1899 è un prodotto esemplare, cioè esemplifica perfettamente il postcontemporaneo. Ma cos’è, esattamente, 1899? La descrizione fornita da Wikipedia sembra esauriente, pur facendo cenno a una strana ambiguità: “Nel novembre 2018, Baran bo Odar e Jantje Friese, autori di Dark, annunciano una nuova serie, intitolata 1899. La serie viene girata in Germania, nello studio Babelsberg, dove è stata allestita un’apposita struttura. Girata con sfondo LED, la serie utilizza l’Unreal Engine, motore grafico usato per i videogiochi, col quale verranno composti i fondali esterni all’interno dello studio Babelsberg” [https://it.wikipedia.org/wiki/1899_(serie_televisiva), consultato il 10 dicembre 2022].
1899 è dunque una “serie televisiva”, eppure ha una parentela con i videogiochi. Non svilupperò un’analisi del legame. Mi concentrerò invece sull’elemento di “formalizzazione replicante” esplicito (sebbene non evidente) in questa produzione. È un elemento indicato già nella brevissima sinossi proposta dal sito di Netflix: “Alcuni eventi misteriosi modificano la rotta di una nave di migranti diretta a New York nel 1899, portando i passeggeri perplessi di fronte a un enigma spiazzante” (https://www.netflix.com/it/title/80214497).
Queste poche parole ci mettono di fronte ad alcune peculiarità tali da rendere plausibile il titolo del presente scritto, Una ricapitolazione del postcontemporaneo. Giacché il termine apparentemente assurdo qui usato (“postcontemporaneo”) è connesso alla condizione dello “scoprirsi perplessi di fronte a un enigma spiazzante”. L’enigma in cui viviamo, l’enigma d’un costante e velocissimo mutamento radicale. (Nel mio Nuvole sul grattacielo. Saggio sull’apocalisse estetica, Quodlibet 2022, a cui ovviamente mi riferisco, si parla di “crisi della presenza”, di mundus patet, ecc.).
1899 esemplifica perfettamente le idiosincrasie della narrazione postcontemporanea: il tentativo di mobilitare il “pubblico”; la sequenza in sostanza statica di “scene madri”; la dissoluzione dei caratteri nonché l’imperscrutabilità delle loro motivazioni; la rinuncia a un vero finale e l’adozione di conclusioni insensate o addirittura (soprattutto nel caso dei videogiochi) l’introduzione di una molteplicità di finali. (Su questi due ultimi punti, connessi in qualcosa definibile “nichilismo situazionale”, qui dirò poco).
1899 è un prodotto esemplare. Ma in che senso? È “bello”, 1899? È interessante? Domande alquanto insensate. Il suo scopo primario è calamitare per un certo periodo l’attenzione del “pubblico”. Ça va sans dire. Ma ho usato le virgolette, per scrivere “pubblico”: giacché un’implicazione del modo in cui la produzione di 1899 ha strutturato i materiali narrativi è senza dubbio il tentativo di far diventare il “pubblico” una sorta di coautore. Beninteso, si tratta d’un tentativo oggi frequentissimo. Lo si potrebbe definire “sindrome Evangelion”, in riferimento a una delle occorrenze più stupefacenti di tale fenomenologia. Il caso di Neon Genesis Evangelion è un esempio eclatante dell’attuale mutamento del rapporto fra il “pubblico” e l’autore/l’autrice (o gli autori/le autrici – all’estremo, nel caso dei videogiochi, il team degli sviluppatori o addirittura dell’azienda). L’“opera” non appare un modello di interpretazione del mondo, bensì soprattutto qualcosa come una provocazione dell’attivismo dei lettori, spettatori, giocatori; l’opera diventa l’arena d’uno scontro con l’autore. Una competizione che spesso si orienta verso la verifica delle informazioni e degli sviluppi proposti, interpretandoli come un database da cui estrarre differenti possibilità narrative. Il successo solo parziale di 1899 non ha provocato un diluvio di commenti, teorie, interpretazioni, ecc. paragonabile a quello ormai pluridecennale che ha accompagnato le varie proposte riferite a Neon Genesis Evangelion oppure a Star Wars. Tuttavia la dinamica “postcontemporanea” a cui mi riferisco in 1899 è maneggiata con un estremismo inconsulto.
Di che si tratta, in sintesi? La risposta solo in apparenza sorprendente è che “non deve essere comprensibile alcunché”. Siamo “perplessi di fronte a un enigma spiazzante”, ricordiamolo. In concreto, emergono con feroce accanimento peculiarità specifiche delle narrazioni postcontemporanee. Si nota un atteggiamento narrativo a prima vista raffinatissimo, pieno di sotterfugi, easter egg, ammiccamenti – ma che allo stesso tempo potrebbe essere considerato incompetente, in quanto la narrazione non è sviluppata se non per accenni, e si scoprono sviste, ingenuità, errori. 1899 accumula indizi (piramidi, scarabei, visioni, bambini inquietanti ecc.). Sembrano in questione metafore di incommensurabile profondità: le intuiamo lampeggianti nella frammentaria visualizzazione di intricate vicende del passato, di cui i personaggi hanno solo parziale memoria, senza nemmeno essere in grado di distinguere fra ricordo, divagazione onirica o profezia, ecc.
Ma non aspettatevi spiegazioni, né coerenza. In un certo senso, 1899 espone in modo sistematico un elemento che per esempio in Games of Thrones appariva come effetto collaterale dell’intento prioritario. L’effetto collaterale è il cosiddetto “buco di sceneggiatura”. L’intento prioritario è trasformare la narrazione in una collezione di “scene madri”, trascurando o abbandonando del tutto la logica inizio/peripezie/conclusione. Dato l’intento (ovvero la trasformazione del racconto in una sequenza di scene ognuna delle quali destinata a incuriosire, attizzare, accontentare i fan, ecc.) il “buco di sceneggiatura” finisce col diventare paradossalmente un tecnicismo volto ad aumentare l’inspiegabilità complessiva. D’altra parte, il “buco di sceneggiatura” fomenta l’attivismo del “pubblico”, stimolando la produzione di teorie, spiegazioni, ecc.
In altri termini: il “buco di sceneggiatura” è intenzionale. Scimmiottando in modalità cheap (o per essere più precisi: midcult) una tecnica che fu propria delle narrazioni intellettualistiche del ‘900, 1899 attua una strategia dell’incomprensibilità. Non spiegare bensì alludere, abbandonando le allusioni a un sistematico rinvio ad altre allusioni; corrodere ogni nesso logico, implicando in questo mettere in dubbio qualunque cosa un’irrisione del “pubblico”, così istigato a inventare teorie, spiegazioni, ipotesi. Tutto appare possibile, qualsiasi spiegazione si subodora come plausibile o allo stesso tempo assurda. Le implicazioni problematiche di romanzi come quelli di Julio Cortàzar, Thomas Pynchon, David Foster Wallace (o, per fornire esempi cinematografici, per esempio L’anno scorso a Marienbad o Mulholland Drive) vengono trasformate in mera ricerca dello strano, weird, del “sintomatico mistero” meramente cool – operazione midcult, appunto, secondo la nozione di Dwight Macdonald, cioè utilizzo deresponsabilizzato e compiaciuto di cascami provenienti da formalizzazioni consapevoli.
La conclusione, poi. Dato l’affastellarsi di scene madri, tra loro avulse e incoerenti, 1899 propone una narrazione statica. Non si tratta di un’invenzione di 1899, tutt’altro; è anzi lo stigma di un modo postcontemporaneo di disarticolare l’antico patto fra narrazione ed esperienza. 1899 ne è soltanto uno dei casi più estremi (fino alle prossime estremizzazioni, beninteso).
La conclusione, dicevo. La sostanziale abolizione del raccordo fra inizio e finale determina un’implosione del senso. Non essendoci sviluppo narrativo, le conclusioni delle singole scene e dell’intero racconto giungono in modo inconsulto, “troppo presto”; simultaneamente, quella sorta di presente spettrale fa apparire ogni situazione come “non ancora” compresa, analizzata, esposta. A mio avviso tale abnorme implosione di troppo presto e non ancora è un marchio dei tempi. La fusione fra eschaton e katéchon – fine già qui, fine ritardata.
Infatti la “conclusione” di 1899 non è affatto tale. E non solo in quanto è evidentemente inaccettabile e pretestuosa (secondo un paradigma narrativo per così dire “classico” che qui viene rifiutato), ma in quanto non conclude. Il Reale è sempre più in là. Anzi: qualche altra scena madre più in là. (Fino all’eventuale “nuova” stagione).
[La bibliografia sulla serialità televisiva è ormai sterminata. Ricordo qui solo alcuni esempi italiani (da punti di vista differenti dal mio): Tommaso Ariemma, La filosofia spiegata con le serie TV; Id., Platone showrunner. Regole filosofiche per scrivere la serialità; Davide Bennato (a cura di), Black mirror. Distopia e antropologia digitale; Mario Tirino – Adolfo Fattori (a cura di), Black Lodge. Fenomenologia di Twin Peaks].