Dentro e Fuori il Lavoro UNIFORM la mostra del MAST

UNIFORM INTO THE WORK/OUT OF THE WORK comprende una mostra collettiva sulle divise da lavoro nelle immagini di 44 fotografi e un’esposizione monografica di Walead Beshty

A poco più di un mese dall’inaugurazione di UNIFORM Into the work/Out of the work, la mostra della Fondazione MAST di Bologna, mitigato il tempo del primo art-week italiano, anche alla luce dei recenti fatti che hanno visto il territorio emiliano al centro della cronaca e subire una battuta d’arresto proprio sul fronte lavoro, a causa dell’emergenza Corona Virus, riportare l’attenzione su questa interessante mostra pare quanto mai calzante. L’incentivo e il messaggio sotteso che si vuole lanciare con questa recensione muove tanto nella direzione di una riflessione sul tema del lavoro che, come abbiamo visto nelle ultime settimane, è essenziale e centrale nell’economia e nella vita dell’uomo, quanto in quella di un incoraggiamento ad una tappa nella città Felsinea. Fra le più belle e interessanti mostre del momento, per visitare UNIFORM ci sarà tempo fino al 3 maggio 2020. 

UNIFORM Into the work/Out of the work del MAST è una di quelle mostre che meritano veramente di essere viste, non solo mi auguro da chi l’arte la frequenta, ma da chiunque. Entrambi gli spaccati, sia quello dedicato alla Divisa da lavoro nelle immagini di 44 fotografi, sia la monografica Ritratti Industriali di Walead Beshty, curate da un magistrale Urs Stahel, pongono interessanti questioni etiche e antropologiche sul rapporto tra lavoro e libertà. A ben vedere si potrebbero citare diversi autori che, sulla dimensione sociale, hanno rappresentato il cardine di tale legame. Si pensi a Max Weber o Michael Walzer, si pensi a Marx e a tutte le declinazioni da lui sottolineate sulla dignità del lavoro e più in generale sulla sua umanità, o alle definizioni contrarie di Shopenhauer che, nel valutare “vantaggio inestimabile il vivere senza lavorare” sottintendeva il lavoro come non essenziale per l’umanità. Senza dilungami troppo in tali questioni, UNIFORM oltre ad offrire un’eccezionale visione di storia del costume, presenta l’occasione di penetrare in modo approfondito la più autentica verità sul cosiddetto “secolo dell’homo faber” (A. Tilgher, 1929), quello che meglio ci rappresenta, quello che sulla centralità del fare, sulla pervasività della produzione, ha concretamente ridisegnato l’etica del lavoro e la sua società fino ai nostri giorni.

UNIFORM Into the work/Out of the work. Divisa da lavoro nelle immagini di 44 fotografi

È possibile intraprendere percorsi diversi per altrettante letture della mostra. Ogni singola fotografia o gruppo identifica da un lato un preciso periodo storico, che va dall’inizio del XX secolo ai giorni nostri, mostrando in tal senso evoluzioni di stile e di moda ma anche di approccio all’abito del lavoro. Un criterio che, al contempo, evidenzia anche il valore simbolico trasferirsi in quello comportamentale dei soggetti ritratti, a loro volta espressione metaforica e rappresentativa di precise funzioni, “al di fuori delle quali indossare una divisa non possiede alcuno scopo”. Così scriveva l’artista Varvara Stepanova, non a caso citata in mostra per il suo celebre saggio Kostium segodniashnego dnia-Prozodezhda apparso nel 1923 su «LEF» (Levyj Front Iskusstv) rivista del gruppo costruttivista d’avanguardia di cui faceva parte e che si proponeva di guidare il lavoro materialista anche attraverso le creazioni di abiti per il lavoro. È così che cattura subito lo sguardo con un velo di malinconia ma anche sbigottimento per le evidenti e rudimentali condizioni lavorative, lo scatto del messicano Manuel Álvarez Bravo che ritrae nel 1935 una coppia di vigili del fuoco in arcaici abiti protettivi. Foto che, concettualmente, fa da sponda Beauty lies within di Barbara Davatz che, nel 2007, compone un insolito catalogo, usando la fotografia di moda e uno degli slogan della casa d’abbigliamento H&M, per mettere in luce, non tanto i caratteri dei lavoratori dell’azienda quanto quelli identitari dei giovani nell’epoca della globalizzazione e la conseguente estetica espressa dalla non-divisa.

Altra possibilità di lettura della mostra, quella privilegiata anche nell’impaginazione curatoriale di Urs Stahel vede, soprattutto per quel che riguarda la cultura italiana, la diversità fra le parole Uniforme e Divisa. La prima utilizzata come legante, come unificante, per uniformare per l’appunto, la seconda per aspetti divisivi, di frazionamento, di separazione. Al primo filone possiamo riferire il lavoro di Elisabeth Hacspiel-Mikosch e Stefan Haans che nel libro Civilian Uniforms as Symbolic Communication del 2007, lavorando sul tema delle uniformi militari e civili, mette in luce, oltre ad aspetti di appartenenza, anche quelli di rango e competenza. Mostrando dunque come in verità anche sotteso alla dicitura Uniform vi siano sfumature divisorie, generatrici addirittura di conflitti sociali. Iconiche, in tal senso, le sette fotografie di “Oliver”, il giovane francese Oliver Silva ritratto da Rineke Dijkstra durante l’addestramento nella Legione Straniera che mostrano non solo il conflitto sociale fra una condizione precedente a tale esperienza ma anche il cambiamento di carattere subito dall’uomo. 

Più propriamente sul tema della Divisa, della divisione, interviene la distinzione fra “colletti blu” e “colletti bianchi” dove, alle casacche degli artigiani e degli operai delle fabbriche si contrappongono le camicie bianche e le cravatte degli impiegati e/o uomini d’affari. Da sempre le cromie identificano ruoli precisi nel mondo del lavoro. L’importanza del colore in determinati contesti, come quello sanitario ad esempio, è conclamata e necessaria ma la dicitura “colletto” blu e bianco racconta qualcosa di molto più profondo dell’uomo e della sua libertà nel lavoro. Si potrebbe affermare che, quando entriamo in questa catalogazione l’idea d’identificazione con l’occupazione è per paradosso addirittura superata, rispecchiando di converso vere e proprie distinzioni di classe.  Giovane operaia ferraiola in cantiere del 1978 di Paola Agosti, non solo racconta lo status sociale dell’operaia ma anche l’emancipazione del lavoro femminile avvenuta attraverso l’indossare abiti maschili.

Un meccanismo che sconfina nel camouflage nelle due fotografie di Brad Herndon e Hiroji Kubota fino agli esempi più attuali della moda femminile. Nella categoria dei “colletti bianchi” interviene addirittura la storia dell’arte a consolidarne lo status. Ritratto di gruppo dei dirigenti di una multinazionale del 1980 di Clegg & Guttman iconograficamente e iconologicamente prende spunto dalla ritrattistica fiamminga del XVII secolo. Giocando sulla retoricità dello spazio e delle pose – in particolare la luce evidenzia i volti e le mani dei cinque protagonisti avvolti nella totalità del nero – Clegg & Guttman ci indirizzano con certezza alla comprensione di chi sia il capo sebbene non al centro della scena. 

I 44 fotografi di UNIFORM con immagini tratte dalla Collezione MAST e integrate da prestiti offrono, in oltre 600 scatti, uno spaccato unico e raro dei differenti contesti lavorativi e professionali, narrando tutte le sfumature possibili degli obblighi ma anche delle libertà Into the work/Out of the work.

Walead Beshty – Ritratti Industriali

Nella Gallery/Foyer è allestito il progetto monografico di ricerca dell’artista americano Walead Beshty che raccoglie centinaia di ritratti di persone lavorativamente impegnate nel mondo dell’arte. In questo caso ci addentriamo, per l’appunto, in modo più specifico nel settore che ci riguarda da vicino. Quello di Beshty è un progetto che parte da lontano, dagli esordi della carriera e la decisione di ritrarre tutte le persone con le quali avesse lavorato per un certo periodo di tempo, raccogliendo negli ultimi 12 anni 1400 fotografie. Di queste, per la mostra del MAST ne sono state selezionate 364. Diversamente dalla mostra Into the work/Out of the work, Ritratti Industriali– già il titolo la dice lunga – non si focalizza né sull’abito né sulla psicologia delle persone ritratte, tanto meno ha la prerogativa di indurre lo spettatore a un riconoscimento degli individui. Tanto più che ciascuna fotografia aleggia nell’assoluto anonimato, lasciano all’osservatore l’eventuale sorpresa o stupore nell’individuare un amico, un collega, una persona nota dell’ambiente. Facendosi caso, nella didascalia l’unico indizio è dato dal luogo dello scatto ed è proprio questo il vero cuore del progetto di Beshty: ovvero le persone nel proprio ambiente professionale e alla funzione svolta nel mondo dell’arte. In questo narrare per immagini in un certo senso Beshty supera la concezione tutta novecentesca che vede il sovrapporsi della persona alla professione e viceversa e l’impossibilità dell’individuo di svincolarsi da tale percezione. Quello che propone è invece una coincidenza fra ambiente o luogo del lavoro e persona che, lontano da questo, perde di significato assumendone di nuovi in contesti differenti. Per questo le fotografie appaiono standardizzate, o meglio appaiono tali i ritratti stessi, mentre è il circostante a generare l’impressione di unicità. Standardizzato è anche il processo messo in scena dall’artista e la sua totalità presentata in monumentali display che raccontano l’industria dell’arte e la sua ricaduta nel sistema. Ritratti Industriali dunque racconta una serie interminabile di paradossi. Da un lato l’uniformità di un sistema che mostra la propria coesione, i suoi flussi e la sua estetica nella negazione stessa dell’uniformarsi. Più le personalità ritratte tentano di essere originali più l’appiattimento visivo nell’affrancarsi delle immagini è evidente. Dall’altro più i luoghi diventano pregni di significato e più si fa largo un senso di omologazione alle radici stesse del sistema. In conclusione, Beshty, con grande acume e intelligenza propone con i suoi ritratti una sorta di liberazione dai luoghi comuni della produzione artistica e della sua estetica.  

Maria Letizia Paiato

Storico, critico dell’arte e pubblicista iscritta all’Ordine dei Giornalisti d’Abruzzo, insegna Storia dell’Arte presso l’Accademia di Belle Arti di Macerata. Dottore di Ricerca (Ph.D) in Storia dell’Arte Contemporanea, Specializzata in Storia dell’Arte e Arti Minori all’Università degli Studi di Padova e Laureata in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Ferrara, è ricercatore specializzata nel campo dell’illustrazione di Primo ‘900. La trasversalità d’interessi maturata nel tempo la vede impegnata in diversi campi del contemporaneo e della curatela, della comunicazione, del giornalismo e della critica d’arte con all’attivo numerose mostre, contributi critici per cataloghi, oltre a saggi in riviste scientifiche. Dal 2011 collabora e scrive con costanza per Rivista Segno, edizione cartacea e segnonline. letizia@segnonline.it ; letizia@rivistasegno.eu