce l’austerità della poesia, il lavoro paziente e l’isolamento, ad una vita rivolta all’esterno. Egli non fa parte di alcuna particolare conventicola, né di alcun circolo letterario modaiolo e ha collaborato sempre a riviste e a giornali defilati al grande pubblico. Se a questo motivo si aggiungono i pregiudizi dei contemporanei contro l’avanguardia e l’ideologia fine a se stessa e l’impegno degli studiosi di oggi in nuovi metodi accademici, si comprende come il suo contributo sia passato alla nicchia della critica più esegetica della seconda metà del ‘900. Il quesito non è di facile soluzione. Per anni Garufi ha studiato e ha cercato, prima di arrivare alla conclusione integrativa cui intellettualmente era già pervenuto, una conclusione ovvia, se vogliamo eppure continuamente messa i discussione dalla brutalità delle varie memorie letterarie del 900: da una parte quello che coniuga Dante e Petrarca e dall’altra ciò che in Leopardi diviene Idilli, Zibaldone e Pensieri. Cronaca minuta di una scrittura piena di critica e di poesia, di racconto e di psicoanalisi. 

L’essere schivo non significa, tuttavia, per il Garufi essere al tempo stesso arrendevole o incapace di difendere le proprie idee: difese con ardore la sua amicizia con Luzi, giungendo persino, ove ne vide il caso, ad essere irrefrenabile nei confronti dei suoi avversari. Chi lo frequenta di persona parla di lui come di uno spirito controverso, leale, di larghe vedute, in cui lo humor ha la sua parte, uno spirito anche inquieto, non privo di contrasti letterari. Le tracce più significative della sua vita fino ad oggi, fino alla stesura ed alla pubblicazione  presso Affinità Elettive di Ancona delle ultime Filigrane in prosa, presentano alcuni motivi di tensione introspettiva. Guido Garufi  è autore di saggi e monografie relative al Novecento, di estetica e metodologia critica, altri sul registro stilistico, simbolico e psicoanalitico e su autori del secondo Novecento. Insieme a Remo Pagnanelli ha fondato la rivista «Verso» e ha pubblicato l’importante antologia «La poesia delle Marche, Il novecento». Tra le raccolte di versi, introdotte da Mario Luzi e Vittorio Sereni, si segnalano «Hortus, Conversazione presunta, Canzoniere minore» (Archinto), «Lo scriba e l’angelo» (Archinto), «Fratelli» (Aragno). Finalista al Camaiore, al Biella e al Montale, è tradotto in spagnolo da Emilio Coco e in inglese da Desmond O’ Grady, sodale di Sartre e Beckett. A sua volta ha tradotto alcuni autori latini per Bompiani. È presente in numerose antologie, tra le quali «Il pensiero dominante» (Garzanti) e la «Storia letteraria, parte contemporanea» (Utet). Ha scritto testi per Rai 3 e Canale 5 e ha collaborato con «Il Messaggero». In “Fratelli” (titolo non poteva essere più esplicativo – testo uscito nel giugno del 2016, con un saggio critico di Giovanni Tesio) Garufi esprime la sua vena più rotonda e matura, ostentando una capacità di tenersi fieramente distaccato dalle false sirene poetiche italiane, un potere utopico non comune, di raduno sul proprio monologante «sterro intimo», di una meditazione indirizzata a esplorare la lezione dei grammatistài e dell’hermenéis.

La storia dell’estetica, secondo il Garufi si può dividere in due grandi periodi, corrispondenti a due diversi metodi di ricerca. Se è stato riconosciuto, in modo quasi universale anche in passato, egli nota, come nella poesia esista “un je ne sais quoi” di inspiegabile, per lungo tempo da Aristotele a Luzi, si è creduto che fosse possibile scoprire tale segreto attraverso una particolare analisi dell’opera poetica. La critica classica si è volta tradizionalmente verso ciò che ha pensato, sentito, ma soprattutto voluto l’autore; è un campo vasto, in cui l’esprit de finesse può esercitarsi indefinitamente. Filigrane: ecco senza dubbio l’etichetta sotto la quale il nostro periodo passerà nella storia della letteratura e della poesia. La filigrana, afferma Garufi, è lo stato del pensiero e della lingua nel quale le forme della poetica sono espressi attraverso  saldature, intrecci, punti di contatto. E la filigrana, a sua volta, è la figura o l’immagine impiegata come segno di una cosa: la sutura è il  segno delle corrispondenze. Più specificamente, in letteratura, ovvero sul crinale tra prosa e poesia, la filigrana è un tropo del genere della metonimia. La poesia vive di immagini come la musica di accordi e, perciò, definire filigranici i versi sarebbe insufficiente: ogni passo letterario si costella di metafore e la prosa si poetizza solo con le immagini e la forza della tessitura linguistica. Garufi ha detto che la filigrana è un segno relativo all’oggetto di cui si vuole risvegliare l’idea e Mallarmé suggerisce dapprima di svegliare, indicare senza designare. È l’allusione e Garufi dice: “Voci,immagini, sensazioni, frammenti di discorso, si accavallano dentro di me e formano come un nucleo … Tutto rimane lì, nella mia filigrana di sensazioni e di intuizioni, così come voleva Leopardi quando stimolava i poeti a usare termini vaghi e indefiniti, per avere l’idea dell’infinito. Ecco, allora, una metafora piuttosto concreta del mio termine, filigrana. A questa sono affezionato perché mi ha condotto nel viaggio tra fantasia e realtà fino a oggi donandomi una forza di discernimento, viaggio di esistenza e di resistenza” (p. 134).

Una prosa d’arte, dunque, qualunque essa sia, è filigranica: sia per quel che riguarda la forma che per quel che riguarda il contenuto. Anche se, per molto tempo, sono state considerate simboliche soltanto quelle opere che dimostravano chiaramente di essere tali, in quanto ciò che vi era rappresentato non poteva essere accettato così come appariva. Il concetto di filigrana ha avuto sempre un grande interesse per i poeti e i prosatori: il processo di filigranizzazione della trama letteraria, d’altra parte, è uno dei più antichi dell’umanità. Basti pensare alla nascita dei miti, all’investimento di significati filigrammatici di oggetti da parte di popolazioni primitive, alle superstizioni, all’importanza attribuita ai contenuti onirici come rivelatori di fatti che sarebbero accaduti in futuro.

L’analisi psicoanalitica della filigrana poetica si ricollega all’interpretazione dei sogni, perché proprio durante il sogno (come ci ricorda André Breton ne I vasi comunicanti, 1932) il processo di filigranizzazione diventa più evidente. Se un sogno che esprime desideri erotici riesce ad apparire innocente nei suoi contenuti, ciò può avvenire , dice Jacques Lacan, soltanto in un modo: “Ma tu ritorni, sillaba di luce, ogni volta che tocchi un filo, non di erba o di memoria, un filo offuscato ma che è strada o direzione di un viaggio” (p. 174). Il “sogno letterario” spaventa l’uomo primitivo, proprio per l’apparente mancanza di attinenza con la realtà: presso gli antichi si credeva  addirittura che fosse inviato da dio come avvertimento. Secondo Garufi, l’uomo avrebbe addirittura dedotto dal sogno la nozione di filo, che poi avrebbe attribuito a tutti gli esseri viventi, uomini ed animali e talvolta anche ad esseri inanimati, cui volesse riconoscere un potere di rivelazione particolare. Si tratta, dunque, per Garufi di porsi di fronte agli oggetti della “felice vacanza”, come se fossero visti per la prima volta; in questo senso, siamo di nuovo gettati nudi, come l’uomo primitivo, davanti alla natura della letteratura, perché dobbiamo riadattarci ad essa, aprire una nuova prospettiva di adeguazione della parola, un nuovo “vedere come”, cui possa seguire un “vedere che”.

È l’apertura di un paradigma, in senso marinaro, quello che vuole rappresentare Garufi. E per questo, occorre un nuovo tipo di componimenti, che tengano conto dell’aspetto sensoriale delle cose, come le descrizioni, ma anche della precisione concettuale – l’esattezza! – come le definizioni: delle definizioni che vadano contro la lessicalizzazione del mondo operata dai dizionari, che costruiscono oggetti ed esperienze vive, contro il design, facendo vedere gli aspetti del logos.