È una FIAC più sommessa quella di quest’edizione 2019 che, a differenza della precedente, vede l’insieme delle gallerie unanimemente orientante alla proposta di stand meno spettacolari e scenografici – salvo eccezioni s’intende – tendenti a privilegiare un discorso sulla pittura, un discorso che, a voler ben guardare, va evidentemente incontro ad un collezionismo più tradizionale. Se tale orientamento da un lato risponde al mercato – negli ultimi anni sempre più alla ricerca di sicurezze e meno dedito alla sperimentazione -, un mercato che conferma i trend internazionali che vedono il contemporaneo in salita, dall’altro mostra un’adagiarsi generale su formule testate e funzionanti.
Molte, infatti, le gallerie presenti con gli stessi lavori dello scorso anno, se non proprio gli stessi, molto simili e difformi soltanto nel formato e, in taluni casi, fra l’altro, di qualità discutibile. Una FIAC un po’ fiacca – volendo giocare con l’assonanza fonetica fra le parole francesi e italiane – che non offre grandi spunti di novità. Tuttavia, se non un commento unitario alla fiera risulta difficile da formulare, lo si può svolgere sulla specificità di alcuni lavori. È il caso, ad esempio dell’opera di Jean-Michel Alberola (Templon Gallery) che con La Vision d’Artur Rimbaud à Harrar, 2019, propone un’immagine iconica e poetica della contemporaneità che, vista attraverso la reinterpretazione letteraria e decadente del poeta francese, fluttua nell’oggi come fosse un “battello ebbro”. Interessante ed esteticamente bello è il dialogo fra i busti di Barry X Ball e la pittura acquerellata su carta di Marta Jungwirth (Ferguson McCaffrey gallery) che inscena un discorso fra antico, presente e futuro; presenze, assenze e apparizioni conducendoci simultaneamente ad una riflessione sul tempo e sulla forma e che, sincronicamente, ci dimostra come le opere, tendenti a sviscerare queste relazioni, siano quelle di maggiore impatto nel contesto fieristico. Sulla stessa scia, infatti, si colloca l’elegante e semplice lavoro di Betty Tompkins (Rodolphe Jansen gallery) che, inscenando un discorso fra immagini del rinascimento italiano e lettering rompe le barriere del tempo rimescolandone significati e significanti. Ciò vale anche, giusto per fare un altro e un’ultima esempio, per l’arazzo di Laurie Prouvost (Galerie Nathalie Obadia) attuale rappresentante del padiglione francese in Biennale dove, la sensualità del nudo femminile si fa ironica nella scritta che l’accompagna, più cinica – se vogliamo – dal momento che il rapporto uomo-donna viene esplicitato più nell’orbita del desidero che della realtà. Spiazza, come sempre Gagosian che, cogliendo queste atmosfere, a sorpresa propone uno stand completamente dedicato al novecento e agli agli artisti della Costa Azzurra dove, i segni e le figure di Picasso, ma anche quelle di Matisse, irrompono fra i box inglobando lo spettatore in una magia unica e irripetibile. Chiudendo, un breve commento alle gallerie italiane è doveroso.

Fra gli stand più belli ci sono con certezza quelli di Tucci Russi che porta, come sempre, l’amato Penone ma con dei pezzi meno scontati, Alfonso Artiaco che propone un’allestimento rigoroso, pulito e allo stesso tempo dinamico e soprattutto Cardi Gallery che, a mio parere, risulta il più convincente fra tutti. L’ariosità dello spazio permette di godere le opere di Mimmo Rotella come fossimo in un museo e la scelta di affrancare due tipologie di lavori differenti permette finalmente di cogliere la diversità e la complessità dell’opera dell’artista calabrese.
