Alessandra Baldoni, ATLAS

ATLAS: la mappa di Alessandra Baldoni

Fotografia Europea di Reggio Emilia riapre al pubblico e il ciclo “atlanti, ritratti e altre storie” si confronta di nuovo con il nostro sguardo e nell’intervista ad Alessandra Baldoni

Atlas è la mostra personale dell’artista e fotografa Alessandra Baldoni, all’interno del progetto Atlanti, Ritratti e Altre Storie ospitata nelle sale del piano nobile di Palazzo da Mosto, a Reggio Emilia. Una personale visione, a cura di Gigliola Foschi, premiata dalla Call del Festival Fotografia Europea, che si lega con un fil rouge agli altri autori che si susseguono nella antiche stanze, quasi si trattasse di un racconto corale ed inconsapevole.

Atlas, fin da titolo, esprime la volontà di una indagine sì analitica ma anche lirica della relazione tra dimensione esteriore ed universo interiore, formalizzata mediante il ricorso al dittico o al trittico, dunque, discussione tra immagini e pensieri tale da generare una sorta di atlante, di warburghiana memoria, teso a lasciare una traccia tra latenze e presenze. Ho incontrato Alessandra Baldoni all’opening di Fotografia Europea, visitando Atlas con la sua guida; oggi, a pochi giorni dalla riapertura al pubblico del festival, condivido con i lettori un nostro dialogo in foggia di intervista che possa servire anche a svolgere il filo del proprio personale atlante di storie e ritratti.

Azzurra Immediato: ATLAS. Cos’è per Alessandra Baldoni un Atlante?

Alessandra Baldoni: Un Atlante è prima di tutto un metodo, una strategia di narrazione del mondo fatta attraverso la scelta e, nel mio caso specifico, il montaggio in sequenze di immagini. È una macchina di significazione, una caricatore di senso. La selezione, l’individuazione di ciò che va salvato e trattenuto, e l’abbinamento di fotografie accendono ed accedono ad un orizzonte di senso. L’accostamento e la giustapposizione di immagini le “incendia”, le illumina in modo inedito rendendole una storia, un racconto mai del tutto svelato perché pieno di possibilità, di crocicchi, di cartelli messi al contrario, di indovinelli. Lo stesso spettatore costruisce una sua trama, le rime e le somiglianze vengono lette ed interpretate ogni volta. Un Atlante è una cartografia di significati e di silenzi, una mappa che determina e decide il mondo, è un archivio vivo, non fermo ma fluttuante. Costruito attraverso accostamento di immagini in dittici e trittici alla ricerca di somiglianze più o meno manifeste, di assonanze e di forme ricorrenti, il mio Atlas cerca il segreto che attraversa le forme del mondo e in questo senso credo sia più vicino ad un libro di poesie che ad un atlante geografico.

A.I.: Come è nato questo lavoro, una ricerca tradottasi in una mostra itinerante, presente al Festival di Fotografia Europea di Reggio Emilia e che, in verità, continua a crescere?

A.B.: In effetti l’Atlas continua a crescere, hai ragione. A volte per una mia personale ricerca, a volte spinto dallo stimolo di committenze come ad esempio il lavoro fatto per la Fondazione Zoli di Forlì legato alla Sinagoga di Pisa e al Mausoleo di Galla Placidia a Ravenna. È un metodo, una chiave di volta per raccontare il mondo. Atlas è nato dall’incontro e innamoramento dell’Atlas Mnemosyne di Warburg e da una mia passione personale per gli atlanti di tutti i tipi e generi. Ma c’è anche una scintilla, un sentimento che viene dalla poesia che è quel luogo dove io vado sempre a cercare l’oro, che mi cura e mi risponde, che mi innesca esplosioni e mi fa brillare. “Noi siamo i soli a poter gioire / del segno che ci lascia una mancanza – /la somiglianza è tutto il nostro regno.” Silvia Bre

A.I.: Il rimando ad Aby Warburg ed all’Atlas Mnemosyne si propone come alpha ed omega della tua ricerca rispetto a questo progetto, determinando, però, l’origine di un universo totalmente tuo, personale, frutto di visioni e suggestioni condensate nella tua prospettiva. In che modo la fotografia può far convivere esperienze così lontane ma affini?

A.B.: La fotografia è per me molto simile alla scrittura. È un modo per aprire porte, varcare soglie. Le mie emozioni sono sempre appese alle righe di una pagina ed in un certo senso vorrei che le mie immagini si sollevassero dalle parole. Non riesco a vedere distinzione tra le cose… in realtà fa tutto parte di un’educazione sentimentale, concedimi questa definizione, che determina il mio sguardo sul e nel mondo. Passo gran parte della mia vita a visitare i musei, sono umbra e non potrei prescindere da una certa architettura, dalle pietre chiare dei muri spessi, dai volti etruschi, da Giotto ad Assisi, Pinturicchio, Piero della Francesca e dalle opere meravigliose della Galleria Nazionale. Probabilmente il mio amore per il ritratto, per lo splendore dei volti viene da lì. Come una certa idea di grazia e misura è qualcosa legato ai miei studi classici. Forse è per questo che mi sento warburghiana, per queste incursioni tra mondi ed epoche diverse in cerca di similitudini, legami, cordami nascosti e riproposizioni: arte classica, rinascimento, cinema, letteratura, musica, immagini di giornali, oggetti di uso comune, paesaggi, natura… In realtà la fotografia mi permette di attraversare in lungo ed in largo il mondo e di risemantizzarlo secondo un mio codice, un canone del tutto personale ma fatto di sovrapposizioni, di archeologie e “scavi sentimentali”.

A.I.: ATLAS, come accennato, è diventata una mostra di galleria, tra Spoleto, Milano e Bologna e, al contempo, una mostra di festival. Come sei riuscita a modulare il progetto attraverso gli spazi, uguali e differenti della ‘dimensione galleria’ con quello di Palazzo Da Mosto a Reggio Emilia?

A.B.: Atlas è un lavoro complesso, composto di molte sequenze (allo stato attuale sono più di cinquanta) ed ogni volta ho scelto insieme ai galleristi e ai curatori quale taglio dare alla mostra, quale parte poteva essere più interessante rispetto allo spazio e all’intento. È capitato in alcune circostanze che prevalessero le sequenze più legate al paesaggio,  altre volte invece in cui i dittici ed i trittici dove era presente il ritratto fossero decisamente più centrali. Ogni volta attraverso Atlas da un punto cardinale diverso: una nuova direzione, una raccolta nella raccolta, una strada prediletta. E devo dire ogni volta viene fuori una specie di playlist, una colonna sonora e visiva diversa. A Bologna per esempio, all’Ariete artecontemporanea, abbiamo posto l’accento sull’aspetto più misterioso e perturbante del progetto.

Pensare ed allestire Atlas a Palazzo da Mosto è stata davvero un’esperienza incredibile. Ho esposto un numero importante di sequenze, dittici e trittici di varie dimensioni- anche molto grandi- con questa idea di far immergere lo spettatore in una costellazione di immagini in movimento. Lo volevo al centro di una carta astrale, circondato da sequenze fatte di armonie connessioni assonanze. Inoltre la presenza di affreschi antichi posti in alto sulle pareti mi ha permesso di far dialogare non solo le immagini seguendo una lettura orizzontale ma anche verticalmente creando un atlante dentro l’atlante e mettendo in relazione le mie immagini con un passato che ancora magnificamente splende.

A.I.: Il mondo che narri è immaginifico, evocativo di suggestioni che sono continuo dialogo tra le immagini anche laddove tale colloquio appare solo ad una seconda profondità di lettura. La filosofia è parte e traccia dei tuoi scatti, dei tuoi ritratti. Cosa ti affascina maggiormente, le differenze o le attinenze tra soggetti, storie e racconti? E cosa, d’istinto, lasci emergere dai tuoi itinerari estetici?

A.B.: Sono sempre in cerca di immagini sospese, misteriose. Vorrei che fossero instabili, lacunari, indiziarie. Mai strettamente esplicite. Oltre la loro rassicurante presenza estetica mi piacerebbe ci fossero vertigini di senso. Vorrei fossero enigmi capaci di trattenere lo sguardo per un tempo maggiore del tempo crudele con cui divoriamo e dimentichiamo immagini come il Saturno mostruoso divora i propri figli nella famoso dipinto di Goya. Ed è vero, è necessaria una seconda profondità di lettura, una sorta di meditazione e di mediazione insieme: chiedo allo spettatore di fermarsi, indagare e tradurre. Di immaginare partendo da una parte, da un taglio nella trama che lascia intravedere qualcosa. Dal mio punto di vista cerco sempre un equilibrio, una grazia anche nello scontro tra immagini, quando le avvicino per un contrasto. Anche nella lotta vorrei fossero guerrieri dalla armature lucenti forgiate dagli dei. Lascio che siano le immagini a guidarmi, è un processo in parte istintivo e in parte archeologico…va a cercare e disseppellire reperti nella mia memoria, ricompone frammenti di ossa sparse, ordina le ammoniti ed i fossili per datazione. E in questa specie di museo del mondo mi rendo conto che le storie si incontrano e si riconoscono tra loro, parte della sceneggiatura che ho in testa si scrive e accade incontrando i luoghi e le persone.

A.I.: “L’intera umanità è eternamente schizofrenica. Forse esiste un comportamento nei confronti delle immagini della memoria che può essere definito ontogeneticamente originario e primitivo, benché rimanga secondario. In uno stadio successivo l’immagine della memoria non scatena un movimento riflesso pratico immediato, sia esso di natura religiosa o aggressiva. Ma le immagini della memoria sono ormai consciamente immagazzinate sotto forma di raffigurazioni o segni. Tra queste due fasi si situa un modo di trattare l’impressione che possiamo definire come forma di pensiero simbolico.” Come ben sai queste parole appartengono a  Warburg, come ti poni, perciò, in merito a tali affermazioni?

A.B.: Nelle fotografie di Atlas la parte più costruita in senso stretto è quella dei ritratti. Ed è incredibile come nel momento della messa in scena i volti che scelgo si riconoscano –specchiandosi- nella narrazione. In un certo senso è come se andassi ad immergermi in un passato “mitico” non perfettamente a fuoco, avvolto da una specie di ombra che scontorna le cose… ne resta come un’impressione, una nostalgia. È come se risalissi ad un calco partendo da frammenti di una statua, è come capire che i segni non sono incomprensibili ma appartengono ad un linguaggio di cui non ricordavo l’alfabeto. Come artista questa specie di discendenza comune dei nostri simboli, spesso inconsapevole, mi permette di attingere ad un tesoro celato. E sorrido pensando che in qualche modo il mio è un aprire il sipario, o meglio uno scostarlo appena per lasciare intravedere dei déjà vu, qualcosa di lontanamente familiare che ci fa stare in silenzio nel tentativo di effettuare una ricognizione, un riconoscimento. Come quando sappiamo di avere una melodia in testa ma non riusciamo ad afferrarla e facciamo il vuoto intorno spingendo tra immaginazione e memoria finché finalmente non riappare. Allora è una specie di sollievo.

A.I.: Infine, progetti per il futuro? Che tragitto darai al tuo atlante personale?

A.B.: Molto difficile in questo momento guardare oltre questo tempo incerto. La sensazione è quella di assistere ad un naufragio. Sto portando avanti un progetto curato dal collettivo Covisioni di Bologna iniziato il quattro maggio (fine del primo lunghissimo lockdown) e che avrà la durata di un anno nel tentativo di raccontare come sono cambiate le relazioni umane al tempo del Covid-19 . Il mio lavoro si intitola Il futuro non è più quello di una volta. È una specie di diario di bordo, singole fotografie si alternano a sequenze, il tutto corredato da brevi scritti. Sono immagini molto simboliche, cerco di raccontare quello che vivo e vedo attraverso segni e metafore. Tra i miei progetti inoltre c’è quello di pubblicare un libro di Atlas, è una cosa cui terrei molto. Riguardo Atlas, vista l’esperienza di Palazzo da Mosto, mi piacerebbe avere l’opportunità di pensare ad un lavoro legato ad una pinacoteca, una galleria nazionale o un museo civico. Vorrei poter dialogare con opere antiche, costruire sequenze e similitudini partendo dai volti, dai panneggi, dai dettagli e dai simboli. Credo che questo sia uno degli aspetti più intriganti dell’Atlas. Attraversare il tempo, cercare risonanze e appartenenze, genealogie e lignaggi tra le immagini attraverso i secoli.

Il viaggio simbolico costruito da Alessandra Baldoni propone una sorta di convergenza metaforica e, al contempo, fascinosamente straniante; fotografia contemporanea e dettagli, frammenti dell’arte moderna convivono parlando un linguaggio universale. Ciò che osserviamo è uno specchio della nostra percezione, dinanzi alla costruzione e alla ‘mappatura’ dell’artista, il compito del viaggiatore nell’arte è quello che trascrivere idealmente il proprio percorso, in una sorta di singolare attraversamento esistenziale.

Alessandra Baldoni
ATLAS
a cura di Gigliola Foschi
Reggio Emilia, FOTOGRAFIA EUROPEA
Palazzo da Mosto, via Mari 7
Riapertura dal 10 febbraio
Mercoledì, giovedì, venerdì: 14:00 – 20:00

Ph courtesy, l’artista

Azzurra Immediato

Azzurra Immediato, storica dell’arte, curatrice e critica, riveste il ruolo di Senior Art Curator per Arteprima Progetti. Collabora già con riviste quali ArtsLife, Photolux Magazine, Il Denaro, Ottica Contemporanea, Rivista Segno, ed alcuni quotidiani. Incentra la propria ricerca su progetti artistici multidisciplinari, con una particolare attenzione alla fotografia, alla videoarte ed alle arti performative, oltre alla pittura e alla scultura, è, inoltre, tra primi i firmatari del Manifesto Art Thinking, assegnando alla cultura ruolo fondamentale. Dal 2018 collabora con il Photolux Festival e, inoltre, nel 2020 ha intrapreso una collaborazione con lo Studio Jaumann, unendo il mondo dell’Arte con quello della Giurisprudenza e della Intellectual Property.