Bianco Ombra
Carlo Cecchi, Bianco ombra, 2023. Carboni su carta da spolvero, cm.200x330

Carlo Cecchi. Bianco ombra

Dal 6 luglio, nella Sala Italia della sede UnAR in via Aldrovandi a Roma, Carlo Cecchi presenta l’opera Bianco Ombra

Bianco ombra è un’opera di Carlo Cecchi, realizzata su una grande carta da spolvero, dal colore neutro. È l’unica carta che mostra chiaramente il contrasto tra il bianco e il nero, che giocano tra loro. Si tratta di una carta preparatoria usata anticamente per l’affresco, che l’artista ha preso però come supporto per un’opera finita d’impatto imponente.
È un’immagine creata dal nulla, che produce una suggestione rapida, attraverso una tecnica rivelatrice. Ed è una pratica sporca, che lascia un deposito sulle dita del pittore, come un’estensione poetica.

L’opera di Cecchi richiama il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, ma visto di spalle: un Quarto Stato a posteriori, reso attraverso uno sguardo vivamente contemporaneo. Mentre nel Quarto Stato i lavoratori si dirigono verso il sole dell’avvenire, verso una rivendicazione, nell’opera di Cecchi sono gli operai che se ne vanno senza più lavoro, come un rovesciamento del dipinto di Pellizza. Così l’opera si rivela emblematicamente la morte del lavoro. Cecchi dichiara di amare la pittura, ma predilige il disegno, perché lo sente immediato, più espressivo e tribale.

In Bianco ombra l’artista ci presenta dei lavoratori in dissolvenza, che finiscono per diventare, in senso poetico, aloni di stelle nere nel cielo. L’opera è prorompente, di forte impatto visivo, improvviso: l’osservatore è depistato, perde l’orientamento. A differenza del quadro di Pellizza, qui salta subito all’occhio come non c’è una preminenza di figure frontali all’osservatore. Si vede dapprima una folla, e si incorre in una sorta di perdita di identità; l’occhio si smarrisce nella moltitudine in cui le persone si fondono indistinte. Si tratta di lavoratori di cui non si riconosce il volto, e dunque la perdita di elementi identitari. L’impatto è forte, viscerale, creatore di turbamento. Ma nello stesso tempo si avverte che si tratta di un’opera di grande portata riferita alla vera cultura popolare, che l’artista ha interiorizzato vivendo da piccolo in un quartiere di Jesi in cui entrava continuamente in contatto con la quotidianità di operai e artigiani.

D’altra parte anche gli oggetti presenti nella parte inferiore dell’opera sono dettagli emblematici: la chiave, che richiama una perdita, quella della casa, e dunque della dignità personale. Il cappello, che ricorda una usanza antica, di quando per occupare una sedia ci si metteva sopra il proprio cappello come contrassegno, metafora dell’occupazione. Questi oggetti, a terra, sono come dei residui, di una caducità frequentata spesso dal lavoro di Cecchi, che si avvale di particolari del paesaggio universale, vicini all’identità del frammento, del feticcio mitizzato. Tra questi, un ombrello, in primo piano, ricorda una delle sue recenti mostre a Roma, Disordini, in cui proprio l’ombrello è sintomo di impossibile protezione.
Per Carlo Cecchi l’arte è discontinuità, è erroresbaglio, una sorta di contrattempo e di ambiguità nella successione temporale delle cose.

Bianco Ombra concentra in sé gran parte della poetica di Cecchi, la sua ambiguità passa attraverso il lavoro del segno, primitivo e tribale. La sua poesia quindi si dà attraverso il gesto. Il segno diventa allora traccia investigativa dell’anima del mondo. Il segno si fa evanescente e dal primo piano via via si dissolve in stelle nere disseminate nell’opera. È il segno che insieme compone l’immagine e dà origine all’equivoco. Un ossimoro, un po’ come il titolo stesso dell’opera.

La sua tribalità, che porta con sé il peso di una preistoria arcaica, si esprime nella leggerezza dell’espressione.
Un possibile paragone letterario può essere Italo Calvino, (leggerezza, lievità). Si tratta dunque di una drammaticità lieve. Intrinsecamente il lavoro di Carlo Cecchi si gioca sui contrari e nei contrari. La leggerezza del tratto è la vera profondità e la vaghezza è la più grande precisione, perché attraverso il vago si coglie l’idea del tutto.
L’arte, per Carlo Cecchi, deve essere mistero: anche nella più evidente delle immagini c’è sempre un non detto.
La bellezza di un’opera sta proprio in quello che non appare. Nell’opera presente, si nota un gioco abile di trasparenze e si avverte in esse qualcosa di ritornante e universale, come in fondo universale è il compito dell’arte stessa. E allora la visione di spalle mi ricorda una frase che spesso sento ripetere da Carlo: «L’arte come l’amore colpisce sempre alle spalle».