Filiberto Menna (foto di Patrizia Arzeni)

Filiberto Menna, o della critica

“La verità è che non possiamo non vivere nel nostro tempo. Ma questo non può significare rinuncia a un progetto critico; al contrario, vuole dire prendere posizione dalla parte di chi, oggi, lavora nella direzione di un approfondimento e di un rinnovamento, di un uso nuovo, appunto, delle nozioni di progetto e di razionalità. Con la convinzione, tuttavia, che gli strumenti razionali e la loro incidenza sulle trasformazioni reali hanno perduto da tempo un ruolo garantito e una definibilità assoluta” 

Filiberto Menna, Il progetto moderno dell’arte, Politi, Milano 1988, p. 79

Come definire, oggi, queste argomentazioni? Obsolete? Si cita la razionalità e, addirittura il “progetto critico”. Frasi di un’altra epoca, diranno i molti. Oppure queste frasi conclusive dell’ultimo libro di Filiberto Menna continuano a porre una questione, indicando un nodo problematico rimosso (quindi a suo modo sempre dolente) del dibattito su arte ed estetica.

L’importanza della presenza culturale di Menna oggi a molti non appare chiara; probabilmente, parecchi a malapena conoscono il suo nome. Eppure dagli anni Sessanta alla fine degli Ottanta (morì il 9 febbraio 1989; era nato l’11 novembre 1926 – questa breve nota prende spunto, un po’ in ritardo, dal ricorrere del suo giorno natale) gli interventi critico-teorici di Menna costituirono la pietra di paragone della situazione artistica italiana e, in parte, internazionale.

Ricorderò innanzitutto la sua fiducia illuministica nella razionalità. Fiducia che non di rado gli attirò le antipatie degli entusiasti d’un soggettivismo sfrenato, o del “basta che funzioni” – con gli esiti di cui quasi tutti siamo ormai consapevoli.

Razionalità, beninteso, non significa affatto freddezza. Infatti, di quando in quando, tra il serrato svolgersi dell’argomentazione, si coglieva un brivido commosso o tragico di cognizione del dolore, come nel testo per la mostra Mediterranea, ad Erice nel 1988: “‘Elle est retrouvée. / Quoi? L’Eternité. / C’est la mer mêlée / au soleil’ […] tra i sedici e i venti anni, in una piccola città del Sud, non è più facile incontrare le Illuminations di Rimbaud che un dipinto di Cézanne? […] Ma se la poesia, l’arte nascono dentro il linguaggio, si perdono, muoiono dentro di esso? Una risposta possibile ci viene data da Peter Handke quando parla di un ‘mondo interno dell’esterno dell’interno’ […]” (Filiberto Menna, Mediterranea, cat. della mostra di Erice, luglio 1988, Electa, Milano 1988, p. 12).

L’emozione che si fa linguaggio ovvero razionalità; il mondo interno che si nutre dell’esterno (la lingua) e torna all’interno rigenerato. Il presupposto d’una priorità per così dire metafisica del linguaggio non era estraneo alle sue argomentazioni: il capolavoro La linea analitica dell’arte moderna. Le figure e le icone del 1975 (un libro su cui s’è formata un’intera generazione di critici) proponeva infatti una coerentissima reinterpretazione in chiave post-strutturalista dello sviluppo dell’arte contemporanea, da Un dimanche après-midi à l’Île de la Grande Jatte al Concettuale.

Ma vorrei concentrarmi brevemente su due suoi libri: l’ultimo, da cui provengono le frasi riportate all’inizio, e l’oggi introvabile Critica della critica (Feltrinelli, Milano 1980).

Già dal titolo, Il progetto moderno dell’arte esibisce l’intento di confrontarsi con i temi che avevamo imparato a considerare suoi: le metamorfosi della modernità, il rapporto fra avanguardia e società di massa, la rivendicazione della possibilità del nuovo. La prematura scomparsa gli ha impedito di misurarsi col nostro mondo postcontemporaneo, digitale/reale, là dove la critica ha abbandonato il campo, sostituita inaspettatamente dalla “saggistica qualunque” dei mille autori senza autorità e delle opinioni senza opinione. Eppure alcuni suoi passi sembrano intuire gli sviluppi che conosciamo. Ad esempio, nel capitolo Avanguardia e società di massa si legge: “l’arte [d’Avanguardia] pensava di avere come termine di riferimento una comunità di individui, di soggetti, cioè, non ancora espropriati della loro capacità di autodirezione; e invece si trovava di fronte alla moderna società di massa e alla enorme dilatazione quantitativa che la caratterizza” (Menna, Il progetto cit., p. 33).

Di conseguenza, il vero centro del libro è una rivendicazione della legittimità della ragione “contro le disperanti fascinazioni della cultura del narcisismo”. Una lucidissima sintesi riallaccia le trame d’un ripensamento della soggettività, analizzando e commentando proposte in quegli anni di stringente attualità (fra la “frenetica abulia” del postmoderno e la ricerca di una ristrutturazione dei presupposti della discorsività “moderna”, fra Habermas, Lyotard, Rorty, il “pensiero debole”). Punto di partenza e di arrivo della sua proposta è che la soggettività non è né schiava di se stessa, per così dire, né serva d’una esteriorità senza nome. Si tratta di un “mondo interno dell’esterno dell’interno”.

La chiave per decifrare questo apparente enigma è esibita in Critica della critica, “in cui, attraverso gli strumenti del New Criticism americano, dello strutturalismo e della psicoanalisi […], compie un’indagine serrata sulla natura della pratica ermeneutica, individuandone una triade di funzioni costitutive: storica (preposta a stabilire relazioni nella serie cronologicamente ordinata dei fatti artistici), teorica (che introduce un criterio di selezione e coordinamento dei dati) e critica in senso proprio” (Edoardo Piersensini, https://www.treccani.it/enciclopedia/filiberto-menna_(Dizionario-Biografico)/).

Ma quel libro operava una dissezione “urbana” ma alquanto feroce di quanto oggi chiamiamo comunemente il Sistema dell’arte. Menna è stato forse il primo (nel 1980…) a indicare la minaccia mortale che la prevalenza del “sistema” faceva incombere sulla soggettività critica. La “critica invisibile” del sistema distrugge sistematicamente la soggettività critica: questo il suo monito. Il lavoro specifico della critica, che non ha le “opposte certezze dell’arte e della scienza”, argomenta, consiste nel movimento “pratica-teorica-pratica”, che trasforma i dati della realtà in oggetti teorici. Ma se prende il sopravvento la “critica invisibile” operata dai poteri del sistema, appare la facies hippocratica d’un discorso che non apre e non chiude: ad esempio, la cultura del comunicato stampa, in cui il produttore coincide con l’interprete, e in cui ci si limita a dare atto delle sue scelte. Allora, che ne è della critica? Il suo posto viene usurpato da un rituale performativo in cui è sostanzialmente irrilevante cosa si dice, di cosa si dice e se si dice qualcosa.

Ci si potrebbe chiedere quale sia il problema. La critica d’arte in fondo non è altro che una specifica posizione della contemporaneità (da Baudelaire in poi), destinata a cadere, a essere superata? Ma Menna non indica soltanto una problematica interna alle istituzioni artistiche, al rapporto fra creatività e situazioni di potere, di mercato, di reputazione, ecc. Non si tratta solo di questo, poiché per Menna l’antidoto al tramonto delle utopie è la liberazione delle soggettività. Ma non una liberazione intesa come mero scatenamento, in quanto il modello della soggettività liberata per lui coincide, sia pure asintoticamente, con la soggettività critica.

E cos’è, la critica, per Menna? La sua prassi, “come quella artistica, si presenta […] come una terza cosa, situata nello spazio del simbolico fra il dominio dell’immaginario e quello del reale” (Menna, Critica cit., p. 93), a partire dalla “frattura che segna il passaggio dall’ordine dell’immaginario all’ordine del simbolico” (Ivi, p. 92). 

La questione posta da Menna risulta allora più che mai attuale. Quella “frattura” dovrà essere il tema? (Il tema di una possibile “guarigione” dell’arte). L’anamnesi critica d’un immaginario scisso da un simbolico che distrugge l’immaginario?

Detto in altri termini: cosa resta dell’arte, se (nell’apocalisse estetica…) l’interno creativo, il vuoto, la distruzione creatrice vengono sommerse dalla “foresta di segni” (quanto chiamo il Solaris) provenienti dall’esterno, che sistematicamente cannibalizza gli intenti delle soggettività?