Eulogy, dall'episodio della serie Balck Mirror 7

Eulogy (Black Mirror 7)

Questo saggio parla di cinema, di guerra e d’amore, di tempo, di letteratura e di no-film per la televisione: il piccolo schermo in mediamorfosi. Esso discute anche di semiotica dello sguardo, di immaginario e di cultura di massa, di Black Mirror e – perché no? – di politica massmediologica, quella che riguarda, attraverso un episodio come Eulogy, i nodi fra la nostra vita e l’ambiente dei segni, in particolare quelli audiovisivi del video-digitale, che sembrano dare respiro e senso al nostro tempo di catastrofe globale.

1. Specchi aggressivi, specchi vuoti, specchi confusi: i disordini speculari rivelano sempre gravi disturbi amorosi. Lo specchio rinuncia ad ogni operazione simbolica e il soggetto non tenta più di rappresentare se stesso; la dinamica del riflesso si inverte e, invece di anticipare l’unità, rimanda ad uno stato arcaico di disorganizzazione psichica, come una anamorfosi sentimentale, la cui prospettiva è inaccessibile. Tra i tanti esempi riscontrabili nella storia dei sentimenti amorosi e del cinema degli ultimi anni, alcune drammatiche pagine di Eulogy mostrano lo scenario tipico di un incontro speculare mancato, dove la possibilità di una reciprocità tra sé e la morte dell’amata, tra proiezione e percezione fotografica è in un difficile stato confusionale. Forse lo stesso stadio in cui imperversa l’oggetto fotografico e cinematografico. Phil Connerty (Paul Giamatti), uomo dal carattere introverso e solitario, un giorno viene interpellato da un’azienda che gli annuncia che una sua vecchia “conoscenza”, Carol, è morta. Siccome stanno preparando un memoriale digitale costruito sulla sua figura, gli chiedono di prendere parte alla cosa attraverso i ricordi fotografici. Phil decide di accettare. Non sa che verrà catapultato in un viaggio nei suoi flashback più dolenti e interrati. Come in altri episodi di Black Mirror 7, anche qui la riflessione sulla tecnologia è complementare alla trama: il contesto iperrealistico in cui vive il protagonista della storia non è poi così distante dalla nostra realtà, ed è questo uno dei punti di forza dell’episodio. Nel mostrarci le ripercussioni di un progresso tecnologico del tutto plausibile, Eulogy si muove sul terreno della nostalgia e del rimpianto, agendo su di una condizione fotografica memorialistica. L’abbiamo già osservato a proposito di Black Mirror in generale, altri lo hanno attraversato prima di noi: descrivere un episodio della nuova serie, raccontarlo significa già interpretarlo, magari immergervisi, superare l’ostacolo della coscienza che sta tra la memoria primaria della fotografia, in quanto “circuito rientrante” del vedere attraverso lo specchio (come potrebbe dire Sartre prima di R. Barthes e di R. Krauss) significa ricostruirlo e decostruirlo. La fotografia delle persone esiste solo in serie, di fronte ad uno specchio che riproduce all’infinito l’immagine. Se l’inferno di Huis Clos (A porte chiuse, opera teatrale del 1944-47) è per Sartre un mondo senza specchi, in cui ognuno, reificato, subisce lo sguardo dell’altro, la riproduzione di esemplari insignificanti toglie ogni riferimento, sottrae l’identità: specchio di “condanna a morte” di L. Aragon (Gallimard, Paris 1965), specchio neutro e muto di George Perec, preciso come lo stesso eccesso di informazioni – rughe, pori, peli – respinge l’immaginario e si sottrae all’interpretazione: “Questo riflesso piuttosto bovino, che l’esperienza ti ha insegnato ad identificare come la più certa immagine del tuo volto sembra non avere per te nessuna simpatia, nessuna riconoscenza, come se giustamente non ti riconoscesse, o piuttosto come se, riconoscendoti, si preoccupasse di non mostrarsi sorpreso … Non ha nulla di particolare da dirti”(L’Homme qui dort, Denoël, Paris, 1967, p. 150).

Eulogy, dall’episodio della serie Balck Mirror 7

Da queste poche osservazioni è già possibile concludere che ciò che vediamo, ciò che i nostri occhi vedono “sul” o “nel” cinema non è mai esclusivo e definitivo. La novitas dell’interpretazione è un valore che si può riferire soltanto all’immaginario, e che implica la mediazione del mondo nella sua struttura essenziale. Per questo è stupido confondere la morale e l’estetica. I valori del vedere suppongono l’essere-nel-mondo, concernono i modi di comportarsi nel reale e che di fronte alla vita si assume un atteggiamento estetico significa confondere costantemente il reale e l’immaginario. Accade, tuttavia, che noi assumiamo l’atteggiamento di visione, di ricostruzione e di decostruzione di un film di fronte ad avvenimenti o a specchi reali. In tal caso, ciascuno può constatare in una specie di arretramento rispetto allo specchio contemplato, il quale scivola nel nulla. Gli è che, da quel momento, quello specchio non è più percepito: funziona da “maniera” del proprio analogon, ossia un’immagine irreale di quel che, attraverso la sua presenza attuale, si manifesta per noi nel Black Mirror. Quest’immagine speculare, questo “buco nero mediale” può essere puramente e semplicemente “l’oggetto stesso” neutralizzato, annichilato, come quando contemplo uno specchio molto ben decorato ma ricco di lesioni, di crepe, consunzioni e crateri! Può anche essere l’apparizione schermatica deformata, imperfetta e nebulosa di quel che potrebbe essere attraverso “a quel che è?”. Uno studio sistematico delle immagini di specchi nell’arte dell’800 e soprattutto nel 900 mette in evidenza la frequenza dello specchio vuoto e rotto. Nel tema del “double mirror”, inaugurato dal romanticismo tedesco, si esprimevano le frantumazioni della società, l’esacerbazione dei sentimenti di fronte ai quali il mondo reale perdeva via via la sua importanza e la sua credibilità. Nella rappresentazione dell’Io scisso, l’altro sguardo, geloso e rivale, costituiva ancora una condizione della soggettività, e l’opera d’arte fondata sull’esistenza di un doppio simmetrico e brillante, assicurava la possibilità di una riflessività, di una armoniosa o dolorosa immagine di pulsioni contraddittorie. Il rapporto con lo schermo di Black Mirror può rivelarsi vuoto e mortale, ma inizia sempre con la seduzione della Sci-Fi, poiché esso fonda il suo incanto in quell’altrove del paradiso che è il mondo dell’AI e della realtà virtuale. L’immedesimazione dello spettatore, favorita dall’impianto teatrale dell’episodio e dall’interpretazione di Paul Giamatti è molto penetrante e inoltre insiste sull’importanza della funzione fotografica. Per dirla con il piano semiologico tradizionale, le immagini generate dall’IA riescono a simulare l’insieme dei riferimenti che rendono possibile l’interpretazione sociale e culturale dell’immagine fotografica, pur mancando del centro di riferimento dell’immagine e al posto di esso esibiscono una ferita fondamentale che muove lo spettatore in maniera più profonda e personale. La fotografia viene usata come test di evoluzione della realtà di relazione e come paradigma generativo di riferimento. L’AI è parte integrante della fotografia e l’ha già radicalmente cambiata. Eulogy, in maniera strisciante all’interno della trama, fa trasparire che la rivoluzione digitale ha radicalmente modificato le modalità della comunicazione, compresa quella fotografica. Milioni di video sono proposti e condivisi sulle piattaforme digitali con un flusso permanente e in aumento. E il contenuto video, soprattutto nell’ambito della vita mediale, è sempre più determinante. La sola immagine fotografica non è più sufficiente. In questo oceano di fotografie digitali, si allarga infatti la domanda di immagini di qualità organizzate in narrazioni significative, capaci di descrivere piccole e grandi storie, accendendo i riflettori su fenomeni globali o sulla vita di singole comunità locali. Philip non riesce a ricordare il volto di Carol, l’unica donna che abbia mai amato nella sua vita, e quindi gli viene suggerito in maniera insistente di usare i “ripostigli di foto”. La notizia della sua morte lo lascia interdetto e lo destabilizza, procurandogli un turbamento iconico rispetto ai processi di riconoscimento. Non aveva più avuto sue notizie, volutamente. Aveva tentato in tutti i modi di dimenticarla, per quindici lunghi anni, affrontando lo spettro della depressione e la dipendenza da alcool. Carol, con pochi anni di frequentazione e di relazione, gli aveva distrutto la vita e Philip era rimasto un essere umano solo, zeppo di tormenti. Sebbene inizialmente lo spettatore tenda ad empatizzare con il protagonista, man mano che Philip rivive i ricordi, iniziano a delinearsi tonalità fotografiche contraddittorie al suo punto di vista. Philip è una vittima, ma forse non così tanto vittima. Non era mai riuscito a vedere, o non voleva vedere, dei segnali evidenti di un malessere o una richiesta d’aiuto, da parte di colei che amava più di ogni altra cosa. Ma l’amore è un sentimento che rende fragili, incapaci, dubbiosi. Talvolta ciechi, spesso egoisti. Vorremmo amare come siamo amati e viceversa. È un fuoco che brucia ma se non alimentato bene, con sani e giusti principi, difficile da contenere. Il passo che porta dal calore alla devastazione è breve. Roland Barthes in Frammenti di un discorso amoroso, alla voce atopos, dopo aver ricordato che questa è la qualifica attribuita a Socrate dai suoi interlocutori, afferma:“ La maggior parte delle ferite d’amore me le procura lo stereotipo: io sono costretto […] ad esser geloso […]. Ma quando la relazione è originale, lo stereotipo viene sconvolto, superato, evacuato, e la gelosia, ad esempio, non ha più luogo d’essere in questo rapporto senza luogo […]”. Amore è carenza e audacia, è scarsa resistenza e tormento, è immediatezza e intelligenza. Esso risulta essere un’armonia di contrari, un ossimoro esistenziale che decide della vita di ogni persona. Amare è crescere insieme, nel tempo e, come dice Socrate nel Simposio, saper transitare dall’amore per ciò che pensiamo – soprattutto dal punto di vista estetico – all’amore per ciò che siamo veramente dentro, con gli abituali difetti, con le singolari angosce e con tutto ciò che non piace forse neppure a noi stessi. Per fare tutto questo, non basta concepire la libertà solo in termini di positività o negatività. È necessaria anche la libertà, quella che sa andare oltre le affermazioni e gli ostacoli – che non sempre possono essere eliminati in modo semplice – e sa scegliere nonostante tutto. L’amore è la risposta alla domanda: “Per chi sono io?”. Non a caso, l’amore è da sempre la denominazione di tutto ciò che supera la concezione di ciò che vediamo in fotografia, che sentiamo in quel determinato ricordo ma che si avvicina all’immagine di ciò che è stato. E, proprio come fa Dio, per amare per davvero bisogna imparare a non piegarsi alla morte! E, forse, potrebbe essere proprio la libertà l’espressione più autentica dell’equilibrio dell’amore. Che si tratti di amore santo o fatale, solo chi ama veramente conosce l’effettivo valore dell’emancipazione, spada di Damocle di ogni autentica relazione. L’elemento subdolo, se così vogliamo chiamarlo, risiede nei piccoli dettagli. È dapprima qualcosa di invisibile, una vibrazione latente in qualche parola, gesto o reazione. Ma se trascurata, quella vibrazione assume intensità sempre più forti, si trasforma e nel corso del tempo diventa un groviglio estremamente complesso da slegare.

Eulogy, dall’episodio della serie Balck Mirror 7

2. La storia tra Philip e Carol in Eulogy non fa eccezione. Philip non riesce a rammentare il volto di Carol, non è presente nei suoi ricordi. Ogni momento legato a lei, rivivendolo sotto la guida dell’’AI, lo porta a interrogarsi su alcuni dettagli di cui lui non aveva memoria. Perché Carol aveva un anello al dito? Perché appare di spalle? Queste e altre mille domande con cui Philip è costretto a dialogare per andare a fondo. Non solo nella storia con lei, ma con sé stesso. Ne esce un quadro sempre più sfaccettato nel quale il protagonista passa da vittima inattiva ad artista attivo, incapace di comprendere le reazioni ai suoi stessi atteggiamenti. Non è l’odio e l’amarezza verso la sua ex fidanzata ad avergli causato la perdita di memoria. Il volto di Carol è vivo dentro di lui, ma per poterlo percepire, deve fare uno fatica psicologica notevole. Un pensiero che si confronta con l’infinito desiderio d’infinito amore e si scontra con la finitudine dell’esistenza, limitata nel tempo e nello spazio. Scriveva Rilke: «Non vi lasciate ingannare dalla superficie; nelle profondità tutto diventa legge». Questo significa che l’amore può essere vissuto e sperimentato concretamente anche senza la presenza fisica dell’amato, nella propria profonda interiorità, poiché solo lì vi è l’eterna sorgente dell’amore; quell’amore che trascende anche la morte.

L’amore non solo eccede la morte, ma eternizza la vita. Nell’interiorità abbiamo la possibilità di coltivare l’amore per le creature, sperimentando l’eternità indissolubile di questo legame. L’amore per una persona cara è la bellezza senza fine di un fiore i cui petali mai avvizziscono, perché eternamente coltivati, riparati e protetti nella propria intima interiorità, all’interno della quale tutto viene conservato assumendo i contorni ontologici dell’essere eterno.

Pervenire a una simile, profonda consapevolezza, richiede un quotidiano e paziente esercizio interiore, che non può mai dirsi completo e raggiunto. Proprio per questo, di fronte all’enigma della morte, Phil si trova al confine fra l’abisso del nulla, il nichilismo e l’eternità dell’essere che si fonda nell’amore che non ha mai fine. Attivare quell’unico sforzo che in quindici anni si era negato: cambiare lo spessore di penetrazione della memoria. Più si va a fondo e più si comprende la complessità dei due personaggi e l’atmosfera agrodolce che accompagna la loro storia, fino al suo epilogo. Ma cos’è davvero un epilogo? Un punto. Una linea divisoria che separa due realtà. Ma le realtà sono interpretabili così come gli eventuali sviluppi che vogliamo dare a quella divisione? Dopo un punto si può concludere una frase, un periodo, un libro. Ma immediatamente dopo, ricominciare a scrivere. Non farlo, è una scelta. Ed i motivi, possono essere i più disparati. Metafore a parte, in una storia d’amore, a farla da padrone molto spesso è l’incapacità di mettersi nei panni altrui e la sopraffazione dell’emotività. Un tornado in grado di distruggere ogni ulteriore sviluppo dopo quella netta linea divisoria. Si passa in poco tempo alla mancanza di comunicazione e successivamente all’incomprensione. E, come nel caso di Philip e Carol, la fine di un grande amore reciproco, finito per miopia e incomprensione. Eulogy è un episodio ingegnoso e intimamente drammatico, che culmina in uno dei finali più potenti dell’intera storia di Black Mirror. L’alterità sorpresa allo specchio non è solo un doppio estraneo e sconosciuto, ma un’immagine che, escludendo il soggetto fotografico e il ricordo di essa, lo priva per tutto lo svolgimento della storia della possibilità di essere lo stesso. De-siderio trae la sua origine dalla parola greca sidus, che è tradotto con stella o costellazione, termine che deriva dal linguaggio di navigazione. De è un prefisso privativo per indicare l’assenza e quindi la mancanza. 

Eulogy, dall’episodio della serie Balck Mirror 7

La scena centrale di Eulogy rappresenta un difficile tuffo nel fotografico AI e in un passato di tre anni di fidanzamento che ci collegano ai nuovi episodi della sorpresa. Questi ricordi personali emergono su di uno sfondo storico, durante il regno dell’analogico fotografico. Nel corso di alcuni ritorni all’indietro o all’interno dell’immagine fotografica stessa, grazie alla Compagnia Eulogy, Phil riscopre un album di ricordi, strati di archeologia familiare e per esorcizzare i segreti del passato, interroga quelle esperienze. Così travestito, corre a guardarsi in una ricomposizione di frammenti di quella storia; inizialmente pigro e indifferente, mentre lo specchio fotografico non rimanda alcun volto di lei, Phil si avvicina sempre di più al “verbale riflettente”, fino ad animarsi e dal fondo delle sue torbide acque emerge una cosa molto sorprendente, strana, tutt’altro che chiara, rispetto a ciò che si sarebbe potuto pensare. Nel fondo della documentazione fotografica, come in fondo ad uno specchio AI che è ormai attivo e totalmente presente su di lui, Philip cerca qualcosa che riguardi l’origine della relazione con Carol, ma lungi dal leggere una somiglianza o un fondamento, si scopre doppio amante e doppio oggetto di desiderio. Nel cuore delle immagini terminali di Eulogy arriva la scoperta più amara: Carol aveva avuto una bambina da un rapporto occasionale con un componente della loro band, poco dopo aver scoperto che Phil l’aveva tradita. Quando lui le chiese di unirsi in matrimonio, lei non trovò l’audacia di replicare. Non per mancanza d’amore, ma perché il peso dell’intimità e della riservatezza la paralizzava. Phil comprese il silenzio come un congedo, e se ne andò per sempre. Quello che non aveva appreso è che Carol gli aveva lasciato due righe scritte, nascoste in una camera e fotografate per caso. Le trova tardi, ma abbastanza per scoprire che lei non era scappata: lo stava attendendo in altro luogo, pregandolo solo di farsi vedere. Lui non lo fece, avviando la fine tragica. E c’è un altro dettaglio, tanto sottile quanto spiazzante: l’intelligenza artificiale che lo ha accompagnato nel viaggio nei ricordi non è una fotografia generica, non è neutra, ma si tratta di un’intelligenza generativa e caratterizzante. È stata programmata seguendo proprio il carattere e i tratti della figlia di Carol, quella figlia che Phil non ha mai conosciuto. Una guida invisibile, inevitabile, quasi angiolesca, presente da sempre, che lo ha aiutato a capire, senza averlo appreso, chi aveva perso. Ma è sempre possibile distinguere tra un momento favorevole e uno luttuoso? É sempre possibile, anzi, è sempre intelligente attendere la venuta di un attimo migliore? E se il tempo opportuno non avesse a che fare tanto con la riuscita dell’azione, quanto più con l’obbligatorietà del tentativo? Agire significa anche fare i conti con la possibilità di un esito inatteso, con la forza dei nodi che il tempo tesse attorno alla vita umana: significa anche rischiare qualsiasi cosa, abbandonare ogni misura di cautela. L’amore pare essere il configurarsi di questa situazione in cui non tutto è calcolabile, non ogni rischio è prevedibile, anzitutto per l’insondabilità della persona coinvolta che nel gesto d’amore si mette a tema. È l’amore un che di inatteso e ciò che si sa dell’inatteso è che necessita accostarsi, spostarsi incontro, per sperare di saperne qualcosa. Saperne qualcosa, sentirne un qualche sapore. Al funerale, tutti usano il dispositivo per rivedere Carol. Tutti tranne lui. Phil arriva con lo sguardo finalmente lucido, libero, senza più bisogno di figure filtrate. E in mezzo a quella folla di occhi rivolti altrove, incontra proprio lei: la bambina di Carol. Anche lei non ha nessun device a connetterla. I loro occhi si intrecciano ed è lì che Black Mirror finisce di guardare nell’immagine oscura e tenebrosa e lascia distillare il barlume di luminosità. Il sistema è pensato per rendere ogni esequie un’esperienza unica e permette ai vivi di rivivere letteralmente le fotografie dei defunti: non semplicemente guardarle ma entrarci dentro e camminare tra i ricordi. Anche qui, ciò che inizia come un omaggio alla memoria diventa presto qualcosa di più profondo. Soprattutto una meditazione sulla perdita, sull’importanza del ricordo e su quanto poco conosciamo davvero le persone che abbiamo amato. Altri specchi presentano a Philip il loro versante luminoso. Nello specchio delle fotografie conservate, il vuoto mortale diviene promessa e fonte di rarità. Philip, afferma sempre la voce dell’AI, fa dello specchio fotografico un rapporto con l’assenza; lo specchio offre esattamente questa sospensione di essere, paragonabile all’assenza: “Specchi, nessuno mai coscientemente/ ha descritto la vostra vera essenza./Voi, intervalli del tempo, crivelli fitti d’innumerevoli buchi” (da Sonetti a Orfeo, 1922). La poesia di Rilke, qui citata, come lo specchio di Eulogy, ristabilisce l’attività simbolica e, lungi dal risolvere il dilemma di Philip e Carol che si osserva tramite l’AI, si nutre della possibilità di essere “nuova memoria”. Il nulla del vuoto è anche il tutto, il sempre, dalle infinite virtualità.

3. Epilogo sulla fotografia, il cinema e la televisione: Lo sceneggiatore trova nell’immagine fotografica uno specchio della realtà molto nitido, in grado di offrigli molte possibilità in più, durante la fase creativa, di quelle che potrebbe trovare affidandosi ad un blocco d’appunti o alla memoria fisica. In quest’ottica, la fotografia diventa memoria artificiale con caratteristiche sintetiche di realismo digitale, tali da facilitare l’opera di trasposizione da parte dell’autore. Giungere alla descrizione di un personaggio, caratterizzandolo con l’algoritmo dell’atmosfera presente, collocarlo nel suo autentico ambito sociale come ha fatto Eulogy, ricostruire attraverso Paul Giamatti è certamente un’operazione “videovisiva” più immediata e facilmente realizzabile e si considerano le possibilità di realismo offerte dall’immagine. L’autore della scrittura televisiva viene così a trovarsi in una posizione che mette in continua discussione le autentiche istanze di realismo riconosciute alla fotografia. L’ambiguità dell’immagine processata nella funzione algoritmica e generativa è più che mai evidenziata, quando l’autore di una scrittura come Eulogy si serve solo di alcune caratteristiche di un soggetto, ottenendo così un personaggio costituito da più elementi (naturalmente fisici), tali da renderlo irriconoscibile nella sua sede primaria. In casi come Eulogy, la fotografia trova un’altra delle tante possibilità di strumento d’appoggio che sono state un po’ la sua effettiva forza per molti anni di autentica crisi di identità. In sostanza, vorremmo ricordare a J. Fontcuberta che la questione di R. Barthes non è legata “all’indice sì o all’indice no?”: l’essere considerata ancella delle arti è certamente uno dei massimi limiti che la fotografia ha incontrato nella sua ascesa e che J. Fontcuberta ripropone con la sua buffonesca litania del post-fotografico (ovvero con la morte stessa del mezzo e della storia). La riflessione di Pierce, ripresa poi da Rosalind Krauss (nota sulla rivista “October” del 1977), non è tanto indicale nelle opere post-duchampiane e della neo-avanguardia ma in autrici ed autori importanti come B. Abbott, A. Adams, F. Bruguière, W. Bullock, H. Callaghan, H. Cartier-Bresson, A. Langdon Coburn, R. Demachy, P. H. Emerson, R. Frank, D. Lange, L. Moholy-Nagy, M. Ray, H. P. Robinson, A. Svegel, A. Siskind, H. Holmes Smith, W. Eugene Smith, E. Steichen, A. Stieglitz, P. Strand, E. Weston, M. White!  È proprio il parere di R. Krauss che riconduce la fotografia a “nuova ancella delle arti belle” o a quando Baudelaire, nel 1859, ne individuava il rifugio dei pittori mancati, collocando la neo-tecnica dei sali d’argento in una posizione subalterna che ne ha accompagnato l’evoluzione, ed è servita ad inserirla tra una serie di operazioni periferiche al contesto artistico.

Eulogy, dall’episodio della serie Balck Mirror 7

Forse la funzione che più di ogni altra caratterizza i sistemi intelligenti è quella simbolica e non è un caso che proprio sulla capacità di elaborare simboli e immagini si basi da una parte l’analogia tra le macchine intelligenti e l’agire generativo delle macchine fotografiche di oggi. Parafrasando Roland Barthes, attraverso lo sguardo dello sceneggiatore di Eulogy: “nella fotografia del film televisivo, nella fiction io non posso mai negare che una qualche cosa di quella storia, di quella ricostruzione è stata là … ciò che io intenzionalizzo in una foto (…) non è l’arte e neppure la comunicazione, ma la referenza, che è l’ordine fondatore della fotografia”. Il nome del Noema della fotografia sarà quindi: “È stato”; perché “da un corpo reale che era là, di Paul Giamatti, sono partiti dei raggi nel cuore di Eulogy (il quinto episodio della settimana stagione di Black Mirror) creando un punctum sostanziale ed indicale del film. C’è un momento di Eulogy in cui il flusso visivo si stacca completamente dalla tecnologia per entrare nello spazio emotivamente analogico che sottolinea Roland Barthes nella Camera Chiara e Sartre in L’Imaginaire(1940), un momento metaversuale crudo e senza filtri.  È il monologo di Phil, interpretato per l’appunto da Paul Giamatti, una persona che ricorda una delle serate più importanti (e dolorose) della sua vita: il fallimento di una proposta di matrimonio. A livello narrativo, è un interludio emotivo, una confessione intima che non ha bisogno di effetti speciali, né di colpi di scena. Qui Brooker scrive con un doppio registro completamente sintonizzato con la direzione della fotografia e con l’oggetto fotografico disseminato nella trama: niente concetti sci-fi, niente esaltazioni di intelligenze artificiali o distopie digitali, ma la fotografia del dato – non come strumento d’appoggio e basta, privandola così delle sue possibilità estetiche che certo non sono trascurabili -, inerpicato nell’interscambio generativo e neo-moderno della fotografia e della storia. Eulogy è un episodio barthesiano che ruota attorno alla fragilità della memoria, e questo monologo “riconoscitivo” (uso il termine qui alla Axel Honneth) è la dimostrazione perfetta di quanto i ricordi siano più legati alle emozioni che ai fatti (proprio come la foto della madre di Roland Barthes). Un racconto fotografico in movimento che parte come una riflessione sul lutto (qui rivedi il concetto di fotografia per Barthes), ma vira verso un territorio doppio, penetrato dalla domanda tautologica sul futuro dei mezzi mediali, si risistema come tentativo di “presa diretta”: quello della memoria falsata e, contemporaneamente illusione e trascrizione dell’autentico. Paul Giamatti è veramente efficace nel dare voce “ad una maschera che esce fuori dalla maschera” e che contemporaneamente gioca sulla soglia della realtà e della finzione. mentre lo spettatore viene lentamente spinto a dubitare della verità di quei ricordi. Cosa ricordiamo davvero quando osserviamo con attenzione la documentazione fotografica della nostra amata? E cosa invece la fotografia ci aiuta a ricordare per proteggerci? La foto si fa strumento laterale per interrogare la soggettività della memoria e l’illusione terapeutica della tecnologia, un limite attivo che, tradotto nelle ragioni fittizie di J. Fontcuberta, fa sembrare tutto una raccolta di polvere: i suoi libri, le sue «stesse accuse» a Barthes e le “condizioni dell’indice” come ironia volgare e manierista, verso la semiotica e la linguistica!

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