Si viene accolti all’entrata da Battaglia (2024) uno schieramento armato in acciaio disposto orizzontalmente che sembra attendere lo spettatore e accompagnarlo sul campo di battaglia dove sculture antropomorfe in segmenti e sezioni metalliche esprimono il dinamismo di una lotta di potere, dell’eterno conflitto delle relazioni che ha bisogno di uno spazio di applicazione, un ground, per poter essere finalmente visibile.
La mostra di Carlo D’oria raccoglie diverse sfaccettature della battaglia intesa come scontro e incontro, raccontando contemporaneamente l’amore, l’agonia e l’azione attraverso le undici sculture degli Uomini A(r)mati (2023-2024), attori del do ut des alla base delle relazioni umane mai perfettamente in equilibrio, ma anche l’aspirazione all’onnipotenza di Icaro (2021), o la sensuale connessione dell’umano bisogno di un legame di Ultima Danza (2024), una struttura che si espande, si sviluppa, si avvinghia e si contorce ma concede lo spazio necessario per essere attraversata camminandoci sotto, attraverso le sue sezioni metalliche e al suo interno. In Germogli(2024) l’inevitabile e potente necessità di una connessione tra gli uomini si espande dal terreno e dal fondo di un corridoio venendoci incontro e invitandoci a partecipare allo stretto intreccio di piccole forme umane in una grande resa complessiva organica e tridimensionale.
La serie Nebbia (2024), una collezione di figure velocemente rappresentate su fogli di acetato, si sparge in maniera quasi defilata sulle pareti dello spazio e ci permette di immaginare la presenza di qualcuno che è già stato e ha lasciato ormai solo il ricordo del suo passaggio, visibilmente sfumato nella sovrapposizione dei figli opachi. Figure in movimento si presentano quasi accennate come l’istantanea di un processo di attraversamento che va via via scomparendo dalla memoria.




Domani in battaglia pensa a me riprende la celebre frase del Riccardo III di Shakespeare “Domani nella battaglia pensa a me, quando io ero mortale e cada la tua spada senza filo”, e il titolo del romanzo di Javier Marías accomunati dallo stesso senso di colpa nell’ossessivo memento di chi non c’è più. Il romanzo si apre con la morte improvvisa e inspiegabile di una giovane donna tra le braccia del suo amante durante quello che doveva essere il loro primo intimo incontro. È proprio questo l’irrimediabile punto di partenza che conduce il protagonista della storia in una riflessione sulle diverse declinazioni dei rapporti umani, sulle sue molteplici sfaccettature e sulle sue dinamiche incomprensibili attraverso il pensiero constante di una persona non più in vita e che ha a malapena conosciuto. Nello stesso modo, la mostra si sviluppa in un percorso che racconta i legami e le separazioni, l’agonia e l’amore estremo in uno spazio brutale in cui il visitatore sembra essere passeggero in un campo di battaglia durante una guerra da tempo iniziata, ma non ancora conclusa.
Carlo D’oria raccoglie questa tradizione letteraria e si esprime sul dolore e sulla salvezza, sulla memoria, sulla complessità delle relazioni, sull’inevitabile lotta di potere al loro interno e sul desiderio del legame umano con materiali aspri in un ambiente ancora più severo, in contrasto con il delicato equilibrio dei rapporti personali e in perfetta analogia con il dolore che la loro rottura comporta. Si assiste ad una vicenda autonoma in cui sculture frammentate, sezionate e saldate in evidenti articolazioni angolari vivono, vibrano, si elevano e si sviluppano in una tridimensionalità di cui possiamo essere spettatori accolti ma fuori contesto, visitatori di una scena in cui non possiamo integrarci completamente ma che ognuno ha probabilmente sperimentato almeno una volta. Le sculture si relazionano tra di loro in un dialogo coerente che racconta il movimento instabile delle relazioni, di chi soffre e di chi si salva, di chi ancora combatte e di chi perisce.
Gli A(r)mati con le loro lance verticali, il groviglio in espansione di Germogli, la grande struttura di Ultima Danza con i suoi evidenti e apparentemente fragili punti di saldatura e l’elevazione incerta ma quasi senza fine di Icaro, le figure di Nebbia, labili come la memoria del loro percorso, sono solo alcuni degli elementi fondamentali dell’esperienza complessiva che ci riporta a pensare come le relazioni tra gli esseri umani a volte funzionino e volte no, sospese, interrotte, ricucite, in eterno movimento e in un instabile equilibrio che fa delle vite e delle relazioni umane un campo di battaglia dove nessuno è mai definitivamente vinto né quasi mai vincitore.



È possibile visitare la mostra presso Fondazione 107 in via Sansovino 234 a Torino fino al 17 Novembre.