Alla ricerca del nome e del suo ri-trarsi [seconda parte]

Gli uomini moderni, si sa – anche gli artisti – passan la vita a guardarsi ansiosamente d’intorno e ad accordare passo, respiro, parole ai venti della giornata. Pochissimi sanno guardare solamente dentro di sé certi di ritrovarvi una guida infallibile. L’azione del ri-trarsi è di costoro. Infine, simbolo è qualsiasi segno, artificiale o convenzionale, caratterizzato da qualche cosa di simile «all’effetto di indicare». Colui che pensa in modo artistico è ricco di idee, che gli vengono per associazione, spesso senza arrivare alla coscienza. Colui che pensa in modo segnico scava con fatica un pozzo dal quale sicuramente alla fine porterà qualcosa di buono, mentre colui che è ricco di “frasi infinite” spende, senza curarsene, le ricchezze di un tesoro inesauribile.

2. Avevo imparato ad imparare dallo sguardo sulla foto. Magia e attualità del suo essere unica foto. Il linguaggio che l’attraversa si adegua all’interrogativo che la ispira e con la quale di conseguenza si confonde. Da ciò l’ambiguità basic, in particolare della forma fotografica, che sfugge alla rivelazione e al contempo si rivela; perchè ciò che definisce la sua anonimità non è tanto l’inconfessabile, quanto l’inesprimibile. Residui di gioventù, brevi frammenti di identità subitamente perdute, fluire di fotogenie fissate in ricordi, in memorie familiari, rari sorrisi velati di originarietà e di malinconia. Gioco di identità, attraverso il quale si definisce il profilo di una storia e la simultaneità della memoria di somiglianza. Gioco enigmatico di luce e ombra, così bianco e nero e così opaco. Gioco e stralunamento di sguardi, che hanno il sapore del collegamento tra riconoscimenti parentali, affermazione e negazione, tutto e il contrario di tutto, l’ansia di ritrovarsi e la rinuncia a dover risalire a ciò che non siamo stati e non riusciremo mai ad essere. Insomma: gioco dell’individuazione, che sta individuando se stesso. 

Il mio era un buon atteggiamento “prova e vedi”. Purtroppo ero divenuto un po’ pigro da quando l’esterno fotografico era sempre come “me lo pre-figuravo”: l’idea che avevo del mondo aveva spesso sufficientemente spiegato il mondo tramite quello studio fotografico, l’analisi di quel ritratto, le sue rimemorizzazioni e negli ultimi tempi la memoria storica s’era sovrapposta ad essa. Qualcosa ogni tanto, nel ricordo, non concordava ma, con un atteggiamento di fastidio, i dati di quella foto, che si rifiutavano di farsi catalogare, venivano spietatamente eliminati dal mio pc, anche perché erano soltanto degli elementi di un lungo indice e, con una certa insistenza, mi riportavano alle interrogazioni di Warburg. Il lavoro svolto fino a quel momento della mia vita era stato enorme. Se era possibile porsi una domanda, da qualche parte doveva esistere una risposta. 

Se il problema era ben posto, senza ambiguità nella sua formulazione, il protocollo percettivo che lo descriveva era sempre visivamente strutturato e non doveva mai far ricorso a salti incondizionati, per uscire dalla procedura e giungere a una conclusione interpretativa. Le opacità dei ritratti erano perfette. Tenevano conto di tutti i modi nei quali la realtà della memoria assale il connaisseur e di tutte le riproduzioni che si originano da riproduzioni e da parole: riproduzioni e genetica. Le immagini andranno in un sito della nostra testa; i suoi indici potranno andare in un altro. E ci sarà ancora una parte del nostro cervello che elaborerà le parole atte a descrivere la realtà. 

Ma se le parole non vorranno descrivere le fonti di quel linguaggio fotografico, che comunque è stato fermato da qualche parte, allora le parole saranno: no, non, altrimenti, forse, se, eterno, sublime, inferno, paradiso, animo, anima, volto, profilo, somiglianza. Saranno sempre parole senza corpo, senza immagini. Le scene ch’erano rimaste scolpite nella nostra testa, che accadevano nonostante le ritenessimo assurde, rimarranno sempre a testimoniare la loro verità, la loro realtà fotografica. Esse verranno fuori nei momenti più inopportuni come fantasmi fotografici o sotto forma di parole, insieme ad altre parole che vorranno spiegare quelle immagini. Tutte le parole vere, le parole che la testa riesce a vedere con gli occhi della mente, si scrollano e finalmente si liberano di quelle eteree, che le si erano incancrenite addosso all’inutile patina opaca del ritratto, tentativo di nasconderle. Il riflesso stesso dell’immagine, di qualsiasi immagine, le può immaginare. 

3. Foto-Specchi. “Quanti anni mi dai?” mi chiese quell’impronta fotografica. Era riapparsa alla mia vista, da sotto quella tendina, nel momento in cui stavo lasciandomi scivolare dal sonno, dopo una giornata faticosa. 

Aveva l’aspetto distinto di una figura attempata, con i capelli e le sopracciglia bianche. Cercai di indovinare, ma non troppo. “Devi avere superato la novantina da poco.”

Lei rise: “Sei carino! In realtà ho poco più di 13 anni e sono lo specchio, il riflesso di una Mamma”. 

Rimasi allibito e cercai di addormentarmi per non dover cercare di capire, ma la sua voce continuò a parlarmi dentro. “Lo so che non sembra, ma io ho vissuto da figlia davvero solo 13 anni. Gli altri, fin qui, non contano, non mi hanno lasciato nulla della mia infanzia. L’infanzia è qualcosa che non si riconosce più, quando si è costretti a vivere subito da grande dopo la perdita della propria Mamma. Sii buono, non addormentarti prima di aver rivisto, tramite me, la mia storia, non sarà lunga. Attraverso i tuoi giorni io sono ancora viva, anche se abito questo carcere della memoria che non riesce a crollare, non riesce a finire, non riesce a compiersi. La mia e la tua vita sono giorni di specchi e di creazione, tu sei il mio specchio. Ti ricordi cosa dice sulla creazione il primo Levitico? Dice: “ … In principio Dio, quello che non è propriamente il padre, la voce androgina e sbarbata, creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito androgino aleggiava sulle acque. L’androginia disse (e lo disse con la parola e non con l’immagine): “Sia la luce, sia la mia luce, sia la luce che mi fa riflettere in quello specchio!” E la luce fu. Dindrogina vide che la luce era cosa buona per l’immagine e, facendomi apparire come ritratto, mi fece apparire come luce che sostanzia la foto e separò la luce dalle tenebre e chiamò, usando sempre il logos, la luce immagine riflessa e le tenebre notte dell’incomprensibile e dell’ignoto. E fu sera e fu mattina accompagnati dal racconto: prima immagine, racconto della creazione, originariarietà del dire nell’immagine … Dindrogino disse: “Le acque e i riflessi delle immagini brulichino di esseri viventi, di persone, di ritratti animati; uccelli volino sopra la terra, davanti al firmamento del cielo”. Dindrogino creò i “grandi ri-traenti” e i “ritrosini (gli incomprensibili)”, secondo la loro e la mia specie, e tutti gli specchi che si riflettevano e brulicavano nelle acque, secondo la loro idea e il loro auto-specchiarsi, e, poi, tutti i riflessi alati secondo la loro specie. E Dindrogina vide che era cosa buona farsi vedere e allora “videns” aiutandosi con la “loquens” poi esclamò: “Homo loquens!”. Dindrogina fece in modo che le immagini si risolvessero tra presenza e assenza, tra sfaccimma e anti-sfaccimma, essere e apparire, positivo e negativo. Dindrogina, detta anche Gaindrogina, rese i fantasmi e i riflessi immagine, nell’origine della sua parola e del suo dire, ed esclamò: “Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le superfici di persone ritraenti, sottraenti o presenti; le immagini si moltiplichino sulla terra”. E fu sera e fu mattina: quinto giorno”…”. 

Angelo e il Ri-trarsi fotografico sedevano in balcone, quella tiepida sera di giugno, sorbendo una birra, desideravano solo riposarsi e dimenticare i problemi di tutti i giorni che erano legati a quel guardare, a quel fissare il ri-trarsi e l’attesa dello svelarsi e, in più, all’idea stessa di ritratto. L’aria limpida, le mille stelle che brillavano in cielo, il venticello che portava con sé l’odore dell’estate, disposero il loro animo alle discussioni filosofiche sul senso di creazione del ritratto, sì del ritrarsi del ritratto. 

  • A volte mi chiedo – iniziò a parlare Angelo – come sia nato il mondo e se il mondo è in un’immagine del mondo, chi “leviticamente” l’ha detta (l’ha dettata) questa immagine, chi è questo Dindrogeno che “dice la luce” e “la luce è”(?). Ieri ascoltavo alla radio uno scienziato che attribuiva la nascita del mondo al “caso dell’immagine del mondo”, “a lei”, alla bimba di “13 anni che in questa foto somiglia a mia madre”. Asseriva che, miliardi e miliardi di anni fa, alcune cellule di nome Carmela si sono incontrate con alcune cellule di nome Camillo, si sono unite ed è iniziata la prima forma di immagine. Carmela è dunque l’immagine che scaturisce dalle immagini di Carmela. Col tempo quella primordiale forma di immagine si è evoluta e siamo arrivati a quello che vediamo oggi: una sorta di ritratto ri-tratto, una fotografia irriconoscibile, una foto con un potenziale somigliante di Madre, ma pur sempre una foto! Tu che ne pensi, “specchio di madre fotografica”?
  • Che è una stupidaggine! Io sono convinto che tutto sia stato creato da Dindrogina. Il caso? Ma scherziamo? Basta guardare ogni singola particella di quel ritratto, la perfezione della natura, la catena alimentare che risulta dalle sue espressioni, la perfezione dell’universo per dover ammettere in quale orizzonte d’attesa è inserito il personaggio, le vocine interiori che mi solleticano, per dover ammettere che tutto ciò è frutto di un’intelligenza superiore, un clic di tutti i clic, una goccia di sperma di tutte le gocce di sperma; un clic che non risale ad un genere, ma ad una vera e propria dindroginia prossemica e non solo del caos. 
  • Ammesso che la Dindroginia abbia creato il mondo, ma Lui/Lei chi l’ha creata? Da dove è nato il racconto dell’immagine, se non da un altro racconto e da un altro Logos, da un altro dire?
  • Quando guardo questo ritratto, con tutto il suo ri-trarsi, non lo so proprio, mi assalgono solo dubbi. Ho cercato una risposta a questo interrogativo, così come mi sono chiesto dell’origine di quella voce flaubertiana e di quell’altra che in noi fa il controcanto. Ho cercato una risposta concreta, visibile a questo interrogativo, ma non sono riuscito a staccare lo sguardo dal ritratto. 

Rimasero in silenzio per alcuni minuti creando altri argomenti, meno impegnativi, di cui discutere. Angelo, però, tornò a pensare alla creazione di quell’enigmatico ritratto e insistette con l’amico: 

  • Ammesso che Dindrogina esista ed è tua Madre, lei che come dice Courbert ha creato il mondo, che un giorno forse ci farà capire come siano andate le cose, ma, oggi, che fa, dov’è, perchè si ri-trae?
  • Continua a creare nell’Altra/o – rispose Elias. 

Poi, conscio dello stupore che la sua risposta aveva già suscitato in Angelo, continuò: 

  • Non so se Dindrogina, attualmente, sia impegnata nella creazione di altre immagini o di altri mondi, lontani miliardi di anni luce da noi; però so che sta agendo nel nostro mondo, anzi nel nostro vedere, nel mio e nel tuo riflesso, nel mio e nel tuo mondo. Dindrogina volesse, basterebbe una sua parola e tutto si ri-trarrebbe?
  • No, non l’ho mai pensato e non l’ho mai visto riflettere: insomma, la Luce è la luce!
  • Poi – continuò Elias – c’è una creazione più difficile da vedere: quella che passa dall’immagine della Nonna a quella di Mamma e chissà a quale altra attribuzione del mio essere, ma l’azione con cui la parola trasforma l’immagine da esseri che mangiano, dormono e si accoppiano in uomini e donne, cioè individui capaci di amare e fare scelte, dire, cliccare “discorsi” che divengono immagini e poi ancora parole, è presto invisibile, è urgentemente ri-traentesi. Questa, credo, sia la parte di creazione più difficile e lunga, perché si scontra con la libertà della vita e di ciò che rimane in immagine. 
  • Su questo sono della tua stessa idea – interruppe Angelo – ho conosciuto tanti ritratti ma poche persone vicine a quel ritratto!
  • E che ne pensi dei cyber-ritratti o della “teoria degli equilibri punteggiati”? – chiese ancora Angelo – Se un “gradualismo filetico” fosse rivisto dai tratti punteggiati dell’equilibrio iconico, continueresti ancora a credere al ritratto, alle somiglianze, alle riproduzioni e via discorrendo?
  • Certo, che cambierebbe? Non diciamo che l’immagine è la Regina delle Immagini, o che è la Luce stessa, pronunciata, detta, ad essere Regina dell’apparire? 
  • Nessuno ha detto che la Luce ha creato solo un’immagine; la Dindrogilux ha creato l’immagine, la terra dell’immagine, il cielo e tutto ciò che contiene il dire!

Dunque, rimasero in silenzio per molto tempo, a contemplare quella natura irriconoscibile della creazione del quadro che, nella sua imperfezione, li spingeva ad interrogarsi sul Mistero di quell’immagine, come mistero di un Logos!

Voce d’intermezzo:La mia vera dannazione è di essere nata come un modulo fotografico ritratto dalla ritrattazione degli specchi. Non lo dico per vanto, ma io ero capace di fare qualunque cosa mi chiedessero. Ho imparato a camminare prima di tutte le altre bambine, ho parlato entro l’anno e mezzo d’età e a quattro anni sapevo già leggere e contare, anche se non mi facevano leggere e contare. Mio padre e mia madre erano talmente orgogliosi di me che, in certo modo, trascurarono sia i miei fratelli nati prima di me, sia la sorella nata dopo. Forse i poveretti mi odiarono, ma io non mi accorsi mai di nulla. Da piccolissima lavandaia ero prima qualsiasi cosa facessi: vincevo autodeterminazioni da Mammina e borse di studio da inserviente. Così cominciai a guardarmi ed a compiacermi di me. Mi osservai piena di orgoglio, quando incantai tutti durante l’esame di quinta elementare, dato un anno prima degli altri; soltanto uno perché la legge scolastica non mi permise di farlo prima. 
Mi guardai mentre mia madre si ammalava ed io facevo le mie prime conquiste e fui incantata di vedere amore e desiderio negli occhi dei ragazzi. Trovavo giusto che i miei genitori si vantassero di me, più o meno apertamente, con amici e parenti. Fui molto soddisfatta dell’ammirazione che lessi sul viso delle maestre di sartoria, durante l’esame per divenire artigiana. Fui compiaciuta dello stupore che suscitò il mio ago e cucito. 
Fui felice di sentirmi dire che ero profonda ed intelligente, quanto una Mamma adulta. Le mie glorie continuarono durante gli anni di crescita dei miei fratelli. Fui soddisfatta della mia capacità di capire a prima vista la carriera di mio fratello e l’emigrazione in Germania del secondo fratello. Come potrai capire mi compiacqui durante tutto l’apprendistato da Mamma prima che arrivasse un’altra Mamman, un’altra Immacolata Concezione, naturalmente, con la lode. 
A volte ad essere sincera, provavo un senso di vuoto interiore insopportabile, lo stesso che provi tu nel guardare questo ritratto ritrovato e nello scoprire che sono io, sono l’altro del tuo specchio, sono l’altro dei tuoi specchi; sono quella che non sa spiegarsi, ma che ha imparato ad essere molto diretta per arrivarti, sono quella che riesce a superare gli specchi impegnandosi in qualcosa.
“La foto, dentro alla quale mi sono cavata, presenta una struttura somatica e funzionale, che è approssimativamente simile a quella che sperimentiamo nella relazione tra madre e figlio. Questa constatazione è un’interpretazione sulla base del noi, come modello di riferimento. Di fatti, quegli animali che siamo, che strutturalmente si avvicinano di più al modello dell’autoritratto, sono classificati come fotografie antropomorfe, come doppi e maschere del nostro essere. E, con questo rilievo di somiglianza, fondiamo e liquidiamo il significato di animale che è in noi, presumendo di averlo descritto. Comunque, questa immagine della nostra animalità costituisce il riferimento del termine animale che entra strutturalmente nella definizione ricorrente di somiglianza. Il che vuol dire che, per quanto attiene a questo aspetto, interpretativamente insufficiente, la definizione di ritratto è povera ed approssimativa, così come è povera ed approssimativa la rivelazione del ritratto.L’originario dell’immagine è la mia immagine empirica, al di là della sua riconoscibilità. Il mio mondo e la mia realtà sono nella mia stessa immagine. Tutto ciò che è fuori lo ignoro, perchè io sono già il fuori di me stessa e quindi, di fronte a te, l’irriconoscibile e l’insomigliante. Anzi, ciò riconferma il mio limite di possibilità e di possesso: indice e non metafora. Nessuna contraddizione, solo frammenti lontani, lontani frammenti di realtà. Non esperisco ciò che è fuori della mia rassomiglianza, ma ne raccolgo segni di esistenza. Quando non riesco a decifrare, sulla base della mia empiria, il linguaggio di un altro, credo nell’esistenza di esperienze che io non ho. Ed a provocare questa intuizione è la mia stessa condizione di essere immagine, di essere rassomiglianza, il mio senso del limite di essere apparenza. 
Ma per il fatto che nulla si pone fuori dalla mia iconografia bidimensionale (e la stessa intuizione del fuori cade nella mia indicalità), non prova di per sé che la mia coscienza di immagine è il mio originario istantaneo. È vero che senza la mia indicalità non potrei mai scoprirmi ominicoinvolgente, omnisomigliante, né potrei mai farti accorgere che il mio universo empirico sia suscettibile di incremento, o che sia in sè insufficiente. È vero! Ma non per questo l’immagine si pone come l’originario in me e per me. Essa opera sul mio originario ed investe l’originario della mia somiglianza. Serve per la tua scoperta dell’originario, ma non per la costituzione dell’originario: ti ricordo che io sono una Mammina, una Mamm fotografia, la tua Mamm-fotografia, ma non la tua Mamma. La matita della natura, anche nella sua accezione grafica, non è la natura. So che la natura è una meravigliosa visione di animali, di piante, di montagne, di mari, e più lontano, nello spazio, oltre il sole e la luna, vedo tanti punti luminosi. La mia è una conoscenza superficiale e macroscopica. Io come documento fotografico parlo in te che mi guardi, parlo attraverso il tuo linguaggio, mio amato figliolo. Gli esperti affermano che vi sono sterminate zone inesplorate della psiche e della natura ambientale, ma esse grazie a Dio rimarranno sempre così, la fotografia non sarà mai una fotografia del globo terracqueo e del suo mondo animale ed umano. La natura è attraversata da infinite zone d’ombra. Ma l’esplorato, il guardato, il visto possono essere considerati indici completi? Non sembra, perchè le ottiche delle viste sono unilaterali. La specialistica scientifica illumina solo frammenti, anche se a volte con intenzione esaustiva. E se la vista verte sulla stessa cosa, può capitare che le fotografie specialistiche si trascurino reciprocamente. E se a queste osservazioni s’aggiunge la considerazione che le chiavi interpretative sono antropometriche ed antropocentriche, i risultati non sfuggono al sospetto della manipolazione. A tal punto che, l’in più che mi viene fornito dagli esperti sulla conoscenza della mia natura, valido ed utilissimo alla mia esistenza, è percorso dall’insufficienza o dal sospetto dell’insufficienza, lasciando a parte la problematicità inerente all’esatta corrispondenza tra l’impercettibile rivelato della natura e la natura stessa”.
“Fui molto compiaciuta – continuò – davanti alla mia capacità di affrontare i primi colloqui di vita con mio figlio e, una volta assunto, ammirai la mia forza nell’affrontare situazioni sconosciute … 
Poi mi vidi percorrere una rapidissima carriera, sotto gli occhi stupiti ed ammirati di chi mi circondava. Sapevo di suscitare invidie e gelosie, ma non me ne importava più di tanto, mi piaceva troppo riavvicinarmi a mio figlio tramite questo lavoro mentale, immateriale, trans-indicale.
Trovai bella anche la parte del padre affettuoso e mi compiacqui davanti all’amore che provavo per i miei due figli. Mi fermai a due, perché avevo consegnato due foto di me stessa. 
Ti starai chiedendo perchè sono venuta a raccontarti tutte queste cose. 
Abbi pazienza, non farmi sentire la tua noia, non a caso ti parlo, da dentro di te, di quelle che credevo le tue glorie. 
Non sto a dirti quanto fui soddisfatta di me, quando riuscii ad impiegare con intelligenza il mio tempo indicale per farmi riconoscere a te, che mise tra l’altro in grosse difficoltà i miei mercanti ed i miei intenditori da bancarella. 
Mi piacqui anche come nonna. Riuscivo a farmi adorare dai miei nipotini nella clausura, nella discrezione e nel nascondimento. 
Poi mi ammalai seriamente, mi ammalai di me stessa, tenendomi distante da quasi tutti i miei ritratti. Non potei non ammirare io stessa la mia capacità di affrontare la malattia, la turba  nel nascondimento. Mi comportai e mi comporto in modo dignitosamente discreto e coraggioso, un discreto che si trasforma in irriconoscibile. 
Pensavo di aver avuto una vita ricca di insoddisfazioni e quindi non rimpiangevo il doverla lasciare. 
Avevo ottenuto un successo di immagine, concesso a poche cartoline e non scorgevo svelamenti nel mio comportamento”. 
“Distesa nel letto della migliore clinica del mio privato sentivo che stavo morendo. Non soffrivo nel corpo e il mio animo era sereno. Desiderai rivedere, prima di andarmene, quella che era stata la mia vita per immagini. Chiesi con la mente, non so a chi, che ciò mi fosse concesso. 
Fu allora che davanti e dietro di me apparvero gli specchi della badante e di mia figlia. 
In questi mi vedevo riflessa all’infinito: in una memoria che non aveva presente, una memoria che sapeva solo di passato offuscato. 
Vedevo solo il mio volto e la mia nuca ripetersi ininterrottamente. Non ero stata capace di cogliere la ricchezza del mondo. Concentrata sull’autoritratto e sul mio valore avevo dimenticato tutto il resto. 
Mi sentii disperata: avevo buttato via un’intera esistenza. “No” gridai dentro di me “non può finire così! Sono stata solo sciocca, non cattiva! Non punitemi così, continuando a fotografarmi e a riprodurmi” Ancora poco tempo vi chiedo. Lasciate che io mi faccia almeno un’idea del mondo che mi circonda, delle persone che ho creduto di amare.”. Riuscii ad aprire gli occhi e a vedere il volto sofferente di quello che era stato il mio compagno per tanti anni. Ebbi un pensiero nuovo: “ Mi è distante, si vede spaventato e stanco”.
Prima mi sarei compiaciuta di sentirmi tanto amata, ora ero consapevole che davanti a me non c’era un’ombra con il compito di assistere ai miei insuccessi, ma una persona reale, in carne ed ossa che soffriva. Fu sconvolgente scoprire che esistevano tali mariti, ma per la prima volta in vita mia, mentre stavo per morire, sentii che si stava riempiendo quel vuoto interno che avevo sempre avvertito. Cominciai a stare meglio e con gran stupore dei medici riuscii a lasciare la clinica del mio privato ed a rimettermi nella clinica dei miei sogni. 
Una volta ristabilitami un po’ (mai del tutto), passai il mio tempo ad osservare l’album di fotografie di famiglia, a studiare quelle pose che mi circondavano e che, a volte, finivano per infastidirmi. 
La figlia che avevo preferito, perché più valida dal punto di vista sociale, ma che ora mi appariva un po’ arida, mi disse che da quando ero uscita dalla clinica ero irriconoscibile ed aggiunse: “Dov’è andata a finire la mia bella mamma, che si occupa solo di cose importanti? Mi fa impressione il tuo interesse per le inezie. Perchè vuoi sapere se a mio padre piace ancora scattarmi delle foto? È bravo, gli fa bene al fisico ed al carattere, è questo che conta!”. 
La figlia che mi piaceva di meno, perché aveva lasciato la verità per fare un matrimonio pieno di fotografie mi capiva di più. “Papà è diventato quasi fotografo!” mi disse un giorno. 
Il figlio maggiore sentenziò che, dopo la malattia, non ero più io; e la minore si azzardò persino a chiedermi un consiglio sulle nostre foto di famiglia. 
Ma fu soprattutto con la badante, con cui avevo vissuto una vita, che tentai di entrare in contatto. 
Cercavo di trovare momenti di conversazione in cui stare da sola con lei. In principio fu facile riorganizzarsi la clinica, perché lei pensava che avessi bisogno di riposo, dato che ero convalescente, poi capii che il mio nuovo modo di fare, le mie domande su di lei e sulla sua vita l’imbarazzavano. Infatti cercò presto di organizzare il tempo in modo da stare in mezzo alle solitudini ed alle cliniche di sempre. Anche queste cliniche mi apparvero diverse da come le avevo vagamente percepite prima. Non ci volle molto che notassero il mio cambiamento, che non piacque a tutti. 
Quando si vive un’intera vita chiusi in un proprio mondo, in fondo non si dà noia a nessuno e gli altri si abituano a prenderti per quello che sei: una fotografia, un indice, un documento fotografico, l’immagine di una vita. Io non li avevo guardati per anni, quei luoghi clinici dell’album fotografico, ed a loro era andato bene così. Rinunciai ad instaurare un dialogo improbabile con la clinica di me stessa. 
Però una cosa la volevo: entrare in contatto reale con mio figlio. Pensai che la cosa più facile fosse comunicarglielo in modo diretto, sapevo di non aver più molto tempo. “Mi rendo conto di non esserti stato vicino come una mamma deve stare con un figlio, ma ora ho bisogno di capirti, di sapere cosa hai provato in tutti questi anni fissando la somiglianza del mio ritratto ritrovato. Mi sono accorta di amarti profondamente e di non averti detto cosa veramente significasse per noi, per me e per mia madre, il segreto dell’ebraismo, il segreto della scrittura, della parola e dell’oralità, del dire levitico sul farsi immagine androgico, algoritmico.”. 
In un primo momento si ritrasse sospettosa, poi ruppe il ghiaccio in cui l’avevo avvolta e si mise a piangere. Seppi così che non si era sentita fotografata (o perlomeno inquadrata), che era stata molto infelice, che aveva cercato in ogni modo di entrare in contatto con me, ma aveva trovato un muro, il muro di mia sorella. Ora le era difficile rivolgere verso di me i sentimenti che aveva indirizzato verso i figli della clinica e persino verso la badante di casa, ma ci avrebbe provato, in nome di un amore intenso, che tanto tempo prima mi aveva offerto. 
Tutto questo avvenne quattro anni fa. 
Gli anni che seguirono furono gli unici della mia vita con un senso. 
Compresi cose per me un tempo inimmaginabili  e inimmaginabili per le stesse proprietà delle icone riprodotte in immagini, ed il mondo mi apparve in tutti i suoi grigi e le sue sfumature. 
“Sento che la proroga concessami sta per finire, ma dovevo dire a qualcuno che mi potesse capire quale regalo prezioso mi sia stato fatto nel farmi rinchiudere in questa piccola clinica.” 
“Sei stanca, dormi, ma sappi che in questi pochi minuti ho provato un sentimento di gratitudine per il tuo ascolto.” 
La salutai fra dormiveglia e sogno, prima che arrivasse il lockdown, poi mi immersi in un sonno profondo addolcito dalla sua visita, dall’apparizione di quel ritratto.