1. Non sappiamo bene, oggi, se «la comprensione» sia il residuo oppure il sopravanzo del mondo. La storia l’ha emarginata, dispersa, esiliata; il mondo la ignora proprio per quelle parole – verità? esposizione? cognizione? criticità? – che potrebbero, e non vogliono, udire. Ma la critica vive, insiste a vivere e a scrivere, grida la sua insolente presenza che è alla fine difficile ignorare. La critica, al di là degli esiti di lavoro della Sontag e dei suoi derivati,è dentro la realtà anche quando finge di evaderne o di isolarsi, e stende il suo atto d’accusa attraverso il confronto con l’interpretazione e la pratica delle forme, il politico e l’estetico. È questo l’antico pregio di un’attività la cui origine si perde nella notte dei tempi e delle osservazioni curiose e dei desideri di consapevolezza. Ma che ancora oggi, in piena società acritica o trasparente, i critici continuano a resistere – con poca gloria e troppa fatica – sull’austera soglia dell’intendimento che ai più sembra inutile, è insieme indulgente e radicale.
2. Traduco il titolo del saggio Against Interpretation, non nel suo proprio significato, ma mi spingo in una sorta di tentativo, o premessa, o volontà di presupporre un “against” astratto. Propongo un saggio contro l’interpretazione che sia un’altra morfologia dell’iperformalismo, cercando di arrivare a un’identità tra quel che i due vocaboli portano con sé dal punto di vista teorico e storico. Questa sorta di “rigido pretesto”, in senso saggistico e avangarde, ovviamente, vorrebbe esporre a grandi linee quella che è stata tutta la fortuna della Sontag (New York, 16 gennaio 1933 – New York, 28 dicembre 2004), dagli esordi (saggio sul Camp, 1966) fino a At the Same Time: Essays & Speeches (2007).
Per quanto mi riguarda, ho iniziato la mia attività di critico, un po’ di decenni fa, confrontandomi più volte con Against interpretation (prima ed. it. Quaderni della Medusa, Mondadori 1967, tradotto da E. Capriolo, e ora da nottetempo, ritradotto da P. Dilonardo con una intro. di D. Giglioli). Parlerò di Susan Sontag, autrice di romanzi, di saggi, regie teatrali, film e scritti dal sapore estetico-emotivo: tre di questi sono stati pubblicati nel 1964, ‘65 e ‘69. Il primo è il già citato Contro l’Interpretazione, oggi incluso in una raccolta di testi dello stesso ciclo, il secondo è la continuazione del primo ed è dedicato allo «Stile» e il terzo è un recupero di Interpretazioni tendenziose (1969). Per dirvi l’essenziale del suo cammino, il primo saggio tratta del sensismo, in quanto pratica e approccio alla percezione dell’opera, quindi dell’ontologia dell’immediatezza. Gli altri due commentano dell’ineffabilità dei contenuti, della coscienza in rapporto allo stile, dell’estetica di tendenza, della grandezza di ciò che non può essere detto, ovvero la potenza del silenzio, la rincorsa verso l’impuro, l’ibrido, la deviazione linguistica, la stranezza, la stramberia, l’irregolarità, il vuoto, la pornografia come latori di valori contrapposti. Il senso, per fare un esempio riguardo a questa vecchia dogmatica del ‘900, è il multiplo dello stile soggettivo, dell’autonomia a tutti i costi e dell’esemplarità esperta, riunita contro l’assiomatica interpretazionale, in altre parole per coinvolgere nuovi e vecchi “magheggi erotici”. Uno dei sensi possibili della terminologia critica della Sontag è quello di designare l’indesignabile, ovvero uno spazio intellettuale (forse) e culturale in cui si dà verità dell’opera d’arte, perché tutto si riduca al sensismo o all’estetica dell’ineffabile che scarta l’interpretazione.
Tra queste follie dogmatiche c’è anche il proposito di mettere da parte il motto prospettivista di Nietzsche: “non ci sono fatti ma solo interpretazioni”. Ed a proposito di questa anti-ermeneutica relativistica, che la Sontag presenta come la pratica anti-interpretativa è la koinè, il grido comune del tempo della protesta, dell’avanguardia contro il significato del regime politico, che avvelena la nostra sensibilità e la nostra autonomia estetica. Lo scopo della Sontag è, infatti, quello di mettere in luce le condizioni dell’ineffabile artistico, di mostrare come l’enigma sia il modo d’essere dell’esistenza formale dell’opera d’arte e come esso coincida con un tipo di sapere che persegue una conoscenza soggettiva e partigiana del mondo. Nella sua forma di koinè, insomma, il sensismo incarna un sentire contro-verso, al limite della banalità e del volubile, quanto il registro del suo nemico principale: l’ermeneutica. Cosa significa, che l’anti-interpretazione è la koinè della filosofia dell’ineffabile o, più in generale, della cultura del dissenso civilistico degli anni ’60? In termini di fatto, significa che, come in decenni passati c’è stata un’egemonia del modello interpretativo di tutti i conflitti tra formalismi e strutturalismi, oggi se c’è un idioma comune della scrittura giornalistica di costume, esso va individuato nell’istintualismo sensistico della Sontag? Naturalmente, non si può provare né l’esistenza della piattaforma estetica a cui si richiama l’ortodossia interpretativa, né quella sensistica a cui ci si è richiamati in zona franca, né che oggi ci sia una guida creazionista art pour l’art, ma possiamo adottare un esempio tendenzioso: «Guardare una cosa vuota è sempre guardare, è sempre vedere qualcosa, se non altro gli spettri della propria attesa. Per percepire il pieno bisogna conservare un senso acuto del vuoto che lo limita; e viceversa, per percepire il vuoto bisogna cogliere come piene altre zone del mondo» (Interpretazioni tendenziose, Einaudi, Torino 1975, p. 11). L’affermazione sul quadro di sbilanciamento (ermeneutica o emotivo) come koinè, sostiene che, come in passato gran parte delle discussioni estetiche o di critica letteraria (o di metodologia delle scienze umane) facevano i conti con deviazioni di genere, contemporaneamente, poco applicate alle tecniche, in più avrebbero dovuto ottenere troppe elucubrazioni epistemologiche inverificabili! Nella seconda metà degli anni Sessanta, mentre le filosofie e le scienze sociali ci davano i contributi di Foucault, Barthes, Althusser, Benveniste, Chomsky, Deleuze, nei suoi scritti Susan Sontag ipotizzava che: “Ciò che occorre è, in primo luogo, una maggiore attenzione alla forma. Se l’eccessivo rilievo attribuito al contenuto produce l’arroganza dell’interpretazione, descrizioni della forma più estese ed esaurienti la metterebbero a tacere. […] Oggi non abbiamo affatto bisogno di assimilare ulteriormente l’Arte al Pensiero, o (ancora peggio) alla Cultura […] Oggi è importante recuperare i nostri sensi … minimizzare il contenuto in modo da vedere ciò che è …” (nottetempo, pp. 29-31). E ancora, a metà degli anni sessanta esordiva con la seguente ipotesi sull’immagine dello Stile: “Ogni opera d’arte, perciò, deve essere intesa non solo come una rappresentazione, ma anche come una certa maniera di trattare l’ineffabile …” (nottetempo, p. 60). Valutare la portata e la tenuta di queste ipotesi non è però un compito facile, perché non è facile dire quanto essa si presti ad essere discussa al di fuori del suo contesto.
Cosa c’è di particolare in questa figura intellettuale americana? C’è che era ed è stata l’autrice de L’Amante del Vulcano ispirato al triangolo amoroso composto da Emma Hamilton, William Hamilton e Horatio Nelson e che vorrebbe rappresentare un “pensiero libero” in parte rispettabile, per le sue riflessioni su La Malattia come Metafora, la Fotografia ed altri fenomeni di costume; c’è che a modo suo è stata ribelle: “Si credo di essere stata femminista da sempre, dalla nascita, un fatto naturale, come respirare. Per esempio quando mi sono sposata ed ero molto giovane, appena diciassette anni, ho detto che volevo conservare il mio cognome. Trent’anni fa non era una scelta frequente, anzi non lo era affatto. Dopo, con gli anni, questi comportamenti sono stati definiti femministi. Ma per me era un fatto naturale. Oggi dico “sono femminista” sottolineandolo con particolare attenzione e non vergognandomene, soprattutto adesso che “femminista” è considerata una etichetta in fondo abbastanza volgare (Femminile significa, di Patrizia Carraro, in Noidonne, nov. 1982). Nei saggi della Sontag c’è anche tutta una strategia politica, che consiste nel determinare quali sarebbero le argomentazioni necessarie per condurre una vera rivoluzione, una rivoluzione che in qualche modo sia razionale e rimanga tale. Ovviamente, si può sempre discutere il modo di procedere di S. Sontang dal punto di vista fenomenologico per assiomi, per teoremi emozionali, segni sensibili. Ma la cosa curiosa, è che in genere nelle sue ricerche la Sontang rivendica uno ius primae noctis con le tendenze più in voga. Leggendo i suoi articoli si ha l’impressione che lei abbia scritto di quel costume con la smania di dimostrare di essere stata la prima ad individuarlo; sembra che abbia sentito l’esigenza di essere femminista, perché risultava prima anche in questo campo. Insomma: la forma dell’avanguardia ha sopraffatto il significato.
Il processo di scrittura di Contro l’interpretazione destituisce la presunta sacralità del lavoro critico nei termini dell’euresis; ma la domanda “Dove sta lo scrivente?” giunge sino al panico, quando scrivendo, tutto risulta radicalmente slanciato, emozionato, persino la scrivente stessa. Ma chi è la scrivente? Chi è che scrive contro l’interpretazione? E a chi scrive? E con chi scrive? Forse S. Sontag ci fornisce una definizione di scrittura che può dirsi “direttamente capziosa”, quando dice che “la trasparenza è il valore più prezioso, più liberatorio che l’arte – e la critica – possano offrirci oggi. La trasparenza è esperienza della luminosità della cosa in sé, delle cose così come sono. È questa, per esempio, la grandezza del film di Bresson, di Ozu o della regola del gioco di Renoir” (nottetempo, p.30). Infatti il testimone della scrittura sembra passare alle contraddizioni della Fiera della Musica e delle Arti di Woodstock, una manifestazione che si svolgerà a Bethel (dal 15 al 18 agosto del 1969; all’apice della distruzione e della catastrofe della cultura hippie), mentre la Sontag si appresta a formalizzare “l’irrecuperabile fazioso”. Scrive Susan Sontag: «Man mano che diminuisce il prestigio del linguaggio aumenta quello del silenzio» (L’estetica del silenzio, in ID., Interpretazioni tendenziose: dodici temi culturali, Einaudi, Torino, 1975, p. 20).
In fondo la Sontag, tra i suoi tanti saggi, vanta di aver rivalutato anche quel pre o post-nazista (e tardo nichilista) di E. Cioran. Infatti, tra le interpretazioni pornografiche più memorabili ed erotiche del pensiero di Cioran, emerge la postilla della Sontag che propone un’analisi della sua concezione filosofica, in un saggio dal titolo Pensare contro se stessi: riflessioni su Cioran, incluso nel volume sulle «tendenze del tendenzioso». Il paradigma culturale di partenza di Cioran, secondo la Sontag, si configura in una interpretazione complessiva del nostro tempo, in cui la cultura occidentale, dopo la crisi storicistica e l’emergenza del negativo, giunge alla teorizzazione della disfatta nonché della fine. Forse in Cioran, la Sontag, riesce ad applicare ciò che desidera dalla critica o dalla non-critica: descrittivismo contro prescrittivismo. Una formula che andrebbe bene per criticare i conservatori discendenti da De Maistre – come l’abile componente della Guardia di Ferro (Cioran) -, ma non certo per la vita di Julian Beck e Judith Malina. La mancata chiarezza delle riflessioni di Cioran è attribuito ad uno stile drammatizzato nel quale i ruoli dei personaggi vengono sottoposti ad una intercambiabilità continua; “nella sacra rappresentazione del pensiero, il pensatore interpreta contemporaneamente le parti del protagonista e dell’antagonista. Egli è insieme Prometeo sofferente e l’aquila spietata che consuma le sue viscere perpetuamente rigeneratesi” (Interpretazioni, ivi p.70). Mettere in gioco la categoria dell’interpretazione, sabotare la comunicazione, per desiderare la forma più piatta della trasparenza e dell’ineffabile! Tale sensibilità e attrattiva agita per pattern provocatori, come il silenzio nell’esistenza umana, accade nel momento in cui l’uomo si trova a vivere nel chiasso assordante di parole e suoni svuotati di comunicatività, ad abitare una babele di linguaggi incapaci di farsi comprendere. Questa riproposizione del silenzio come dimensione essenziale per una buona vita umana è legata in parte al degrado della comunicazione verbale e all’impoverimento che la parola subisce con il progredire dello sviluppo economico.
Anche Benjamin, ne Il narratore, pur non dilungandosi nel trattare la questione del degrado della parola, ne parla all’interno di un contesto culturale che lui definisce come un baccanale della Weltliteratur. La parola oggi, effettivamente, è offesa e il parlare è diventato progressivamente un fatto puramente palatale, un condensato di brusio verbale e di pause vuote, un parlare insistente che in alcuni casi rappresenta una vera e propria schiavitù dell’uomo, quando non è un parlare offensivo e aggressivo. Segno di questo parlare oramai usurato sono le molteplici forme di connessione nei social network, in cui la parola stessa è stata recisa con abbreviazioni che non comunicano più una verità. Potrebbe scrivere Walter Benjamin: «Oggi si assiste ad una vera e propria fuga della parola, a una banalizzazione della stessa, a un deserto verbale (deserto di parole autentiche) che cresce, illusoriamente compensato da una bulimia di parole inautentiche, parole di intensa trasparenza». Emerge un dubbio: ma non sarà che i critici della Sontag, in quel cahier de doléances, in realtà facevano autoanalisi? Ovvero: discutono l’onestà politica dei narratori che parlano davvero del Paese, avendone paura? Preferiscono la bella scrittura e l’ecologia del profondo, di cui si fanno poi accusatori? Gli piace chi fa dello spettacolo della scrittura trasparente il vuoto della scrittura contro-interpretativa? Chi fa pubblicità, perché nella pubblicità nuotano ch’è un incanto? Nel vino e nel sangue nuotare è più difficile, è più complicato superare la minaccia del vuoto, della trasparenza e magari anche della pornografia. Ma ciò che soprattutto non gli preme, riflettendo sui propri progetti, è comprendere quale rapporto li debba legare al mondo d’origine (vedi: Pasolini e le prime poesie censurate). Un retropensiero sempre presente, come par di capire anche leggendo una eventuale revisione pubblicitaria de L’amante del vulcano: «Romanzo ben fatto ma che non rimanda a nient’altro, non tocca nessuna sagola dell’intimo. Perché Susan Sontag non ha scritto di sé e dell’America? È la domanda che ogni etnia pone all’antropologo straniero, ogni insediato all’insediatore animato da propositi disponibili e indulgenti: “Perché non descrivi te stesso invece di descrivere noi?”». La Sontag, negli articoli e nei romanzi, vuole rappresentare se stessa, in quanto «propria moltitudine globale», il mondo dal quale deriva. L’ambiguità da «Weltliteratur necessaria» sta nel fatto che la rappresentazione istituisce il suo tracciato ma, al tempo stesso, richiede di pensarlo fuori di sé, in quanto, appunto, è qualcosa che viene ritratto a distanza.
3. Sembra, in tal modo, assumere rilievo il presupposto secondo cui quanto più pieno è il dispiegamento e il dominio della rappresentazione, tanto più imminente si fa la pensabilità del suo “esterno” e della sua esternazione globale. Ma dove si apre questo altrove, nel momento in cui la rappresentazione ha saturato tutto lo spazio del visibile e anche quello “invisibile”? L’originalità speculativa di Cioran, che affascina la Sontag, è proprio il contraddittorio dell’ineffabile; ed è proprio la parola di quella ermeneutica più tradizionale e prescrittiva che la Sontag additava. In tal caso, la Sontag parla di Cioran per dire ancora una volta Nietzsche, un Nietzsche sulla linea di De Maistre (vedi ancora p. 70 di Interpretazioni). Secondo la Sontag se Nietzsche “voleva dominare la propria solitudine morale, Cioran vuole dominare il difficile”, vuole dominare quelle profondità ermeneutiche che affascinano tanto la Lea Vergine de Gli ultimi eccentrici (con qualche ossessiva illustrazione di Cemak), quanto la Sontag dell’Elogio del silenzio! Anche la Sontag cucina il suo progressismo, un po’ da terza pagina de Il Manifesto, con ideuzze come: “Cioran dotato elegiaco europeo ma che contemporaneamente rappresenta la morte dell’Europa, usando aggettivi che sfiorano in un rococò-atlantista: “sofferenza europea, coraggio intellettuale europeo, vigore europeo, supercomplessità europea” (ivi, p. 74). Tutto questo giro di vite è servito a confermare il conflitto delle interpretazioni tra il descrittivo e il prescrittivo e a paragonare Cioran a quel elogiatore del misticismo delle Lettere savoiarde. Secondo la Sontag, le riflessioni sul misticismo di Cioran e sul pensiero religioso orientale assolvono in lui lo scopo di aprire ad una solitudine aristocratica gli orizzonti negativi del vuoto e del nulla, che tanto sono piaciuti agli adepti del post-moderno (come pensiero politico unico e di giustificazione del liberismo aggressivo). In sostanza, la Sontag trova nell’ostilità verso la storia, e verso quasi tutti gli aspetti della vita moderna di Cioran, la cifra conciliante del suo destino ambiguo, sull’orlo di un basso profilo ermeneutico e di una esuberante forma descrittiva o apologetica. Chi è qui la scrivente? Chi l’Io che scrive nella nota dell’edizione del ‘66 di Against Interpretation (?): “Oggi dissento da alcune delle cose che ho scritto, ma non si tratta di un tipo di ripensamenti che renda possibili cambiamenti parziali o revisioni. Anche se credo di aver sopravvalutato o sottovalutato i meriti di alcune delle opere che ho discusso […] In fin dei conti, non sono interessata ad assegnare voti alle opere d’arte (ed è questa la ragione per cui in genere ho evitato di scrivere di opere che non ammiravo). Ho scritto con lo spirito di parte di un’entusiasta (ndr.: e questo vale anche per Cioran, o per Leni Riefenstahl in occasione di Saturno?) – e, così adesso mi pare, con una certa ingenuità. Non mi rendevo conto dell’enorme impatto che, in un’ epoca di “comunicazione” istantanea, può avere chi scrive di attività artistiche nuove e poco conosciute. Non mi rendevo conto – non l’avevo ancora dolorosamente compreso – della rapidità con cui un corposo saggio pubblicato su Partisan review può trasformarsi in uno “Scelto per voi” su Time. Nonostante il mio tono esortatorio, non intendevo condurre nessuno, eccetto me stessa, verso una Terra Promessa. […] Vedo il mondo in modo diverso, con uno sguardo più fresco; la concezione dei compiti che mi propongo come romanziera è radicalmente mutata” (nottetempo, 1966, p.12).
Che cosa significa che l’Io «è lo scrivente»? Forse che nella lettura ci ricordiamo del nome della Sontag, perché l’Io scrive? Scrive e patisce, o gode e non interpreta, sensualizza e rifiuta la sémantique de l’action? Già, l’Io scrive. Quel che si legge scrive: è già l’Io! E quindi la semantica è scritta dall’Io, fatta propria dall’autoriconoscimento della romanziera, ovvero una volta divenuta Io. Una volta che l’enunciazione va in tutt’altra direzione rispetto al senso presunto, sicché solo entrando in un noi critico e comprensivo “si è rivelato un atto di liberazione oltre che di espressione intellettuale” (nottetempo, p. 12-13). Ho l’impressione che l’incomprensione ha influito sulla comprensione, il risultato del potere su quello dell’apertura dell’area della coscienza (come diceva un verso di A. Ginsberg). L’esercizio della scrittura, l’esternazione della forme, ha prosciugato le fonti energetiche! Come potevamo essere il qahal Jahvè o l’ekklesia, l’Io torna, pretestuosamente, ad essere domestico, più che soggettivo, l’umano torna ad essere animale, in modo che “noi” possiamo avvertire come esterno all’Io quest’io dell’opera d’arte (spento o in ebollizione), come l’Io dell’oggetto Tuo assoluto! L’Io nell’opera è definito dal sensismo e dall’ermeneutica, come se fosse un battello ebbro straniante, irriconoscibile! E sempre nel linguaggio della letteratura che si esprime ogni forma di comprensione come modo di essere. La via lunga di Ricoeur è dunque la via breve, molto breve della Sontag, perciò ogni pratica, al di là dell’Io, prende l’avvio dal piano del linguaggio stesso. Ora, l’elemento comune, quello che si ritrova, dall’esegesi alla psicoanalisi, è criticamente una certa architettura del senso, che si può chiamare senso duplice o senso molteplice, ed il cui ruolo è, di volta in volta, benché in maniera diversa, di mostrare nascondendo. L’uso del linguaggio letterario quindi concerne la «semantica delle espressioni» multivoche che si spingono al di là del descrittivo, del prescrittivo, dell’interpretativo e del meramente formale.