Da destra a sinistra Nahid Bakloo, Marilina Succo, Alice Falsaperla, Jamileh Mehdi Araghi e Lucia Simone. “Come eri vestita”, mostra collettiva a cura di Alice Falsaperla, organizzata alla Galleria La Nuvola di Roma

“Come eri vestita?”. A colloquio con Alice Falsaperla

Sabato 25 Novembre scorso, in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, la Galleria La Nuvola di Roma e Amnesty International hanno presentato negli spazi romani della galleria l’evento “Come eri vestita?”, un talk e una rassegna di cinque artiste. Al talk hanno preso parte Riccardo Noury, Portavoce di Amnesty International; Tina Marinari, Coordinatrice delle Campagne per Amnesty International; Elena Santiemma, Responsabile del Coordinamento Donne di Amnesty International e Alessio Miceli dell’Associazione Nazionale Maschile Plurale. La mostra, che rimarrà visitabile sino al 5 dicembre, è stata invece curata dalla padrona di casa Alice Falsaperla. Ne abbiamo discusso con la curatrice.

 “Come eri vestita?”: una domanda orribile rivolta alle donne che hanno subito violenza, come se la colpa degli oltraggi alle donne fosse dei loro abiti e non dei violenti. Come è nata la mostra che hai inaugurato in occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne?

La mostra Come eri vestita?, ospitata dal 25 novembre al 5 dicembre alla Galleria La Nuvola, è nata dalla collaborazione con Amnesty International, il movimento globale che ha a cuore i diritti umani. La Galleria è attenta a tematiche sia sociali sia ecologiche, come ha dimostrato la sua connessione con la Food and Agricolture Organization of the Unite Nations (FAO), in occasione della Giornata Mondiale del Suolo, o dell’Alimento.

L’intento di questo evento è sensibilizzare e mobilitare il pubblico a una tematica dalla rilevanza attuale, declinata attraverso le manifestazioni artistiche di cinque autrici dal respiro internazionale: Jamileh Mehdi Araghi, Nahid Bakloo, Neda Shafiee, Lucia Simone e Marilina Succo. 

L’esposizione è stata concepita da una domanda che riflette sul concetto di “cura” e di “sospetto”, legato al corpo e al vestiario, e intende ragionare sull’evidente minaccia storica all’interno di una cultura prettamente maschile. Lo sbaglio che ha portato a radicare quest’ideologia, sembrerebbe includere il fatto di associare la “cura” a un’essenza prettamente femminile e non, invece, a un impegno collettivo. Questa mostra parte da qui.

Jamileh Mehdi Araghi, Nahid Bakloo, Neda Shafiee, Lucia Simone e Marilina Succo: cinque artiste per un unico tema. Secondo quali criteri le hai scelte? Hai fatto tutto da sola o qualcuno ti ha aiutata? 

La collettiva è composta da artiste iraniane e italiane, che manifestano il proprio personale sguardo sul mondo, e sulla condizione della donna, ripercorrendo sé stesse. Ho selezionato tali autrici, insieme alla supervisione di Amnesty International, per la direzione comune cui rivolgono la propria ricerca, particolarmente legata alla sfera femminile. La peculiarità sta nella loro indagine su un territorio concettuale che affronta l’abbandono degli stereotipi di genere. Non esistono ruoli governabili o costruzioni sociali, ma solo il tentativo di una crasi antropologica e ambientale che si dipana attraverso pratiche estetiche e tecniche diversificate. 

Hai lasciato libere le artiste di interpretare il soggetto o avete concordato i lavori seguendo un filo logico?

Tutte le autrici hanno avuto la possibilità d’esprimersi liberamente, come lo è stato ogni volta che mi sono interfacciata con un artista all’interno del mio lavoro. È un tipo di rapporto umano e artistico che sento di aver ereditato da mio padre, Fabio Falsaperla, che ha intessuto scambi diretti con alcuni dei più grandi nomi del panorama artistico italiano. 

Il filo logico di cui parli si è slegato in mostra attraverso le connessioni prima tematiche, poi cromatiche e iconologiche, che ho individuato all’interno delle loro produzioni, immaginando un dialogo espositivo. Anche nelle diversità stilistiche che separano le creazioni, emergono dei simboli comuni capaci di legare le une alle altre.

Vuoi dirci qualcos’altro sulle artiste e sulla loro poetica? 

Certamente. Jamileh Mehdi Araghi è un’artista iraniana, naturalizzata tedesca, nella cui produzione identità e migrazione appaiono come temi principali. Nelle sue tele domina un’aurea atmosferica dal carattere mistico, composta da ornamenti medio-orientali e tecniche “divisioniste”, che rimandano all’impegno sociale e alla ricerca di un “segno unificante”. I soggetti scelti da Araghi consistono prevalentemente in figure femminili, individuali e isolate, numerose e in successione. 

Nahid Bakloo crea un’arte raffinata dalla matrice illustrativa. L’autrice intesse, attraverso le sue opere, racconti che affondano le radici nel personale patrimonio iraniano e nella sua attuale vita romana. Bakloo tratteggia momenti quotidiani di resilienza delle donne, dove partecipano influenze culturali e simboliche. Si svolgono conversazioni incalzanti che interrogano sull’identità e sul femminismo, indicendo un intervallo poetico. 

Neda Shafiee Moghaddam indaga, invece, la tridimensione, tentando di rafforzare una connessione tra pittura e scultura, installando ruvidi blocchi in cemento, a suggerire la forma dei ricordi che lei stessa ha, metaforicamente, “inserito in una scatola”. È una critica al possesso e all’obbedienza, e un incentivo al pensiero incontaminato militante, che fa luce sulla cura, a cui accennavamo prima, attraverso il paragone tra arte e terapia.

Lucia Simone attinge a un linguaggio di visioni distopiche, approfondisce l’introspezione e il trauma, attraverso l’emersione di frammenti visivi che appaiono mnemonicamente scomposti sulla tela. Il punto di fuga dell’opera è un vestiario quotidiano che proietta uno degli argomenti alla base di questo evento, secondo cui l’errore umano si manifesta nell’associare la violenza alla vittima, finanche al suo abbigliamento. 

Marilina Succo propone un’introspezione fisiognomica ed espressionista, frutto di una ricerca artistico-estetica sul volto umano. Lo scopo non è imitare volti reali, ma esemplificarne la perdita d’espressione, una delle modalità di comunicazione cui siamo più abituati. L’esercizio di Succo si propone di ricreare una forma di stato ipnotico in cui la donna è stata immersa per innumerevoli tempi. 

Cosa pensi si potrebbe fare, a cominciare dal nostro ambiente, per combattere la violenza sulle donne?

Sicuramente parlarne. L’arte dovrebbe essere un mezzo potente, evocativo, che induce il pubblico non solo a fruire del suo connotato più estetico, ma del suo più interiore, inducendo a una riflessione propriamente contemporanea, e quindi anche sociale, ideologica. L’innovazione insita in una mutazione di pensiero potrebbe essere stata, simbolicamente, testimoniata negli Anni Settanta da Carla Accardi, attivista e artista trattata dalla mia Galleria. Accardi ha fondato, insieme a Carla Lonzi e ad Elvira Banotti, il Manifesto Rivolta Femminile (1970), affermando che “non esiste rivoluzione, senza liberazione”, e in questo caso la libertà vuole significare proprio l’urgenza d’esternare il proprio “senso dell’esistenza”.

Ecco, accorgersi del condizionamento culturale è stato il tramite originario per contrastarlo, rivendicando i propri valori. Ad oggi si potrebbe approfondire ed esprimere tale concetto, anche attraverso il mezzo artistico: ridisegnare una “geografia” delle responsabilità, proponendo altre forme d’esperienza e di stato d’animo, fino a contrastare quello che potrebbe essere un pericolo per i diritti umani.

Un’ultima domanda: quali altri eventi – di cui puoi già parlarci – hai in programma in Galleria?

La Galleria continuerà ad alternare proposte di arte storicizzata e di arte contemporanea, che vedranno la collaborazione con enti pubblici. 

A breve, daremo spazio ad un artista contemporaneo in cui credo profondamente, capace di veri impatti emotivi con astrazioni di rara eleganza, e ad un artista storicizzato di rilievo internazionale. Non anticipo oltre. Vedrete!