Gabriele Perretta, Passages, 2020

Allegorie Storiche: sulla questione del Nano Gobbo [Seconda parte]

“Trovare questo polo. Quelle che per gli altri sono delle deviazioni sono per me i dati che definiscono la mia rotta. Io baso i miei calcoli sui differenziali del tempo che per gli altri disturbano le «grandi linee» della ricerca”. W. Benjamin, Parigi capitale del XIX secolo, Torino, Einaudi, 1986, p. 591.

© Heinrich Heidersberger, Laederstraede, Kopenhagen, 1935. www.heidersberger.de

Invito alla lettura:
I saggi e i frammenti qui raccolti sviluppano le concezioni di Walter Benjamin sull’analisi dell’allegoria storico-teologica, la simbologia del Nano Gobbo e i frammenti sulle Tesi di Filosofia della Storia. Nel costellato universo critico di W. B., la scrittura interpretativa del Nano Gobbo sorge come spazio che polarizza il vociferare diverso, favolistico e cronachistico dei fatti storici. La sua penna quotidiana e insaziabile è la vocazione paziente di una scrittura frammentata e corale: il Nano Gobbo si fece lavorio della domanda e frammento di una pratica di osservazione inesausta, prorompente e interstiziale. Attraverso una scrittura di sé e dell’altro, composita e travagliata, Gabriele Perretta a confronto con delle apparizioni biografiche di W.B. trascrive le trasformazioni del presente, dando forma alla realtà della letteratura e della critica. Ciascuno dei passaggi qui presentati indaga tutte quelle formazioni concettuali in cui comincia forse, a diventare chiaro quanto pensiero c’è nel percorso di un confronto col Nano Gobbo e quanta visione è già sempre costituita in una forma di pensiero in divenire. 

2. La performance del Nano Gobbo: Dibbuk era un Nano Gobbo anonimo, fragile, non proprio in salute. Nato durante l’Infanzia Berlinese, aveva sofferto a causa dello storicismo e della sua condizione di manipolatore interno del marchingegno dell’automa del Giocatore di Scacchi, sia allo stadio di bruco, sia allo stadio di crisalide. Cresceva pesante e gracilino, debole ma corpulento, ansioso, un poco asmatico, insicuro e introverso, flessibile e precario antelitteram. Essendosi un giorno posato su una panchina, sempre la stessa, qualcosa … o il fato storico, volle che fosse portato in un Bar di Piazza Sempione dove le foglie autunnali ornavano il passaggio di sentiero di un comizio di quartiere. Raggiungere lo stesso giorno, un boschetto poco lontano, fu cosa facile. Col passare dei giorni l’aria pura, l’ambiente tranquillo, la varietà di piante e fiori, la buona compagnia, l’amicizia con Luciana, l’incontro con Anna, aitante dibbuk gentrificato che controllava da vicino e con premura i suoi stazionamenti, i nuovi stazionamenti, il fruscìo al posto del rumore, la rugiada mattutina, l’Aniene canterino … tutto questo, insomma, aiutò l’Anonimo ad acquistare come si suol dire, una bella cera. Le scaglie delle ali divennero follette, i suoi voli più audaci. Tutti lo ammiravano e gli sguardi incuriositi si offrivano alla sua attenzione ed al suo silenzio.Toccargli la Gobba poteva cambiare la vita, vincere al Lotto o al Totocalcio. Nessuno aveva il coraggio di fermarlo, chiedergli qualcosa, tanto per avere un approccio, un minimo di dialogo che portasse alla sua identificazione. Il fine ultimo: cercare dico toccargli il piccolo promontorio. 

Anche lui faceva parte di un unico paesaggio, animato da tante persone, dal ripetersi dei gesti, dalla quotidianità della vita. Nelle giornate di pioggia e di vento, il dondolare delle cime degli alberi, i sedili deserti, le pietruzze lisce delle poche foglie cadute, ingiallite, lucenti nell’acqua che scorreva, davano al viale un aspetto di desolazione, di abbandono. Le condizioni atmosferiche impedivano i frequentatori di avere il proprio ruolo in un contesto abitudinario, dove l’ambiente non offriva di meglio. Le mamme e i bambini rimanevano a casa con le restrizioni dell’ultimo DPCM, i vecchi davanti alle finestre, aspettavano il diradarsi delle nuvole, i podisti erano costretti ad un riposo forzato. Il Gobbo era assente, chissà dov’era; sicuramente al riparo, in un ignota abitazione. L’istinto della superstizione destava interesse per una persona senza nome, dandogli una funzione mediatica. 

Il sole rispuntava con i suoi raggi penetranti, tutto ricadeva nell’aspetto di sempre, il viale ritornava ad accogliere i propri frequentatori, ognuno con il suo modo di essere, le proprie delusioni, le proprie speranze. Anche il Gobbo partecipava a movimentare il luogo, a calpestare le minuscole pietre arrotondate, spostandole per la labile collocazione. 

Toccargli la Gobba, era diventato, per alcuni, un’assidua intenzione; ma come affrontarlo? Occorreva organizzare un piano che portasse al contatto, ad un abbraccio. Fingersi un affezionato sostenitore, un amico d’infanzia, o inscenare un incontro casuale con il dubbio del riconoscimento. Tentare ne valeva la pena, bisognava decidersi, forse il gesto avrebbe comportato una malinconia. Ma se andava bene per uno, gli altri quali strategie avrebbero adottato? Fingersi tutti parenti o amici era impossibile. 

La Gobba di Dibbuk era personale, privata, non poteva diventare pubblica. Le statue dei santi si toccano, si baciano, si pregano come rappresentanti dell’essere miracoloso; ma la Gobba del Dibbuk? L’iniziativa, il colpo decisivo, almeno una volta tardava a realizzarsi. Non a tutti capita di avere un gobbo a portata di mano, così come non a tutti capita di avere contrasti con la storia e la cronaca presente. Lì, in quel viale, c’era lui, quasi tutti i giorni, ma perché nessuno osava? Perchè tutti hanno paura di interrogare l’Omino che ci mette a riflettere sulle condizioni del tempo Presente? Perchè tutti fanno fatica a guardare la cronaca come un tempo permissivo che pone una domanda teologica fuori dal coro? Chi non ha necessità di una toccatina o di una consultazione col Nano Gobbo? Chi non avviene ad una domanda sul destino, sul futuro del mondo? Con i tempi che corrono, con le Thesen che si riscrivono, un po’ di fortuna non guasterebbe, aiuterebbe a vivere meglio, a risolvere i problemi che l’esistenza ti crea. Siamo invece abituati ad assorbire le impercettibile variazioni come una nuova proposta rivoluzionaria, anche se tutto rimane come prima e il Nano Gobbo perde la sua funzione di immagine dialettica, anche perchè questo mondo è stanco di interrogare, attraverso il negativo, qualcosa di nuovo. Il negativo è stato assimilato come unica possibilità di realizzare il futuro!

I giorni, sempre uguali, sempre con lo stesso Covid 19 e con lo stesso distanziamento, passavano, l’attrazione era sempre presente, ma quel “toccare” sembrava impossibile, non era facile violare una proprietà per scopi specifici, personali, approfittare di una disgrazia che sicuramente rendeva infelice un mal capitato e specularci per avere dei benefici. È immorale che la cattiva sorte possa recare del bene. Il male dell’esistere in una condizione avvilente, dove l’armonia e l’estetica vengono vilipesi, danneggia lo spirito, fa odiare gli altri, induce all’isolamento perché si rifiuta l’anormalità. Molti approfittano del disagio altrui per scherno, per convenienza, per tornaconto, per pregiudizio, rendendo l’intoccabile dignità un amuleto vivente. 

Il Nano Gobbo era lì, solo, forse immaginando il desiderio di tanti, perché consapevole dell’irrispettosa indole storicista. Era impossibile sovvertire, per incanto far sparire la Gobba, diventare uno come tanti e non provocare istinti. La Gobba esisteva, nota a tutti. 

Era Domenica, la giornata tiepida invitava ad affollare il viale, il rumore dei passi sulla ghiaia dava quasi fastidio; le solite facce con gli stessi problemi, gli stessi pensieri, gli stessi discorsi. Lo sport, la politica, la cronaca, i fatti personali erano gli argomenti dibattuti. Non c’era il Nano Gobbo, mancava l’attrazione rappresentata da un anonimo omino con il passo lento, il vestito sempre uguale, la gobba bene in vista, oggetto di desiderio, anomalia da tenere in considerazione. 

I giorni, sempre uguali, trascorrevano nella monotonia, nella noia che l’abitudine genera. La voce s’era sparsa: il Nano Gobbo era sparito. Dove cercarlo? In quale incunabolo provare a leggerlo? In quale allegoria alluderlo? Era sconosciuta la sua dimora, la sua provenienza, la sua tradizione simbolica, il suo status artistico, il suo orizzonte d’attesa; non si era fatto in tempo, nessuno aveva sfruttato l’occasione, approfittato della compiacente opportunità. Era mancato l’ardire, lo stendere una mano in modo repentino, toccare e andar via. Che reazione poteva avere un Nano Gobbo? Forse avrebbe gradito che una parte del suo corpo fosse ambita, desiderata al tatto una parte della sua storia, accarezzato un pezzo della sua allegoria, legittimata l’immagine del suo destino. Il difetto si trascina, ci si abitua a conviverci, diventa parte della normalità; molti lo notano, lo usano, ce lo ricordano.

Walter Benjamin

Il Nano Gobbo non si fece più vedere, era sparito, dissolto nel nulla del processo storico. Niente di nuovo accadeva che potesse stimolare curiosità, tranne qualche assenza dovuta alla naturale dipartita. Ormai mancava l’oggetto istigatore a compiere gesti propiziatori legati alla credulità popolare. Gli animi si erano svuotati, tutti avevano dimenticato. Rimaneva la letteratura, perché fa parte della vita! Nella prima tesi introduttiva Benjamin riprende il saggio di Edgar Allan Poe (nella versione tradotta da Baudelaire), Il giocatore di scacchi di Maelzel, per identificare metaforicamente i due poli a partire da cui intende formulare un nuovo concetto di storia: il materialismo storico (identificato con l’automa giocatore di scacchi) e la teologia (rappresentata dal nano gobbo che lo guida). Il materialismo storico è, l’intera Apparatur costituita dal fantoccio, dal nano, dalla scacchiera e dal tavolo corrispondente. Fuor di “allegoria”, è chiaro che l’azione politica del marxismo non potrà essere incisiva, nei tempi bui del nazismo, soltanto con il suo metodo diairetico, senza un intervento esterno. In questo caso, la teologia ha un significato soprattutto storico, in quanto indica lo sguardo per una nuova concezione del tempo e della “cronaca” che possa indirizzare l’intervento rivoluzionario della classe oppressa che lotta. La salvezza in Benjamin è disperata, ha bisogno del confronto concreto degli uomini con l’Apparat in cui agisce il Nano Gobbo. In altri termini, essa può venire solo dal lato di interrogazione delle cause finali. È come se il Nano Gobbo fosse il contraccettivo aporetico e interrogativo al De Civitate Dei di Sant’Agostino. È necessario però interpretare l’intervento della teologia nella storia, come guida per la salvezza, sul piano etico-​politico: bisogna agire per modificare la realtà mettendo in gioco la propria vita, con la consapevolezza che non si ha nulla da perdere in questa vita, in quanto l’azione, rispetto alla passività sconfitta in partenza, ha perlomeno il vantaggio della scommessa, della speranza che qualcosa possa davvero cambiare. In caso di sconfitta resta la speranza in un’altra vita, nella ricompensa del giusto, anche se si tratta di una speranza ‘disperata’. Benjamin, dunque, che considera veritiera la ricostruzione razionale di Poe, si serve soltanto dell’immagine metaforicamente più efficace per il suo discorso, il nano gobbo, che è l’immagine speculare della «teologia, che oggi, com’è a tutti noto, è piccola e brutta, e tra l’altro non deve lasciarsi vedere.» (W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Torino, Einaudi, 1997, p. 21). Il nano gobbo della prima tesi non allude, quindi, a una persona reale, ma ad un’immagine dell’infanzia che ‘muta di funzione’ (in senso brechtiano) diventando la metafora della teologia in un contesto storico più ampio della propria esperienza personale (che rimane comunque sullo sfondo in quanto, in Benjamin, come abbiamo visto citando il saggio di Rank, non è possibile separare la riflessione critica da quella psicologico-​soggettiva). All’omino gobbo è dedicato anche un paragrafo del celebre saggio del 1934 su Franz Kafka, e non è un caso che ricorra a questa figura per rappresentare lo scrittore praghese come un «fallito» e per accostarla al personaggio più kafkiano, Odradek:
«Questo ometto è l’inquilino della vita distorta; e svanirà quando verrà il Messia, di cui un gran rabbino ha detto che non intende mutare il mondo con la violenza, ma solo aggiustarlo di pochissimo.» (W. Benjamin, Franz Kafka, in Opere complete VI. Scritti 1934-1937, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, ed.it. a cura di E. Ganni con la collaborazione di H. Riediger, Torino, Einaudi, 2004, p.147) 

Nel testo su Kafka Benjamin cita altre due strofe della filastrocca dell’omino gobbo non comprese nel pezzo citato di Infanzia berlinese
«Nella stanza voglio andare/ a rifare il mio lettino, / un omino con la gobba ahimè compare / che si mette a ridacchiare. […] / Sulla panca m’inginocchio/a pregare un pochettino, / un omino con la gobba ahimè compare/ che con me vuole parlare:/ prega piccol mio/ per l’omino con la gobba prega Iddio» (pp.147-148)

L’omino gobbo è anche il titolo del primo capitolo della biografia su Benjamin di Hannah Arendt, e la sua non è stata una scelta casuale. Infatti, la caratteristica principale dell’esistenza di Benjamin fu la sfortuna e l’incapacità di modificare le condizioni della propria vita:
«Con una precisione che ricordava quella di un sonnambulo, la sua imperizia lo conduceva inevitabilmente sempre al centro della sfortuna, o dovunque qualcosa di analogo potesse celarsi. Così, nell’inverno del 1939-40, il pericolo di bombardamenti gli fece decidere di lasciare Parigi alla volta di un luogo più sicuro. Be’, non fu sganciata una sola bomba su Parigi, ma il luogo nel quale Benjamin si rifugiò, Meaux, era un centro di assembramento di truppe e probabilmente uno dei pochi luoghi della Francia seriamente a rischio in quei mesi di guerra annunciata.» (H. Arendt, Il pescatore di perle. Walter Benjamin 1892-1940, trad.it. di A. Carosso, Milano, Mondadori, 1993, pp. 13-14 (lo stesso saggio è contenuto in Id. Il futuro alle spalle, a cura di L. Ritter Santini, trad.it.di V. Bazzicalupo e S. Muscas, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 43-103.). 

In un breve racconto del 1935, Rastelli erzählt, Benjamin introduce per la prima volta la metafora del nano: Rastelli narra, infatti, di un giocoliere famoso che con un semplice pallone riusciva a creare le più svariate figure. In realtà dentro il pallone vi era nascosto un nano dotato di grandissima abilità, che riusciva a compiere quegli esercizi straordinari rispondendo a ogni minimo impulso del giocoliere. Ma il giorno in cui questi riuscì a svolgere l’esibizione con risultati ancora più sorprendenti, il nano non si trovava dentro il pallone perché era a letto ammalato e, quindi, senza rendersene conto, aveva operato da solo come se il nano ci fosse.

Bertold Brecht e Walter Benjamin, Partita a scacchi, …

Rastelli racconta…
«Ho appreso questa storia da Rastrelli, l’impareggiabile indimenticabile giocoliere che la raccontò una sera nel suo camerino. C’era una volta, nei tempi antichi, – cominciò – un gran giocoliere. La sua fama si era propagata in lungo in largo, nel vasto mondo, grazie alle carovane e alle navi mercantili, e un giorno sentì parlare di lui anche Mohammed Ali Bei, il sovrano dei Turchi. Questi inviò i propri ambasciatori in tutte e quattro le direzioni con l’incarico di invitare il maestro a Costantinopoli per potersi convincere della sua abilità nella propria stessa imperiale persona. Mohammed Ali Bei doveva essere un principe dispotico, a volte persino crudele, e di lui si raccontava che, per suo ordine, fosse stato gettato nella prigione più buia un cantore che si diceva avesse cercato il suo ascolto senza però aver incontrato il suo plauso. Era però nota anche la sua generosità, e un’artista che gli desse delle soddisfazioni poteva contare su grandi ricompense. Qualche mese più tardi il maestro arrivo nella città di Costantinopoli. Non venne però da solo, anche se non volle dare troppo nell’occhio con il suo accompagnatore. E comunque con lui avrebbe potuto pretendere onori particolari. Tutti sanno infatti che i despoti orientali avevano un debole per i nani. E l’accompagnatore del maestro era proprio un nano, o meglio era figlio di nani. Ed era talmente fine e delicato, un esserino così grazioso e svelto che non avrebbe trovato l’eguale nella Corte del Sultano. Il maestro tenne nascosto questo nano, avendone buoni motivi. Il suo modo di lavorare differiva infatti da quello dei propri colleghi, che come è risaputo sono andati alla scuola cinese, dove hanno imparato a destreggiarsi con bacchette e piatti, spade e tizzoni ardenti. Il nostro artista invece non cercava di farsi onore trattando chissà quanti e quali oggetti, ma basandosi su un solo requisito, che era il più semplice e che si segnalava soltanto per via della sua insolita grandezza. Era una palla. Questa palla l’aveva reso famoso in tutto il mondo e, in verità, nulla poteva eguagliare le meraviglie che lui riusciva a ottenere con essa. Per coloro che avevano seguito con lo sguardo il gioco dell’artista era come se egli avesse a che fare non con una cosa inerte, ma con un compagno vivo, che di volta in volta poteva essere arrendevole o scontroso, delicato o beffardo, premuroso o indolente. I due sembravano avvezzi l’uno all’altra, e pareva che non riuscissero a fare a meno l’uno dell’altra, sia nel bene che nel male. Quella palla restava un mistero per tutti. Al suo interno, come un elfo flessibile, era disposto il nano. In anni e anni di esercizio era riuscito ad adattarsi a qualsiasi sollecitazione e movimento del padrone, e ormai agiva sulle molle presenti all’interno della palla con la stessa scioltezza di chi operi sulle corde di una chitarra. Per togliere qualsiasi sospetto, Essi non si facevano mai vedere l’uno a fianco dell’altro, e nei loro viaggi il suo aiutante non abitavano mai sotto lo stesso tetto. Il giorno raccomandato dal sultano era arrivato. Nella sala della Mezzaluna, piena zeppa di dignitari del sovrano, era stato montato un podio attorniato da tendoni. Il maestro s’inchinò verso il trono e portò alle labbra un flauto. Dopo aver accennato alcuni motivi musicali, passò a uno staccato, al cui ritmo la grande palla, muovendo dai celetti del teatro, si avvicinò saltellando. Tutt’a un tratto si sistemò sulla spalla del proprietario, per non allontanarsene più. Essa sfiorava e adulava il suo padrone. Il quale però aveva continuato a suonare il flauto e, come se non volesse saperne del visitatore, aveva iniziato un lento ballo, che sarebbe stato un piacere seguire se la palla non avesse catturato gli occhi di tutti. Come la terra gira intorno al sole e contemporaneamente intorno a se stessa, così la palla girava intorno al ballerino senza al tempo stesso dimenticare di ballare pure lei. Dalla testa ai piedi non c’era punto che la palla non sfiorasse, e ogni punto davanti a cui essa scorreva via diveniva il suo campo di giochi. A nessuno sarebbe venuto in mente di interrogarsi sulla musica di quel mutuo girotondo. Essi stessi infatti facevano esercizi di destrezza l’uno per l’altra: il maestro per la palla, e la palla per il maestro, come ormai da anni era consuetudine per il piccolo e segreto aiutante. Le cose restarono così nella maggior parte del tempo, fin quando di colpo la palla come scaraventata via da un movimento vorticoso del danzatore, rotolò verso la ribalta, vi urtò contro e rimase a saltellare dinanzi ad essa, mentre il maestro si concentrava. Giacché adesso veniva il gran finale. Il maestro ricominciò con il suo flauto. In un primo tempo egli parve voler accompagnare sommessamente, sempre più sommessamente, la sua palla, i cui saltelli erano divenuti sempre più deboli. Ma poi il flauto prese in mano la situazione. Il suonatore inspirò con più energia, e fu come se in questo modo nuovo e vigoroso egli infondesse nuova vita alla palla, i cui salti poco alla volta si fecero più grandi, mentre il maestro iniziò ad alzare il braccio e a portarlo tranquillamente ad altezza della spalla, Per poi distendere – senza smettere di suonare – il dito mignolo, sul quale la palla, ubbidendo a un ultimo lungo trillo, si posò nell’arco di un solo fraseggio. 

Per la sala corse un bisbiglìo di ammirazione, e fu il sultano stesso a invitare alla plauso. Il maestro diede però ancora una dimostrazione della propria arte afferrando al volo la pesante borsa piena di ducati che gli venne lanciata per ordine del sovrano.

Poco tempo dopo uscì al palazzo per attendere, a un’uscita lontana, il suo nano devoto. Egli vide allora comparirgli dinanzi un messaggero che si era fatto largo tra le guardie. «Vi ho cercato dappertutto, signore, – gli disse. – Ma Voi avevate lasciato le vostre stanze anzitempo, e non mi è stato concesso di accedere al palazzo». Ciò dicendo mostrò una lettera autografa del nano. «Caro maestro, non siate in collera con me, – c’era scritto. – Oggi non potete esibirvi dinanzi al sultano. Io sono malato e non posso lasciare il letto». 

«Voi vedete, – soggiunse Rastelli dopo un attimo, – che la nostra categoria non è nata ieri, e che noi pure abbiamo la nostra storia – o perlomeno le nostre storie». 

Le analogie con la prima tesi sono sorprendenti, ma ci sono anche delle differenze significative: il giocoliere, con la sua forza di volontà, riesce addirittura meglio da solo che in presenza del nano. Mi sembra chiaro che è il contesto storico che cambia la situazione: nel racconto del 1935 l’ottimismo e la fiducia di Benjamin nei confronti del materialismo storico e dell’utilizzo in senso progressista dei nuovi mezzi tecnici di comunicazione è al massimo, mentre dopo lo scoppio della guerra, e il patto Ribbentrop-​Molotov del ’39, il suo pessimismo diventa radicale, ripercuotendosi inevitabilmente nel suo ultimo scritto. Riprendendo la lettura benjaminiana del saggio di Poe, un altro particolare importante è «il sistema di specchi», che precede l’introduzione della figura del nano gobbo: 

«Con un sistema di specchi veniva data l’illusione che vi si potesse guardare attraverso da ogni lato.» (W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 21).

Se gli specchi servono per dare l’illusione che la macchina (l’Automa) funzioni da sola, mentre in realtà funziona soltanto grazie al nano gobbo che la guida, di conseguenza ci si illude soltanto che il materialismo storico possa funzionare da solo, mentre in realtà ha necessariamente bisogno della teologia per poter funzionare davvero. Il Progresso – che è un certo tipo di progresso, cioè quello ufficiale delle magnifiche sorti e del viaggio supersonico – ha oggi raggiunto quelle forme di demenziale gigantismo e di inutile complicazione strutturale, che sempre caratterizzano nella storia – naturale o delle società umane – la fine di un filum, di un impero, di una cultura. 

Oh! Il solito e solido realismo degli automi, e il fanciullesco fantasticare dei Gobbi e dei bimbi che amano distruggere i giocattoli per capirli! 

Nei fatti umani, il tempo è una variabile importantissima: la disputa tra i fautori del progresso e i cultori del nihil novi si risolve dando ragione (e torto) ad entrambi, se si osserva che l’evoluzione – secondo il Benjamin del saggio del ‘36 sull’Aura – è un fatto incontrovertibile e pure di una lunghezza geologica. Per esempio, è di conforto notare che nessuno più usa succhiare il cervello dell’automa prossimo, sintomo questo non solo di un miglioramento dei costumi, ma anche di un’evoluzione della storia e della teologia della liberazione, avvenuta nell’arco di poche centinaia di migliaia di anni. È troppo in uso confondere l’arrendevolezza a certi andazzi con l’agire secondo la logica della storia, onde chi va contropelo (contro corrente) viene accusato di compiere operazione antistorica. In realtà, dietro la presunzione di poter agire contropelo, e di stabilire in anticipo chi stia facendo storia e chi no, si nasconde la vecchia tabe razionalistica (fine a se stessa) di poter interpretare la storia del futuro per mera procedura deduttiva delle proprie visioni del passato. In questo, le posizioni idealistiche sono di un determinismo altrettanto rozzo di quelle positiviste, ed entrambe sono posizioni borghesi. In altri termini, dopo la fiducia incondizionata nel marxismo dei primi anni Trenta, Benjamin, in contrasto con Scholem, recupera il messianismo apocalittico della teologia, che è presente nel sottofondo di tutta la sua produzione. Lo storico materialista deve, dunque, ora assumersi una precisa responsabilità etica, prima ancora che politica, ed è sulla base della decisione presa che si giocano il presente e il futuro del materialismo storico e della rivoluzione. Così com’è adesso: anche se non basta più la decisione di una categoria di intellettuali a determinare in modo decisivo il rovesciamento dello status quo. 

Il carattere enigmatico-allegorico-dibbuk del Quaderno sul Concetto di Storia lascia spazio ad una letteratura assai frammentaria e divergente, rispetto alle reali intenzioni dell’autore. Da questo nasce una controversia con l’interpretazione confusa dell’amico di Benjamin, G. Scholem: essa si basa proprio sulla prima Tesi e la questione del Nano Gobbo. Scholem, in maniera molto azzardata, sostiene che Benjamin avesse intenzione di rompere definitivamente con il materialismo storico, per tornare alla dimensione metafisico-teologica dei suoi primi scritti, e afferma che ciò che rimane in comune col materialismo storico sia solo “l’ironica relazione dei termini tecnici”. Secondo la lettura che ne fa Scholem, le Tesi abbandonano definitivamente l’Angelo del materialismo Storico per il Messia della Teologia Ebraica. Invece l’impegno di W.B. dà tutt’altra impressione, quello di giungere ad una definizione, sicuramente diversa del materialismo storico in generale. È proprio la pratica frammentaria delle Thesen, come ho cercato di dimostrare con Nel Tempo dell’Adesso, nonché la critica (nelle Tesi XI e XIII) alla Socialdemocrazia che cerca un approccio nuovo alla difesa della classe lavoratrice (G. Perretta, Nel tempo dell’adesso: Walter Benjamin tra storia, natura e artificio: opere e scritture sulle XVIII tesi di filosofia della storia, Milano, Mimesis, Eterotopia, Quaderni di Millepiani. 2002; inclusa la mostra a Bagnacavallo). Nell’VIII Tesi la difesa dello stato di eccezione come regola capovolge l’interpretazione della catastrofe, di un periodo catastrofico come il nostro! Come cercare l’immagine dialettica dell’ Omino Gobbo, come dialogare tra Omino,Progresso e Destino? Chi vuole un libro di sana lettura prenda tra le mani il Walter Benjamin di Hannah Arendt e non se ne troverà scontento. È un libro che, all’apparenza, non ha un’unità come può averlo un romanzo sul critico berlinese; ma esso è dato dallo spirito che lo permea, dalla visione del triste presente che si affaccia a noi in una gamma infinita di toni di apertura benjaminiana. Questo libro è un prolungamento di quello del ‘68: se si affievolisce il mordente della caduta dell’aura, che rese caro il Benjamin alla nostra gioventù, non manca però la sottile passione e la militanza della filosofia vegliarda, immalinconita dalla storia postuma al 40, ma sempre in lotta con il confusionarismo universale, la canzonatura spietata, la ribellione sempre operante dello spirito politico illuminante di fronte ad una visione frammentaria e parziale della filosofia benjaminiana. Talvolta, c’è un’allegoria militante, che ci ricorda la rete della sua letteratura, ma vi sono anche delle pagine veramente ispirate, come nelle Lettere con la Arendt tra il 1936-40, nonché molto calzanti come l’analisi dell’Omino Gobbo! Scritti su letteratura ed estetica venivano riletti alla luce della critica politica, scoprendo intenti maturati dal confronto col marxismo. Un’accusa che all’epoca si trasformò in polemica, sullo sfondo dell’antagonismo tra capitalismo e comunismo, che richiedeva nuove soluzioni al problema della libertà dell’uomo d’imprimere un senso alla sua storia di catastrofi e non solo di progresso tra politica e teologia.

L’immagine dell’Angelo della Storia ben rappresenta “la regola dell’eccezione presente” e il nostro destino nella contingenza pandemica non è diverso da quello dell’attesa dell’Angelus Novus: il problema è di come sfuggire ad una globalizzazione violenta e mono-liberista, inseguiti dalle nuove guerre biologiche, si fa sempre più pressante – il patto tra le Nuove Destre e Nuove Maschere neo-liberiste in vigore – e noi con Benjamin, inseguiti dalla tempesta di un progressismo che coniuga regressismo e dissociazione, nell’epoca della Catastrofe Totale! Si avverte, insomma, per una pluralità di sensazioni miste, che la ripetitività deterministica ipotizzata dal razionalismo storicista, e che plasmava in sé gran parte del vecchio universo scientifico marxista, è venuta meno in tempi bui come i nostri e ciò comporta differenziazioni, anche vistose, nel modo di vedere le cose e soprattutto nello stato delle attese interiori, nella continua rivedibilità dei valori e delle certezze. Si sente che il determinismo politico è ormai la legge della materia inanimata come di quella apparentemente animata, vivente e volubilmente psichica. Da qui il verificarsi di minacce di nuovo tipo, come la sostituzione del caso con la casualità, e l’introduzione dell’anticaso positivo e negativo, che avviano un atteggiamento interiore di aspettazione, che non implica tanto una previsione dell’atteso Omino Gobbo, quanto un’attesa dell’Angelo Imprevisto. La fabula si piega ad armoniche e compresenti ripetizioni, per sommuovere a poco a poco il nostro profondo, così da mettere in contatto l’anima nostra con un mondo teodiceo, che può essere immenso ma anche ignoto,imprevisto ma forse pur semplicemente difficile. La teleologia è pura iniziazione a un rito oracolare, imprevisto ma forse pur semplicemente difficile; la teodicea è aspettativa di qualche cosa che avverrà senza dubbio. 

Perché andiamo alla ricerca di qualcosa che scarti l’Automaten (in senso negativo) e che si metta in guardia dal ein buckliger Zwerg (nano gobbo)? Perchè nell’attesa è posta per intero la nostra speranza, di essa è compiuta la risposta più urgente, essa diventa pegno di gesto che noi andiamo a intraprendere con foga indicibile e religiosità infinita (dalla parte degli oppressi). Infatti, ci attendiamo infine di poter giungere a vedere squarciati in parte quei veli che tengono nascosti i valori della teologia (che come dice Benjamin, oggi continua ad essere ridicola e brutta) e di quell’immagine, in senso brechtiano, che muta di funzione! Ne deriva che lì dove non riusciamo a captare sensi di classe, lì ove la ripetizione più accanita e il successivo residuo evocativo nulla induce di superiore, lì anche se tutto vuol gridare e frastornare, lì si rimane appiattiti in un’agghiacciante sordità: senza i valori formali rimangono vuote esercitazioni. La teologia della liberazione degli oppressi ha bisogno di significato. Se da una parte il materialismo storico è preso nella morsa dell’isolamento ateologico, della pianificazione dell’Automa, della statistica confusionaria ed allarmistica della demografia minacciosa e millantatrice, dall’altra parte, rimasta occasione di interrogazione, cerca confronti con l’imprevisto catastrofico, nella variabilità, nell’indeterminazione; e se la storia del capitale diviene sempre più, più rifiuta fino al minimo dettaglio la vecchia armatura del materialismo storico, sempre più il nuovo materialismo diviene paradigma aperto e incompiuto, anzi una strada mai conclusiva, di cui si accontenta di carpirne il verso direzionale. E ciò in letteratura, in politica e in teologia soprattutto.