Un nome , una parola, una città e una voce: che c’entra con la Liberazione? Cosa sono una voce e il suo “Liberato”? Come si può dare a una voce il nome di una cosa, a una canzone che muta, che è sempre diversa? Un voce che è “liberato”, in trappola dal giorno della nascita, bollata, segnata! “Sempre in audience”, a che pro essere anonimi, se poi si è sempre invisibili, a che pro lavorare nell’enigma, essere fieri e coraggiosi della propria appartenenza? Che si tratti di città, di persone, di animali e persino di “sensori dello spirito”, il rapporto tra la contentezza e l’amore non è direttamente proporzionale. È possibile essere felici in una città, come è possibile stabilire una relazione soddisfacente con qualcuno (che sia un essere umano o un animale), o di stabilire un legame funzionale o istruttivo con un’opera, senza per questo esserne sedotti. Non sono né l’origine, né il tempo passato, né il domicilio o la nascita che determinano la possibilità di un amore urbano. La città amata non coincide né con l’eredità, né con il fegato, né con la terra, né con la popolarità, né con la liberalità. Il primo stadio della “Città senza confine” (1984) è quello cartografico: ha luogo quando senti che il quadro del capoluogo amato si sovrappone a qualsiasi altro. Innamorarsi di una città significa sentire, quando la si percorre, che si dissolvono i limiti materiali tra il tuo corpo e le sue strade, quando la mappa diventa anatomia sconfinata. Il secondo stadio è quello della scrittura. La città prolifera in tutte le forme possibili del segno, si fa innanzitutto prosa, poi poesia, per divenire infine anomia interminabile.
Liberato in “9 maggio” (live da ventimila persone, del 9 maggio 2018, replicato il 9 giugno a Milano: sold out nel giro di mezz’ora), e in gran parte delle sue opere,mostra una significativa propensione alla situazionalità della vita quotidiana, attitudine che potremmo definirla, come una forma molto accentuata di “autosemiosi (dal basso) dell’anonimato”. In Liberato, la visione dello scenario quotidiano è intrisa della dicotomia (mediale) insanabile tra essere e apparire, cioè di quella tensione ambivalente, che ciascun individuo sperimenta sin dalla nascita, tra ciò che è nel contenuto e ciò che è nel contenitore, tra ciò che si evince della struttura sociale e ciò che le «correspondance» politiche del contesto (sociale) richiedono e stabiliscono. Napoli sa suggerire molte possibilità che allargano l’orizzonte dei nostri pensieri, liberandoli dalla tirannia della consuetudine, scuote il dogmatismo arrogante e tiene desta la nostra meraviglia. Ama veramente chi è capace di non amare troppo, perché forse ama di più e più si fa invisibile.
Questo ci insegna Napoli: pur sapendo bene che l’amore «è sopra ogni cosa» ed è persino alle radici del proprio luogo, nel luogo stesso dove l’amore si rende invisibile. Grazie all’Eros povero e scalzo, impersonato dal più grande e atipico dei maestri, Eduardo De Filippo, Napoli e la sua filosofia popolare ci insegnano ad amare, ma non troppo. Ovvero, ci invita ad amare, e in definitiva a vivere, facendo un buon uso delle nostre passioni e dei nostri piaceri, senza lasciarci trascinare dagli eccessi, perché amare è una delle poche follie che godono di un’ampia legittimazione sociale. Per far questo, e quindi per vivere, abbiamo bisogno di un’etica cittadina che dell’affettuosità ci faccia evitare i fanatismi e i picchi totalizzanti di entusiasmo.
Napoli è come andare «per la prima volta soldato in una terra sconosciuta», ma a ben vedere ciò è vero per tutta la nostra vita e per i dilemmi che quotidianamente ci pone il nostro rapporto con gli altri che, proprio come la “territorialità”, avrebbe detto Sartre, può trasformarsi in un inferno. Il rapporto tra realtà e finzione, essere e apparire risiede nell’individuo stesso a partire dalla dimensione semantica che ruota attorno al termine “persona Liberata”, ovvero intorno al soggetto anonimo privato e attorno al soggetto spettacolare pubblico. A tal proposito ricordiamo un aspetto alquanto interessante: originariamente “persona” era usato nel linguaggio melodrammatico per indicare la finzione, intesa come una particolare tipologia di stato d’animo che gli artisti collocavano in scena. Nel linguaggio comune e nella letteratura, lo stesso termine era usato per dimostrare ciò che si vuol apparire ma non si è, la simulazione appunto sotto la quale l’identità di un soggetto si cela nelle relazioni con altri. Ciò significa che ciascuno di noi, Liberato o non Liberato, è avvolto da questa veste ingannevole dietro la quale vi è una realtà dissimile e ignota non solo “agli altri”, ma soprattutto a “sé stessi”. È in questa direzione che Media.comm(unity)/comm.medium. Divenire comunità oltre il mezzo: l’opera diffusa (un mio libro di vent’anni fa) riconosce la relazione di interdipendenza tra società e soggetto quando sostiene che il vocabolo “persona” si riferisca ad “una maschera dello spirito collettivo, una maschera che cela l’individualità” (Mimesis, Milano, 2004). Tutto questo ci porta a ricordare l’iter curatoriale del Medialismo a partire da Città senza Confine del 1984 (vedi questo saggio ed i successivi dello stesso periodo), fino a Il sensore che non vede del 2023, che mostra una sintomatica affinità con Erving Goffman, quando sostiene che gli uomini non sono liberi, al contrario, sono dei “pupi”, delle marionette nelle mani di un burattinaio invisibile, il caso, che a seconda del contesto in cui sono inseriti, assegna una parte, un ruolo da interpretare nell’immensa “pupazzata” che è l’esistenza. Ciò sottende una significativa mutabilità delle parti, dei ruoli, delle posture, in breve dei rituali quotidiani a seconda della “scenografia sociale” nella quale ci muoviamo, ma anche un significativo conflitto con ciò che sta sotto la maschera.
Il 9 maggio 2024 si presenta come una data speciale per i fan di Liberato, perché la novità del cantautore italiano per i suoi estimatori è un lungometraggio che parla di lui e della sua musica. Il segreto di Liberato, il film documentario diretto da Francesco Lettieri, è arrivato al cinema proprio nella data feticcio del cantante. Il trailer diffuso, che comincia con la frase “A Napoli abbiamo tanti segreti”, e che fa di Napoli una comm.unity dell’anonimato dilagante, spacca, si impone con prepotenza mediale! Una città evocativa, reale, autentica, che trasforma il canto del Liberato in una voce anonima e sdoppiata. Fatta d’arte e di cibo, di cinema, di musica e di leggende. L’identità di Liberato è uno dei segreti che la città custodisce e vorrebbe custodire: si tratta di una forma di anonimato popolare, che sfiora le vite e i costumi di un patrimonio collettivo, gelosamente conteso, soggettivamente vissuto e alterato. Una delle prime condizioni della vita sociale è sapere con chi si ha a che fare e poter dunque riconoscere l’identità degli individui e dei gruppi.
I nomi e i soprannomi sono i segni più semplici e più universali dell’identità. In origine essi erano sempre motivati, indicando l’individuo tramite la sua appartenenza a una famiglia o a un clan, ad una professione, a una categoria fisica. Nelle nostre culture moderne, la storia ha portato con sé il decadere di questo sistema che viene spesso rimotivato attraverso soprannomi e nomignoli. Armi, uniformi, insegne, tatuaggi sono dunque un mezzo per distinguere e, eventualmente, per classificare e definire i vari gruppi il cui insieme costituisce la società. Come Levi-Strauss ha mostrato a proposito dei totem, si tratta, in origine, di tassonomie sociali. Liberato è una tassonomia collettiva. Inoltre, all’interno di ogni raggruppamento così definito, i totem, così come i brand, indicano le gerarchie e l’organizzazione interna del gruppo che si fa nome o definizione e viceversa. È questa la funzione dei pennacchi, delle corone, dei mantelli di ermellino, dei galloni e anche del genere musicale che identifica Liberato.
Ne Il segreto di Liberato si produce il vanishing point dell’intimità dell’artista: cosa c’è dietro quella maschera, che affonda le radici in quelle della tradizione napoletana? vedi quella di Pulcinella! Si può scoprire l’anima di Liberato? Ne Il segreto di Liberato la parte animata dialoga con quella live action che è sottoscritta da Lettieri, già famoso per essere il regista dei videoclip del rapper. La parte girata a Napoli deriva e si inserisce nell’immaginario visivo proprio di Liberato che è presente sulla scena musicale dal 2017, anno in cui è stata lanciata la hit Nove Maggio. Per questa c’è stata anche la collaborazione di Gianluca Palma, direttore della fotografia dei video di Liberato, ma anche di Calcutta, Truppi, Giorgio Poi. Nelle immagini del video, tra giocatori di ruolo e cosplayer tutti possono essere chiunque, proprio come Liberato che è uno, nessuno e centomila. La clip mostra sequele in cui il big si logora per la sua arte. Vuole divenire un artista e con lui c’è una femmina con cui il rapporto è ruvido. All’interno del trailer, che per la verità poco svela, due momenti amatissimi dai fan dell’artista: i concerti di Piazza del Plebiscito a Napoli e l’esibizione al carcere di Poggioreale. Secondo alcune speculazioni, Liberato sarebbe infatti un detenuto, cresciuto tra le sbarre del carcere minorile di Nisida e approdato poi nel mondo adulto. Autenticità? Mitologia? Forse, la leggenda sugli schermi di un “anonimo Liberato” qualcosa in più ce lo dirà: continuando ad insistere – forse – su di un anonimato Liberato, ma da cosa?
A Napoli tutti abbiamo un segreto. Segreto ha origine dalla parola latina secretum, participio passato del verbo secernere – metter da parte: si tratta di un’evoluzione del verbo cernere – separare, distinguere, vagliare – utilizzato arcaicamente nell’attività agricola – setacciare, seminare – con l’aggiunta della particella se, a sottolineare il senso di separazione (distanza, a parte). Questa parola pare custodire in sé il processo disvelatorio della strategia del Liberato la quale, procedendo dialogicamente, creando confronti, opposti e categorie, osserva la realtà circostante nel tentativo di calcolare l’estensione e includere. Ma nonostante l’immensa ampiezza della strategia di Liberato custodita dal termine segreto, esso risulta oggi particolarmente osteggiato, soprattutto in una delle più nobili attività umane: la politica. Lo spettacolo della canzone d’autore, così come oggi è intesa in Occidente, viene considerata nemica del segreto, che assume le sembianze di un tabù – di innegabile presenza, ma razionalmente rifiutato – una sorta di blasfemia nella società della trasparenza e della connessione… ma se è difficile parlarne, tanto più è impossibile tacerne. Quest’analisi vuole essere un tentativo di confutazione di tale visione parziale, dimostrando che una società dello spettacolo si fonda anche e soprattutto su di una consapevole gestione dei suoi segreti, genus di cui i segreti dell’arte sono la specie più esemplare, in quanto discendenti degli antichi arcana imperii di tacitiana memoria, pilastro dell’esercizio del potere antico, finalizzati al perseguimento di quella che Cicerone indicava come salus rei publicae, bene supremo della Polis. La cifra dello spettacolo del potere (attraverso lo stato della Polis) è la capacità asimmetrica di maneggiare la nebulosità delle cose dei media, di dividerle o di fissarle. Secretare, dunque, per la gestione di un network anonimo quanto palesato, significa non solo separare, filtrare, coprire ma anche scoprire, rendere pubblico: i suoi titolari sono arbitri anonimi o riconosciuti tra il pubblico ed il riservato – non-conosciuto conoscibile (arcanum) – diverso dal mistero – non-conosciuto non-conoscibile (mysterum). Il lemma divulgazione si rifà al verbo latino divulgare, nel significato di rendere pubblico, comune, derivante dal sostantivo vulgus – popolo: da un lato, forza egalitaria e libera, dall’altro, autorità distruttrice dell’ordine costituito. Appare, dunque, che la direzione del personale Liberato è presupposto di governabilità, criterio organizzativo dell’ordinamento statale e mediale. Il confidenziale, per definizione, postula la differenza dei rapporti. Il parametro di questa disarmonia varia storicamente a seconda delle forme di Stato, di governo e di capacità mediatica.
Nel caso di Napoli assistiamo all’anomalia: ogni vicolo, ogni palazzo, ogni muro tiene i suoi misteri. Ci sono: il segreto del Munaciello, la bella ’mbriana, il sangue di San Gennaro, la Pedamentina, la sirena Partenope, l’Ovo sotto il Castello, il segreto di Pulcinella… e poi c’è il segreto digitale, montato ad hoc, dalla band musicale di turno che invece di chiamarsi o di schierarsi a favore dello spettacolo, ancora una volta, attraverso la storia di Napoli Centrale e di Pino Daniele, si chiama Liberato. Il cantante incappucciato apparso dal nulla il 14 febbraio 2017 su YouTube con un brano intitolato Nove maggio, e da allora divenuto “evento anonimo”. I suoi pezzi superano gli 80 milioni di streaming, i live in cui non si fa mai vedere in volto sono cult dallo stadio Maradona di Napoli alla Kesselhaus di Berlino, passando per l’Ippodromo di San Siro. Liberato è come Elena Ferrante, così come Elena Ferrante è come Thomas Pynchon, e così come Thomas Pynchon era come Gilgamesh, l’Iliade, le opere di Shakespeare, i nomi collettivi di Kierkegaard, Ferdinando Pessoa, etc …: le teorie sulla sua identità si moltiplicano, ma nessuna è mai certa. Come in tutte le storie effettive e verosimili c’è sempre un limite tra realtà e finzione, un limite molto labile, perché nessuno conosce la verità. Al di là dei dettagli, tutto ciò che oggi rende Liberato quello che “non si vede”, nel documentario di Lettieri è tanto presente quanto è tanto assente, è sempre un Liberato anonimo. La protagonista femminile, una futura autrice italiana di manga, è il primo amore di Liberato, che corrisponde anche con la prima grande amicizia, con la prima grande delusione. Tutti impulsi che troviamo nelle canzoni. Liberato, potrebbe essere, uno dei tanti volti di Napoli, è una delle tante maschere che coprono il vero camuffamento quotidiano. In questo momento ci sono molti artisti napoletani che si stanno affermando a livello nazionale e internazionale, come Geolier e i Nu Genea, ma Liberato incarna il volto più impenetrabile della città, il celebre segreto. Uno dei suoi aspetti più interessanti è che tiene insieme la musica popolare e l’hip pop, l’house e il r&b. Sperimenta molto e, nonostante questo, il suo pubblico comprende tutte le fasce della popolazione. Durante i casting per i suoi videoclip ha incontrato ragazzi che arrivavano da ogni tipo di estrazione sociale. Gli attori, i cantanti, gli speaker, gli insegnanti, gli avvocati, i conferenzieri, i dj e i vj, i commercianti, i giornalisti, i preti, gli psichiatri, i medici, i venditori… Insomma quasi tutte le professioni che hanno a che fare con una relazione mediale, se si escludono gli artigiani, i ricercatori e i mistici – professioni apparentemente intime e silenziose, che pure non disdegnano e non possono fare a meno, più o meno spesso, di usare la piattaforma mediale – sono conniventi con la dialettica dell’essere e dell’apparire.
Non tutti i professionisti dell’apparizione mediale però sanno davvero di avere “un qualche profilo” di apparenze “condizionate” o “liberate”. Solitamente lo scaraventano all’aria come viene, vi si appoggiano stancamente, se ne liberano per denominarsi Liberato, come di una maglia inutilmente pesante, oppure ne abusano, facendolo esageratamente oggetto di t-shirt pop-sofiche (come nei Festival di Filosofia a la page). Cantanti e attori sono le sole categorie costrette a prestarvi attenzione, a curare la medializzazione tra apparenza e appartato, a curarsi e a curare la voce a/nonimata dell’altro, del nome che c’è e del nome che non c’è! Per tutti gli altri, spesso la medialità dell’anonimato sembra non esistere. di solito quasi non sappiamo di avere un nome, quasi ignoriamo quanto di ciò che facciamo, produciamo esercitiamo, testimoniamo e siamo, dipenda dal nostro profilo. Ma capita anche il contrario che qualcuno sia troppo consapevole della sua condizione di eteronomia della scelta politica e non resista alla tentazione di denominarsi Liberato. Il nome interiore che si auto-ascolta è la voce dell’ “utopia liberante” dell’autore autoreferenziale, del biologico che si fa rap e che si dà nell’anonimato sociale. Entrambi godono presumendo il potere della bella presenza, della bella apparizione e dimenticano il resto. “Era il tipo di denominazione, di brand, di strategia di apparizione che non verrà mai più sollecitato” scrive Ernesto De Martino, molto attento alle apparizioni nella magia del sud! Ma un bel anonimato in sé non esiste. Non è il timbro di una canzone e di un montaggio alieno di Dicitencello vuje. La canzone è un medium che contiene più voci e già rappresenta l’anonimato della composizione rispetto allo svelamento dell’apparizione, una vibrazione mediale, un servizio complesso, un ponte tra compositore ed esecutore, una spoliazione consapevole che ha origine talmente dentro alla città di Napoli da non poter non venir fuori come atto Liberato.
Dimmi che mi ascolti! La testimonianza canora è il limite tra libertà e Liberato che si infrange, l’energia che si vorrebbe svincolata: la tecnica non c’entra, oppure non basta. Dimmi che mi senti, anche se non ci credi chi è Liberato … Se non credo a quello che ascolto, l’anonimato uscirà stonato, e tutta la tecnica del mondo non mi renderà più convincente di questo slanguage che gestisco. Performance difficili, monologhi martellanti, arringhe noise, prediche in forma di rosa, comizi controintuitivi, giustificazioni non richieste, spiegazioni senza nome, elogi enfatici, interviste dissimulatorie… Quanto incide l’anonimato nell’impossibile utopia di Liberato? Quanto hanno fallito la scuola, la politica, le chiese, la radio e la televisione?