Alfonso Siracusa Orlando

Alfonso Siracusa Orlando. Deactivate / Disinnescare 2025

È visitabile a Gela fino all’08 giugno presso il Padiglione OFF del Civico 111, a cura di Danilo Samuele Mendola, la mostra “Deactivate / Disinnescare” (2025) di Alfonso Siracusa Orlando, artista contemporaneo noto per affrontare tematiche legate al complottismo, alla manipolazione mediatica e alla percezione della realtà. Le opere di Siracusa Orlando spesso includono riferimenti simbolici, linguaggi criptici e critiche alle élite. Lo abbiamo intervistato per SegnOnline.

Iniziamo dal titolo. “Deactivate / Disinnescare” è una frase forte e diretta, che di solito si usa per le bombe. A cosa ti riferisci? Quali “meccanismi” o “percezioni” intendi neutralizzare?

“Deactivate / Disinnescare” è una parola carica di tensione e ambiguità, proprio come i soggetti delle opere presenti in mostra. L’ho scelta perché richiama l’urgenza e la responsabilità di agire su qualcosa di potenzialmente distruttivo: un ordigno, ma anche un’idea, una narrazione, un simbolo.
Mi riferisco ai meccanismi mentali, emotivi e sociali che si attivano in modo automatico, quasi esplosivo, in risposta a stimoli esterni: paure, giudizi, dinamiche di potere, condizionamenti culturali. Tutti quegli schemi reattivi che ci portano a comportarci secondo abitudini che non ci appartengono davvero, ma che ci sono state inculcate o imposte.
In questo contesto, “disinnescare” non si riferisce solo a un gesto fisico, ma a un’azione concettuale. Intendo neutralizzare l’aura mitica che avvolge certe figure e avvenimenti — Trump, le Torri Gemelle, Elon Musk, Obama, la Regina Elisabetta. Sono icone, archetipi contemporanei che il sistema mediatico ha trasformato in simboli assoluti. 
Ma ogni simbolo, se cristallizzato, può diventare pericoloso: impedisce il pensiero critico, anestetizza la complessità.
Desidero “disattivare” i meccanismi della venerazione automatica o del rifiuto cieco, che spesso ci vengono imposti. Rimetto queste figure in discussione, tolgo loro il piedistallo, le restituisco a una dimensione più umana, fallibile, ironica a volte. Cerco di disinnescare la retorica, non la memoria. Non è una cancellazione, ma una riappropriazione critica.
In fondo, disinnescare è un atto di cura: lo fai per evitare l’esplosione, per creare spazio al dialogo, per salvare. Quindi non parlo solo di percezioni, ma anche di strutture interiori e collettive: credenze, ruoli, narrazioni. Disinnescarle è il primo passo per trasformarle.

Il curatore, Danilo Samuele Mendola, parla di un focus sulla rielezione di Donald Trump e su una sua ipotetica e “volutamente ambigua” alleanza con Elon Musk. Pensi davvero che il potere sia così tracotante da mostrarci senza timore il suo volto reale?

Sì, penso che oggi il potere abbia smesso di nascondersi dietro le maschere di un tempo. Non perché sia diventato più onesto, ma perché è diventato più sicuro di sé — o meglio, più arrogante.
L’ambiguità a cui fa riferimento il curatore non è solo un espediente artistico o narrativo, ma una strategia del potere stesso. Oggi il potere gioca con l’ambiguità, la usa come strumento per disorientare, saturare l’attenzione e rendere difficile distinguere il vero dal falso, l’intenzione della provocazione. (N.d.A. Raiufo 1999)
Il volto del potere non è più nascosto: è ovunque, esibito, instagrammato, trasformato in meme o in brand. Trump e Musk sono due figure-simbolo di questa trasformazione: entrambi mescolano politica, spettacolo, impresa e culto della personalità in un ibrido che è insieme familiare e perturbante.
La mia risposta come artista contemporaneo — e politica — non è un’accusa diretta, ma una riflessione su questo nuovo modo di esercitare il controllo: non più con la censura, ma con l’eccesso di esposizione; non più con la repressione, ma con la seduzione. E in questo contesto, disinnescare significa anche smettere di essere spettatori passivi di questo teatro.

In una intera stanza hai realizzato un’installazione site specific “Dream” (2025). Trump riposa – anzi dorme: in sottofondo si sente russare – in una specie di obitorio sotto il vessillo della bandiera americana, come un soldato caduto in battaglia. Il sogno imperiale è definitivamente tramontato o il bell’addormentato è il vero Trump, mentre qualcun altro governa al suo posto?

L’immagine di Trump in una stanza simile ad un obitorio, con la bandiera americana sospesa è volutamente ambigua — come un “sogno lucido” che non si capisce se sta finendo o appena iniziando.
Il suono del russare è una scelta deliberata e carica di significato. È un suono intimo, quasi comico, ma anche profondamente disturbante quando lo si ascolta in loop, fuori contesto. Quel suono, insistente e ipnotico, disinnesca le aspettative, interrompe l’automatismo percettivo, mette il pubblico in uno stato di leggera inquietudine. Il percorso della mostra inizia proprio da quella stanza nell’attesa, nel non capire subito.
Salire le scale dopo aver ascoltato quel suono è come attraversare una soglia — dall’ordinario al simbolico, dal reale all’allucinatorio. E in questo passaggio si apre lo spazio per una nuova visione.
In questo caso, è il primo segnale che qualcosa non va. Il pubblico si trova prima ancora di vedere, a sentire, a essere immerso in un’atmosfera sospesa tra veglia e sonno. Il russare diventa una metafora collettiva: siamo tutti in uno stato di dormiveglia, assuefatti, spettatori di un mondo che cambia mentre noi restiamo immobili, anestetizzati.
E poi c’è la tua domanda, con i suoi sensi impliciti: chi sta dormendo, davvero? È Trump? È l’America? O siamo noi, incapaci di reagire, mentre tutto attorno si trasforma?
Nel frattempo, qualcun altro — o qualcos’altro — governa: algoritmi, conglomerati tecnologici, narrative virali, logiche di mercato che non hanno più bisogno di un volto unico per esercitare controllo.
Quindi no, il sogno imperiale non è finito. È semplicemente entrato in fase onirica profonda, dove tutto è più sfocato, e proprio per questo più pericoloso.

In “White Obama & Obsama” (2013) il profilo delle due figure si confonde… Aggiungendo appena una lettera il risultato non cambia?

Esattamente, White Obama & Obsama gioca proprio su questo slittamento sottile, linguistico e visivo. Aggiungere una sola lettera — da Obama a Obsama — non produce una vera frattura, ma genera confusione. E quella confusione è il cuore del mio lavoro.
Il profilo delle due figure che si sovrappongono suggerisce che i confini tra nemico e salvatore, tra l’Occidente civilizzato e l’Altro minaccioso, non sono poi così netti come vogliamo credere. Anzi, spesso sono costruiti proprio per alimentare narrazioni binarie che rassicurano, ma non spiegano.
La differenza tra i due nomi è minima, quasi impercettibile, ma il carico simbolico è abissale. Eppure, il fatto che basti così poco per scivolare da un’immagine all’altra rivela quanto siano intercambiabili le icone del potere e della paura, soprattutto quando mediate dai media, dalla propaganda, dalla percezione pubblica.
Quel lavoro, già nel 2013, anticipava una riflessione oggi più urgente che mai: quanto contano davvero i volti? E chi decide cosa rappresentano? Forse il vero potere non sta più nella differenza, ma nella confusione programmata. In quella zona grigia in cui tutto sembra uguale, e nessuno è davvero responsabile.

La mostra mette in discussione “l’autorità dell’immagine, la costruzione mediatica del mito e l’ambiguità della memoria collettiva”. In un’epoca di deepfake e sovraccarico informativo, come si posiziona il tuo lavoro rispetto alla ricerca di una “verità” o, al contrario, all’accettazione di una realtà intrinsecamente manipolata o fittizia?

Deactivate non cerca di offrire una verità, ma di creare uno spazio per dubitare. In un’epoca in cui l’immagine ha perso la sua presunta innocenza — in cui ogni volto può essere ricreato, ogni voce simulata, ogni evento remixato — l’idea di una verità stabile è diventata quasi un feticcio.
Il mio lavoro si muove in quella zona di instabilità, dove l’immagine, l’opera non è più documento, ma interrogazione. Non mi interessa dire “cos’è vero”, ma piuttosto chiedere: perché crediamo a certe cose? Perché vogliamo crederci? A chi serve questa narrazione?
L’autorità dell’immagine, un tempo sacra o iconica, oggi è spettacolo, loop, illusione preformata. La mia pratica non si limita a denunciare: lo prende in prestito, lo imita, lo forza fino al punto di rottura, per mostrare le crepe.
La mostra non propone un ritorno nostalgico alla verità, ma un invito a disinnescare il bisogno stesso di certezze immediate. Invece di cercare autenticità, forse dobbiamo imparare a muoverci con lucidità dentro la manipolazione, a riconoscere i dispositivi che ci formano, ci emozionano, ci controllano.
In questo senso, Deactivate è un atto di resistenza. Non contro la finzione, ma contro la sua naturalizzazione. Non contro l’immagine, ma contro il suo abuso come verità.

Il confine “tra politica, business e spettacolo” nelle tue opere si fa “evanescente”: è una constatazione del presente o anche un monito? E l’arte, in questo scenario, che ruolo può giocare?

Sono entrambe le cose: una constatazione e un monito. Il confine tra politica, business e spettacolo oggi è non solo evanescentema deliberatamente cancellato
Le stesse figure che determinano scelte economiche o geopolitiche sono anche brand, influencer, meme. Governi che comunicano come aziende. CEO che parlano come capi di Stato. Leader politici che si comportano come star della TV.
Le mie opere non cercano di denunciare moralisticamente questo stato di cose — sarebbe ingenuo — ma di renderlo visibile nel suo paradosso. Mostrare l’assurdo, esporre l’intreccio, portarlo al limite. In questo senso è un monito, sì: perché quando tutto è spettacolo, anche la tragedia diventa intrattenimento.
E l’arte? In questo scenario l’arte può non credere. Può rifiutare il ruolo di decoro o di commento. Può diventare interferenza, intralcio, corto circuito.
L’arte non ha il compito di fornire risposte rassicuranti, ma di disattivare automatismi, smascherare la retorica, sabotare l’estetica del potere quando questa si traveste da verità.
In un sistema dove tutto è contenuto, l’arte può ancora essere contenuto che resiste, che disturba, che non si lascia consumare facilmente. Un punto cieco. Un rumore fuori campo. Una domanda senza algoritmo.

La mostra si tiene a Gela, al Padiglione OFF del Civico 111, all’interno di progetti di rigenerazione culturale come “Abbiamo tutto Manca il resto” e “Ué – Eventi Urbani”. Come si relaziona il tuo lavoro, che affronta temi di portata globale, con questo specifico contesto e con l’idea di riqualificare il centro storico di una città?

Questa relazione è fondamentale. Deactivate non è stata pensata per “calarsi dall’alto” in un luogo, ma per risuonare con le sue tensioni, le sue memorie, le sue contraddizioni.
Gela è una città emblematica: ha la sua storia e conosciuto il sogno industriale e la sua fine, l’abbandono e ora una nuova spinta dal basso. È uno di quei luoghi dove la parola “rigenerazione” non è slogan, ma necessità concreta. Ed è anche un luogo che, come tanti, è stato rappresentato più che ascoltato.
Portare qui un lavoro che parla di potere, immagine e manipolazione globale significa mettere in relazione due scale: la macro-narrazione mondiale — fatta di leader, media e simboli — e la micro-realtà di un territorio che cerca di riprendersi il diritto di raccontarsi da sé.
In questo senso, la mostra Deactivate è tutta un’installazione site specific, ma anche un intervento nello spazio urbano della percezione. S’inscrive in un processo di rigenerazione che non riguarda solo muri e piazze, ma anche immaginari, sguardi, linguaggi.
I progetti: “Abbiamo tutto Manca il resto” di Farm Cultural Park e “Ué – Eventi Urbani” del Civico 111 mostrano che l’arte può essere motore di consapevolezza e riappropriazione. Il mio lavoro si inserisce in questo flusso, con la consapevolezza che ogni riflessione sul potere deve partire anche da dove manca, da ciò che è stato escluso, dimenticato, disinnescato.
Per questo Gela non è sfondo, ma parte attiva della mostra. Non è un caso, è un segnale.

C’è un aspetto di “Deactivate / Disinnescare” che senti particolarmente urgente o un messaggio chiave che speri arrivi al pubblico di Gela e ai lettori di “SegnOnline?

Sì, c’è un aspetto che considero profondamente urgente: la necessità di recuperare uno sguardo critico, vigile, non anestetizzato.
In un’epoca in cui veniamo bombardati da immagini, suoni, notizie e stimoli continui, la vera forma di resistenza oggi è l’attenzione consapevole. “Deactivate / Disinnescare” invita proprio a questo: non reagire in automatico, ma fermarsi, ascoltare, guardare davvero.
Spero che il pubblico di Gela — così come chi leggerà questa intervista su “SegnOnline” — colga questa urgenza non come una teoria astratta, ma come qualcosa che riguarda la vita quotidiana: il modo in cui scegliamo cosa credere, a chi dare fiducia, come partecipare o disinnescare rispetto al mondo.
Il messaggio chiave è semplice e difficile insieme: disinnescare non è fuggire, è un atto di responsabilità. È scegliere di non essere complici della narrazione dominante, è recuperare la possibilità di pensare con la propria testa, anche nel rumore.
In un luogo come Gela, dove il passato e il futuro si sfiorano in ogni angolo del centro storico, questo messaggio assume una forza ancora più concreta: disinnescare è anche ricostruire. Non con le illusioni, ma con nuove visioni. E magari, da lì, ripartire.

A cosa ti stai dedicando, a cosa ti dedicherai?

Attualmente sto lavorando su una serie di sviluppi che prendono forma proprio a partire da Deactivate, come se questa mostra fosse solo l’innesco — o meglio, il primo tentativo di disinnesco.
L’idea di una mostra più ampia, dedicata interamente alla figura di Trump e a ciò che rappresenta, non solo è in cantiere, ma la considero sempre più necessaria e politicamente responsabile.
Non si tratta di una personale su Trump, ma di un’esplorazione critica del suo status simbolico, della sua mutazione narrativa e della sua persistenza come archetipo del potere contemporaneo.
In un contesto geopolitico instabile e profondamente mediatizzato, Trump non è solo un presidente: è una struttura, una forma retorica, un virus iconografico. Parlare di lui oggi significa parlare di come il potere si traveste, sopravvive, si replica e si spettacolarizza.
Sto raccogliendo materiali visivi, sonori e documentali che non provengono solo dagli Stati Uniti, ma anche da contesti dove la sua estetica e il suo metodo sono stati assorbiti, imitati o distorti. Il progetto sarà transmediale, ibrido, tra installazione, video, performance e archivio manipolato.
E parallelamente continuo a esplorare — anche con collaborazioni internazionali — come l’immagine politica diventi prodotto, e come l’arte possa rispondere senza cadere nella trappola della celebrazione o della didascalia.
In sintesi: non si può ignorare Trump, ma nemmeno raccontarlo come un semplice personaggio. Serve uno spazio critico più ampio, più stratificato, più inquieto. E io voglio contribuire a crearlo.

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