Era adagiata sul mare, spartana eppure molle e imbelle nella sabbia vesuviana e negli odori dei campi Flegrei, ammaliante sirena, la testa reclinata su quella che era stata l’acropoli della città antica e il corpo, con le gambe impudiche appena divaricate, languidamente distesa tra i promontori di due colline. Il sole tirreno illuminava le uniche due ciclopiche pietre rimaste del tempio di Pizzofalcone, nella città vecchia. Verso mezzogiorno, vi era una slanciata architettura di puro lucido acciaio a risplendere e abbagliare, innalzandosi al cielo blu in volute danzanti sulla melodia della musica, che da Mergellina a Porta Nolana strimpellava terapeutici tamburi. Quando poi il sole diveniva un grande disco arancio disteso sull’opale granitico vesuviano, allora era il castello angioino ad attirare l’ultima luce del giorno e a riflettersi nell’oltremare cupo. Arrivando dalle colline dell’interno, la città si presentava confusa tra ponti, mari, linee della circumvesuviana e case, lungo l’orizzonte grigiastro affumicato, che scompariva nell’aura della città senza confine. Miraggio liquefatto in una terra arsa, ma ricca di limoni che condiscono l’accidia, catalanesche secolari e vigne sacre, da qualunque lato ci si presentava: dalle porte di Giordano Bruno o quelle di Giambattista Vico, o dalle colline dell’entroterra che accompagnavano le immagini dei ragazzi scalzi di Michelangelo Merisi, o dei delinquenti ritrovati in pittura, da Micco Spadaro. Era come la grande bocca di una nave immersa nel mare, infilata a turno dal grecale, dal maestrale, dallo scirocco o dalla tramontana, e talvolta da tutti i venti insieme, che l’avvolgevano, sfiorandola o sferzandola come amanti delusi dalla sua indifferenza, in un turbinio che la faceva rabbrividire e temere, sorpresa da invincibili tempeste, ma pur sempre inaffondabile, come la propria storia.
Ogni epoca appare ai contemporanei come una svolta, come un’età critica. La storia, e particolarmente quella del nostro quotidiano terremotato, mostra che più i rapporti umani si complicano, materialmente e psicologicamente, più la semplificazione concettuale subìta dall’ordine sociale appare arbitraria, mutilatrice della realtà. Questa semplificazione si è rivelata inoperante quando fattori nuovi di politica e di storia, economici e morali si sono imposti alla vita di una densità urbana, come quella dell’area metropolitana di partenope; allora l’ordine sociale si è trovato distrutto nella sua logica e nella sua etica, perché queste immagini sono apparse troppo semplici, troppo geometriche.
Ma gli elementi di rottura delle catastrofi naturali si moltiplicano in tutti i campi; uno stesso terremoto agita le diverse ricerche artistiche, fino a far dire a Giuseppe Bartolucci che l’estetica napoletana è ormai una semioestetica sismica. Tutti i modelli di approccio all’arte rimettono in questione le categorie fondamentali del linguaggio di città. Il secolo XX, volendo evitare sia l’analisi empirica che l’astrazione, si orienta, infatti, verso una mediamorfosi dinamica:«zolle artistiche e zolle geografiche, territori di confinamento e territori di sconfinamento, strutture topografiche in disuso e debordamenti, pittura estasi e nuova pittura italiana, graffiti americani, neue wilden, figuration libre, tecnicamente dolce e hard, l’impero dei disegni, gli abitatori dell’iconosfera, piccoli racconti, espressionismo metropolitano, fotografia sociale, nuovo still-life, videoarte, cinema underground, figurazione sociale, Città & Città vs Città senza confine …».
Il terremoto incontra il reale, in una serie di catastrofi in cui ogni volta si scopre un conflitto, una problematica e un orizzonte particolari, e le minacce crescenti allontanano da ogni immagine confinata della realtà. Se la catastrofe non ci fosse stata, occorreva inventarla. Lo hanno detto o ammesso molti in questi anni. Intellettuali e politici sul palcoscenico di una disgrazia naturale e sociale, ambientale e economica, antropologica ed etnica che, quel novembre di 4 anni fa, colpì le popolazioni della Campania e della Basilicata. Trasformata per incanto, in un provvidenziale slogan estetico. Quanto occorreva per mettere d’accordo, in un meccanismo mediatico perfetto Joseph Beuys, Robert Mapplethorpe e Robert Rauschenberg, Andy Warhol e Keith Haring.
A distanza di quattro anni esatti, con un amico artista, tra mille difficoltà in vista di strani esiti, è possibile stilare un bilancio di quelle onde sismiche che si trasformarono in segnali semiotici della mutata espressione di medialità.
La moltiplicazione di segni e delle pratiche artistiche: è questo lo slogan condito di dirompente universale filosofia estetica di questi anni. Sono piovuti da queste parti tanti artisti che non erano mai arrivati dall’affermazione delle neo-avanguardie. A cosa sono serviti? A fare discorsi, a dare nuove espressioni all’Espressione Urbana, a creare migliori condizioni di vivibilità metropolitana dell’arte? Per niente. Molta gente, a quattro anni dalla catastrofe del 1980, vive ancora in condizioni di allarme linguistico, il genius loci, questa volta, si confronta veramente con i saperi colti della globalizzazione, mentre le condizioni di vita nei centri urbani sono sempre peggiori e la malavita prospera. E allora? Ripercorrendo le pagine di questa inchiesta/dialogo, è possibile capire in quale direzione è stato canalizzato lo sviluppo tra arte e comunicazione, verso quali obiettivi si sono indirizzati quegli artisti che hanno partecipato all’esperienza di Città & Città e poi di Città senza confine, fino ad oggi emersi altrove. È sbocciato in modo prepotente un nuovo ceto di pratiche artistiche. Guarda caso tutti amici di questo o di quello, soci o addirittura parenti delle prime avanguardie storiche in chiave mediamorfica. Alcuni nuovi re delle gallerie d’arte che si affacciano ad Art Basel, avevano le dipendenze dal mercatuccio nord-europeo e nord-americano; qualche altro, di pelo più striato, s’è riciclato dopo aver abbondantemente messo le mani sul senso del nuovo mainstream. Fortune inarrestabili, bilanci piatti che improvvisamente vedono moltiplicarsi gli zeri del valore espressionistico, imprese che escono dai confini e acquistano valori stilistici, danno la scalata alla hit della nuova centralità o della nuova emarginazione. Nel bel mezzo una fauna di nuovi soggetti artistici emergenti che trova le ragioni della propria identità, della propria metropolitanità e della propria caratteristica di pratiche di confine che tende a sfrangiarsi, risemantizzarsi e ricontestualizzarsi.
Cresce e sta crescendo, in questi anni, una generazione post-catastrofista, problematica, condizionata da impareggiabili vicissitudini.
L’immagine di Napoli, prima e dopo la catastrofe del 23 novembre 1980, viene frequentemente rappresentata sulla scena politica e su quella dell’informazione, ma la reale struttura economica e culturale della città rimane poco conosciuta come i suoi problemi.
L’evoluzione della qualità dei bisogni espressi dai cittadini negli ultimi anni ha innescato un processo di trasformazione delle risorse e degli insediamenti culturali locali, che sono primi naturali destinatari della nuova domanda. Un processo di trasformazione che è ancora in atto, con contraddizioni e difficoltà che non potranno essere superate, se non si pone mano alla riforma delle pratiche di confinamento e di sconfinamento dell’area metropolitana di Napoli.
L’immagine stereotipata, figlia di un meridionalismo querulo e rivendicazionista, di una città lamentosa perché sempre e solo sfortunata, sulla quale sono state costruite intere strategie politiche, fondate sulla cultura dell’emergenza, viene battuta e superata da una ventata complessiva di consapevolezza delle proprie forze, che pervade una popolazione che vuole diventare protagonista del proprio riscatto. Ciò non significa che i problemi non esistono, ma che la gente vuole reagire positivamente, individuando momenti e compiti creativi.
Ne esce battuta anche l’immagine tradizionale di una “Napoli oziosa” e si afferma la dimensione di una cittadinanza ragionevole, che per il 69% dichiara che “bisogna avere meno pretese e lavorare di più”, ed individua altresì, i pericoli che derivano dalla mancanza di occupazione, o dal dilagare della camorra e della delinquenza. Forse la spinta verso LA CITTÀ SENZA CONFINE porta al suo interno una caterva di problemi e contraddizioni.
Si evidenzia così un tessuto complesso, cosciente dell’organica esplosione, sul quale il simbolico può e deve lavorare per espanderne le vaste potenzialità. Napoli non è solo una città di confine, né una città condannata a chiudersi nelle sue “porte”. Una città antica, una grande area metropolitana che pensa nel modo di uno sconfinamento già esistente e che contiene energie sufficienti che ne possono determinare il riscatto. Certo, accanto a ciò non sono mancati alcuni dati preoccupanti che riguardano, in particolare, le istituzioni dei beni culturali, dalle quali gli artisti interpellati si sentono tutelati in una percentuale bassissima.
Sarà interessante comprendere, sulla scorta delle nuove emergenze critiche nei confronti della generica e marcatamente ideologica arte sociale degli anni ’70, comprendere quanta parte di questa sfiducia dipende dalla cattiva funzionalità e quanto dalla domanda di moralizzazione delle istituzioni culturali.
La rivelazione delle microfisiche terremotate è il più impressionante simbolo della disintegrazione di un reale falsamente unificato, in realtà irriducibili.
In opposizione al mondo distrutto dalle equazioni differenziali di Newton e Laplace che veniva inteso come articolato, continuo e confinabile, l’onda corpuscolare dell’evento-terremoto, la discontinuità e la pluridimensionalità della performance sismica, più recentemente la nozione di anti-mondo, ci pongono di fronte ad un universo culturale catastrofico, in cui le nostre capacità di rappresentazione immediata, sono oltrepassate ed affidate ad uno sconfinamento che non solamente le sostiene, ma le disgrega e in più punti le contraddice. E d’altra parte queste verità irrappresentabili sono ipotetiche, nel senso che invece di essere le tappe di un cammino rettilineo che conduce al vero, segnano vie parallele ad altre vie, di cui nessuna può dirsi l’unica. Così popolari artisti d’avanguardia visualizzano, con affettazione, del loro espressionismo metropolitano: una città con confine che da una conseguente esplosione è divenuta la fisica del centro senza frontiera. Senza ripiegare al pragmatismo Minimal, Wolf Vostel vs Fluxus o nella controtendenza di Oreste Zevola, si comprende come Urs Luthi, Jurgen Klauke, abbiano potuto ribaltare ogni valore culturale ed umanista a questa irrappresentabile scienza dei terremoti estetici, almeno se si guarda come si trattava nei suoi casi, nei quadri dei rivolgimenti della cultura dei graffiti americani, che postulavano una militanza sconfinata ed infinitamente determinata.

La tesi fondamentale di Città senza confine è che l’essenza del paesaggio e le modalità di rapportarsi ad esso raccontano qualcosa di essenziale per la comprensione dell’essere umano: la geografia è in questo senso un mezzo con cui approcciare un interrogare di tipo ontologico e filosofico, poiché una delle dimensioni caratterizzanti dell’essere umano è lo spazio e dunque l’abitare nello spazio, anche quando avviene in modo inquieto o addirittura violento. Tutto ciò si traduce nella necessità semiotica di ripensare lo spazio ed il rapporto che l’uomo instaura naturalmente con il visibile, andando oltre la rappresentazione geometrica e la dimensione prettamente quantitativa dello spazio stesso. “L’aria della città rende liberi, dopo un anno e un giorno” recita un antico proverbio indo-europeo, dal quale è ricavato il tema della riflessione di Città senza confine. In età medievale, infatti, ai servi sfuggiti al proprio padrone bastava vivere un anno e un giorno nelle mura della città per vedere cancellato in maniera definitiva il proprio status di servi. La scelta del tema evidenzia in maniera chiara la tesi principale di tutto il dialogo: la libertà costituisce un elemento costitutivo fondamentale delle città? “Che resta oggi della concezione della politica modellata sulla città,cosa resta oggi dell’idea di abitare la città per abitare l’arte e rifare le sue semiomorfosi? E dell’idea di cittadinanza che dalla città prende il nome? In quale città sorge la cittadinanza? E che resta oggi di quella città che nasce con le Mura e i perimetri di protezione e poi si trasforma “in senza confine”? Queste domande messe in fila possono dare un immediato senso alle semiotiche visive (e alle corrispondence de sense) che passano dal Quindicinale Città & Città (1983-84) ai testi e agli artisti di Città senza confine (1984). Sono domande che sottendono la premura di differenti piani temporali (il passato che ha fondato e l’odierno che talvolta affonda in quel passato), di sintetizzare differenti concetti di appartenenza politica, di rinnovare le giuste domande che ci si può porre messi al cospetto della crisi (costitutiva) della città: si può affermare che la città è una delle forme che ha assunto lo spazio urbano nella storia, una delle forme di governo dei suoi confini. Quella stessa città che è stata, fino a ieri, il luogo del rapporto, a sua volta ambivalente e conflittuale, tra urbanistica e architettura, paesaggio, campagna, spazio urbano ed extraurbano, territorio, ecologia e ambiente metropolitano, arte vissuta e arte rappresentata. Città senza confine, per rispondere a queste domande e per sviluppare ulteriore materiale per interrogativi futuri, ha ritenuto opportuno indagare lo spazio politico urbano con l’ausilio delle filosofie di Walter Benjamin e di Henri Lefebvre (vedi anche il rapporto con Guy Debord e i situazionisti e le pratiche del No di Luca Luigi Castellano). Benjamin e Lefebvre offrono la possibilità di concepire una apertura, un “far posto libero e libera figuration”, che in contrapposizione ad una concezione schmittiana del potere sovrano (un potere del provvedimento) pensa lo spazio libero non come «ad un vuoto nulla da occupare con il potere», ma ad un vuoto che “sia piuttosto il vincolo di possibilità di pensare la costitutiva e radicale medialità di tale spazio”. Città senza confine, in dialogo con le tettoniche di sommovimento, con spirito etimologico, genealogico e archeologico ad un tempo, specifica le sfumature intrinseche dei termini urbs e civitas e chiarisce come queste differenze costituiscano, nel loro confronto, una delle opportunità più interessanti per un’analisi delle topografie politiche (e delle semiotype) che si intende esporre.
L’accostamento dei due termini, urbs e civitas, porta inevitabilmente al concetto di ingresso, un’immagine che indica la fascia in cui paradigmi dissimili entrano in adesione e conversano fra loro: sull’entrata si instaura l’agire politico dello spazio urbano, della sua storia e dei suoi abitanti. Proprio nella soglia si approssimano ad essere capiti quegli ‘spettri artistici, quelle grafie sui muri, quelle semiotiche urbane e senza confine’ che nella loro presenza-assenza (non appartengono allo spazio politico ma lo attraversano da parte a parte) individuando il tempo per l’ingresso dell’artista, che deve tornare per inquietare chiunque ne voglia prendere il posto. Quello che attende e preannuncia l’artista è un tempo che non serve a rimarcare l’attimo della fondazione dello spazio urbano, ma è un tempo che richiede un continuo rammemoramento di chi ha segnato per la prima volta lo spazio del potere: il padre-fondatore. Nell’inquietudine dell’assenza – il creatore non c’è più -, nell’atto del varcare la soglia, si può capire la portata politica dell’ingresso dell’ospite artistico nella città. Si assiste ad uno sfondamento di segni, ad un pittogramma unico ed anonimo che lascia tante tracce e infinite tag. La sua apparizione, poiché è il “fuori-legge”(colui che può decidere di non entrare in città, che decide di rimanere al di fuori della legge cittadina, che vive nell’anomalia del codice), può ricordare l’estraneità assoluta del fondatore della città. I creatori si sottraggono a ciò che costruiscono, non trovano patria nella polis e nella civitas, ritornano fuori dal solco che hanno tracciato e lasciano tale solco come loro impronta espressiva. Nel presente della loro costituzione, resta la dissimmetria dello spazio e l’anacronia del tempo, e della pratica artistica stessa, programmata nella struttura espositiva di Città Senza Confine.
Scorrendo l’indice troviamo:
Pittura, azione e concetto europeo: Anzinger, Miguel Barcelò, Beers, Franz Graf & Brigitte Kowanz, Jurgen Klauke, Krips, Urs Luthi, Bruce McLean, Alois Mosbacher, Wolf Vostell; Pittura Italiana: Felice Lucio Bifulco, Angelo Casciello, Ernesto D’Argenio, Marco del Re, Lino Fiorito, Oreste Zevola; Graffiti americani: B’Last, Crash, Dondi, Futura 2000, NOC 167, Les Quinones, Quik, Kenny Scharf, Zephyr; Selvaggi Italiani: Aldo Arlotta, Maurizio Colantuoni, Fulvio D’Ambrosio, Gabriele di Matteo, Lucia Gangheri, Piero Gatto, Sasà Giusto, Fathi Hassan, Massimo Latte, Saverio Lucariello, Enzo Palumbo, Rosa Persico, Maurizio Pivetta, Francesco Esposito Sansone, Franco Silvestro; Figuration Libre: Jean Charles Blais, Boisrond, Robert Combas, Herve di Rosà; Tecnicamente dolce/L’Impero dei disegni: Peppe Minichino, Gabriele Perretta, Bruno Roberti, Oreste Zevola; Gli abitatori dell’iconosfera: Marina Arlotta – Luca Pizzorno, Augusto De Luca, Alberto Guerrera, Raffaella Mariniello, Enrico Ricciardi, Valeria Saporito; Piccoli racconti: Giuseppe Bartolucci, Rossella Bonfiglioli, Matteo D’Ambrosio, Giulio De Martino, Giacinto Di Pietrantonio, Nello Manfrellotti, Lorenzo Mango, Filiberto Menna, Bruno Roberti, Amodio Siesto.

Nel momento in cui l’entrata della città è attraversata da chicchessia “diviene artista”, la storia della città stessa è messa in crisi: fondazione mitica e fondazione storica collimano fra loro, il tessuto urbano ostenta la propria in-appartenenza costitutiva, l’assoluta interpretabilità degli spazi che lo formano e lo allestiscono come una pittura e una scultura sociale work in progress (direbbe Joseph Beuys). Una interpretabilità che può svilupparsi solo dall’analisi del passato e delle sue macerie (Topografie messianiche), in un’analisi benjaminiana: “Lo spazio del nostro presente, della nostra esistenza (Daseins), è abitato dagli spettri (hantée) del passato, posseduto, ossessionato, assillato (hantée) dalle voci dei revenants”; voci di artisti che divengono medialisti, manipolatori e montatori dei nuovi segni. Il potere e i confini sono indissolubilmente uniti dall’atto di istituzione dell’urbs. Decisivo è il modo in cui la maestà, l’esercizio del potere, si è di-fatto messo in essere. Prima dell’atto fondativo, che discrimina un dentro e un fuori le mura, non esiste una legittimità che permette di tracciare il solco che divide lo spazio urbano da quello non urbano. Solo il prendere possesso con l’uso, l’usurpazione, crea un confine temporale, spaziale e giuridico tra ciò che era illegittimo e ciò che è diventato legittimo, nel momento in cui si attualizza l’atto del solcare il terreno. Benjamin indica questo soppiantare, la sincronia tra la prepotenza di un atto illecito e la costituzione della legittimità urbana, con l’ambiguo termine di Gewalt (il termine significa violenza ed anche “potere legittimo, autorità, forza pubblica”). Intensa la pagina in cui Città senza confine mostra come Benjamin tenga in grande considerazione i confini che la Gewalt, nella sua ambiguità, fissa nell’atto fondativo. Confini che, per la prestazione di prepotenza e costituzionalità, determinano la dialettica dentro/fuori, legittimo e illegittimo, amico e nemico dell’arte: in quanto Macht, il diritto non dispone della possibilità di annichilire (vernichten) l’avversario, la sua capacità distruttiva non è totale; il suo potere gli deriva pur sempre dalla definizione del confine, può eventualmente bandire al di fuori dei propri confini, ma, come sappiamo, nemmeno tale eliminazione può essere definitiva: l’avversario organico o disorganico può sempre ripensare (revenir sulla sua condizione) come spettro (kool killer) a inquietare la città. Su quei confini e sul possibile ritorno dello spettro del fondatore si può comprendere l’impossibilità della civitas di ampliare costantemente i propri confini: qualcosa deve rimanere al di fuori, qualcosa deve essere continuamente sconfinato, proprio per la sua illegittimità, come necessario alla legittimità della civitas stessa.
