Josh Smith Untitled, 2021, Veduta della mostra “Stop Painting”, Fondazione Prada, Venezia, Foto Marco Cappelletti, Courtesy Fondazione Prada

Una riflessione sullo STOP PAINTING, da Prada a Venezia! [par. I]

Questo testo introduce ai segreti e alle contraddizioni della mostra “Stop Painting”: dalle indagini iconografiche, a quelle concettuali, fino ai problemi di una “critica emarginata”, quella che si sottrae al funzionarismo militante e all’annientamento di consistenti episodi storici. Conversare con una mostra significa scoprirla nella sua natura e collegarla alle opportunità o agli opportunismi da cui è nata, ai cliché tramandati da chi fa finta di possedere la vera esperienza dell’arte. Così, ritornare al rapporto tra “Pittura e Memoria Oggettuale” significa ben più che un semplice esercizio comparativo, è l’atto di porsi nel mezzo di un incontro che non ha ancora cessato di compiersi e che, come ogni incontro-scontro, vive anche di cenni, di ammiccamenti, di allusioni vaghe e promettenti, nonché di quei dossier che presentano, a volte, la stessa densità di una parola: pittura!

1. Quella in cui vive l’artista è un’epoca forzosamente nichilista che ha portato al suo massimo dispiegamento l’opposizione tra arte e natura, tra spirito e materia, arte e critica, ascrivendo alla prima la funzione dell’autonomizzazione assoluta della volontà, deprivando la seconda di qualsiasi valore intrinseco, di qualsiasi finalità data in essa a priori.

In epoca moderna, la natura è violata e, all’interno di questa, anche la natura dell’arte. Cosa può fornire in questa situazione, un criterio, un’immagine dell’artista, la salvaguardia della sua ecologia mentale dagli smisurati eccessi del suo potere di consumo? Cosa può rendere la pratica artistica qualcosa che viaggi al di là delle opposizioni fra «continuismo infinito dell’azzardo» e «acriticismo sfrenato della pappardella neo-duchampiana»?

L’opera d’arte moderna estromette dal proprio ambito di osservazione le strutture mediali significanti lo spirito della critica e la vita vera fuori dall’arte. Gli scampati dall’avanguardia rappresentano tutto ciò che può essere compreso e diviene il metro di ogni intelligibilità storica. Il pensiero classico ha dato vita alle polarità di «view painting» o «stop painting», pittura attiva o pittura morta, intelligibile concettuale o sensibile pittorico e lirico, in cui il secondo elemento ha bisogno necessariamente del primo per godere di uno statuto ontologico. Il pensiero acritico moderno, invece, sostituisce alle vecchie polarità le coppie pittura-non pittura, spirito della pittura e assenza della pittura, coscienza della pratica pittorica, interiorità-mondo dell’oggetto e del design, zeitgeist del ritorno alle forme e metafisica del nuovo disegno. Viene dissolta la tendenza del superstite per poi affermare, come fa Peter Fischli, di “finire di smettere di dipingere”. Eppure, l’eco della domanda “perché dipingere” non è svanita del tutto dal discorso estetico. Presentandosi come una versione aggiornata di Frankenstein, agile e vivace – un Frankenstein reduce da un intervento di chirurgia estetica perfettamente riuscito – la pittura circola in un costante processo di “morphing”, in un’infinita quantità di dispositivi”. La natura dell’arte è ora la materia, il non-io che esiste in maniera del tutto autosufficiente, mentre la nozione di spirito artistico perde la propria forza normativa e si riduce a “narcisismo liberal” a sé, in cui viene convogliata la dimensione della coscienza borghese, che diviene l’autenticamente incompreso e irrazionale.

Nell’universo scientifico, tutti i cambiamenti vengono prodotti da una mancanza di equilibrio e ogni livello di organizzazione raggiunto, di volta in volta, non è altro che una condizione che compensa l’instabilità di una precedente distribuzione della massa. Sicuramente a niente servono le chiacchiere, le cifre, i rapporti antologici. Le accumulazioni collezionistiche, le scenografie sui difetti dell’avanguardia e delle sue storie “stop painting”, sparate davanti alla luce chiara e limpida delle forze artistiche del passato, quando il progetto parte dalla critica del liberismo artistico sedendosi sulla poltrona del dirigismo della Fondazione Prada! Noi dell’ambito mediale non intendiamo risolvere il drammatico fenomeno di crisi delle “coscienze borghesi”, ma siamo convinti che la civiltà dell’arte e della pittura dipenda anche dalla coscienza individuale del singolo artista, di chi è preposto, delegato ad affrontare questi problemi. Sarebbe erroneo pensare che la colpa sia stata solo e soltanto di un gruppo di faciloni, che hanno esteso e interpretato male il gesto cubo-futurista, espressionista, dadaista, surrealista o situazionista. Si è parlato male dell’amministrazione espansiva del dadaismo e del surrealismo, all’interno del metabolismo ermeneutico dei prefattori, o dei glossatori a margine come Carlo Freccero. Qual è il senso di tanta logorrea, se non si cerca in qualche modo di mettere in chiaro la verità con coraggio e senso di obiettività.

Lo Stop Painting con qualunque curatela, ripetiamo, è stata sempre parziale, opportunistica, azzardata, improvvisata. Se molti, ormai, sono quelli che hanno raggiunto gli obiettivi della curatela di questa mostra alla Fondazione Prada, tanti ancora sono rimasti con la mentalità dell’arte del tira a campare o con la mentalità della strategia post-moderna, tanto deve andare così. Così è stato per la neoavanguardia Europea e Americana e così è per la realtà della post-avanguardia e di tutto il tessuto sociale, che si muove tra il mediale e il non mediale. E solo adesso la coscienza della crisi borghese, scegliendo la sede della Fondazione Prada, infrange il muro dell’omertà post-moderna di destra e di sinistra, progressista e regressista, denunciando gli spacciatori delle estinzioni dadaiste, o dei sopravvissuti marginalisti. La pittura ridestò il problema della morte dell’arte, o la pose come estrema ratio? E col morto in tavola (Paul Delaroche: i pittori verso i fotografi e i fotografi vs i pittori, altra vecchia polemica), i progressisti liberali sono sempre riusciti a prendere la città in mano, ma anche loro, guarda caso, gli stessi che oggi parlano di un ritardato morphing, in tutti i cicli storici della loro affermazione, hanno avuto lo stesso problema irrisolto, la dittatura dello «stop painting». E forse, a dispetto di uno sperimentalismo mal riuscito, sono stati proprio loro a rendere il servizio espositivo ancora più veicolato dalle sole leggi della finanza, inserendo pennivendoli di una crocchia al posto di un’altra, e svendendo molti elementi, per redimere, ma che probabilmente redenti non si sono. Ma allora, in Occidente lo Stop Painting ce lo dobbiamo tenere?

La borghesia illuminata europea ha fatto la sua fortuna con opere sui vizi pubblici e privati di quelli della parola contro l’immagine, di quelli della narrazione contro il minimalismo, ma è questo il solo frutto che un’arte può dare a un suo artista?

L’inchiesta sarebbe senz’altro inutile, se non tendesse a una verifica dei motivi anche tecnici ed allestitivi della nostra attenzione per l’arresto pretestuoso della Pittura.

Sarebbe un sogno poter vedere questo tipo di mostre-sollecitazioni? Eppure, lettori miei, si può! Come si può creare il lavoro per altre interpretazioni storiche con l’ecologia della mente, la medialità critica. Occorre solo volontà politica e senso costruttivo degli artisti che devono ribellarsi per rompere la catena del silenzio, del laissez-faire anti-critico. Qualcuno ha detto che i panni sporchi si lavano a casa. E allora laviamoli questi panni una volta per tutte. La paradossalità del nostro intervento è legato alla gioia e alla speranza dell’arte della salvezza. Il volto della pittura presto, prestissimo, forse può rimettersi in cammino, anche grazie a quelli che, in questa difficile esposizione, hanno detto Stop, come Portobello! 

2. Lo slogan “stop painting” mostra due cose: una è che ci sono parole (e stop) che vengono dette per far irritare, e perché si sa che alimentano la strategia della provocazione artistica; l’altra è che queste due parole, questo slogan, socialmente parlando,  è proprio importante, perché lo stesso curatore lo lascia alla malizia della pubblicità, incapace, ormai, di oltraggiare quel buon gusto borghese, che non a caso decide quali sono gli slogan giusti e le tendenze giuste di un momento storico al posto di in un altro.

Riprendiamo il primo punto: bene, c’è uno stop, una telegraficità internazionale, una segnaletica, un codice che si presentano offensivi quanto l’indicazione d’arresto; questa retorica del fermo e dell’intersezione a raso terra si presenta ormai morente nella sua sfera estetica, in quella stessa sfera in cui la retorica della morte dell’arte ha chiuso con il suo vitalismo perverso ed è costituita a questo scopo. Una four-letters word non è detta per veicolare un solo significato: è usata per colpire, offendere quel buon gusto borghese che non a caso decide quali sono gli slogan e le tendenze giuste di un momento storico al posto di un altro: è una macchina isterizzante. 

Si palesa qui il fatto, osservato dal pensiero mediale (Città senza confine, 1984), che il segnale può essere considerato come un particolare tipo di dispositivo: è vero, e infatti ci sono degli slogan che rappresentano delle armi a doppio taglio. Ribadiamo: uno slogan è tale perché socialmente proposto ad una provocazione, è la descrizione di uno slogan, poniamo un sedicente paradigma e, quindi, non potrà prescindere dal fatto che ogni singolo elemento di quella costruzione letteraria rispetta innanzitutto la logica della sua funzione; insomma si descrive uno slogan morente in quanto strumento innocuo, anche se tanto un fucile può essere usato per schiacciare noccioline (magari americane), quanto uno schiaccianoci può essere un ready-made in declino, uno slogan di guerra «ormai retinico» quanto il suo stesso nemico.

Riprendiamo il secondo punto: ci sono slogan che si espongono e slogan che non si espongono; ci sono parole che si fanno vedere proprio perché sono alla fine del loro senso e del loro post-stop o pre-stop. E questo non vale per tutti gli slogan, così come non vale per uno qualsiasi. Se si va a leggere il catalogo redatto dai mentori di Stop Painting, si noterà con quanta cura il curator (anche questo è uno slogan) insiste sulla necessaria onestà dei pro e dei contro dello Stop Painting per cadere nel referenziale; gli slogan vanno scelti con cura, perché come due o più parole vengono a dirci la medesima provocazione di sempre, nondimeno l’una sarà più storicizzata dell’altra: dimostrazione concettuale che i sinonimi non esistono per una sola metafora. I tropi, o figure di parole costituiscono, tra tutti i gruppi di procedimenti retorici, quello che più ampiamente e con maggiore intensità creativa agisce nella poesia di ogni epoca, così come fa fatica ad agire alla stessa maniera nel mondo delle arti visuali. È difficile immaginare un testo d’arte che non ospiti la straniante irregolarità dei tropi, ma è anche difficile prevedere quanto questa straniazione sia applicabile anche al mondo delle arti figurative; quasi che il loro uso programmatico, la loro presenza al centro e a fondamento di un atto discorsivo, costituisca la segnalazione del letterario in contrasto con il visivo. E non poche poetiche si illudono di aver fatto il percorso duchampiano, sulla base della loro relativa assenza, a favore di progetti discorsivi oggettivistici o familiari al letterario o al visivo, traendo, però, proprio da questa scelta la testimonianza del loro distacco dalla tradizione concettuale. I tropi sono figure del linguaggio, attuate con lo spostamento del significato di una parola verso l’area di significazione di un’altra: nello slogan di Stop Painting la deviazione semantica avviene per analogia, nella metonimia per rapporto di contiguità, nella sineddoche per estensione. Che tutti gli slogan come lo Stop Painting costituiscano una calcolato scarto dal linguaggio usuale della pittura e della usuale accezione linguistica, appare evidente, ma la questione dibattuta è quella dello slogan incarnabile in una storia, del suo senso al di qua e al di là della rappresentazione.

Il problema, oltre la metafora, continua a sussistere: la liberazione della “pittura dalla pittura” è fallita, e il buon samaritano ha pagato con la vita il suo tentativo anacronistico e pre-mediale. Scriviamo per una mostra intitolata Stop Painting: concepita dall’artista Peter Fischli, che si espone fino al 21 novembre 2021 nel palazzo storico di Ca’ Corner della Regina, sede veneziana di Fondazione Prada. La sezione intitolata “Delirium of Negation” è ospitata nella sala centrale del primo piano nobile di Ca’ Corner della Regina. In catalogo l’artista John Kelsey dichiara che “la fine della pittura non può che essere una ripetizione”. L’insieme delle opere esposte in questa sezione, realizzate da artisti come Daniel Buren, Carol Rama, Jean-Frédéric Schnyder e Kurt Schwitters ruota attorno ad un assunto post-moderno. Questi lavori affrontano i fondamentali momenti di crisi della storia della pittura indotti dal readymade, dalla fotografia e dalla mercificazione della pittura stessa. La sezione “Mensch Machine” analizza il superamento della figura dell’artista in quanto produttore della propria opera e mette in discussione l’idea di particolarità come forza ispiratrice dell’attività creativa. I lavori di Andrea Fraser, Pinot Gallizio (Le acque del Nilo non passano ad Alba,1958), Alain Jacquet, Piero Manzoni(Impronta,1960) e Niki de Saint Phalle (Old Master (non tirè)c.1961), che assorbono nuovi dispositivi tecnici, disegnano l’annullamento tra opera d’arte e oggetto di uso quotidiano. Raccolti sotto la qualifica “Niente da vedere niente da nascondere”, i lavori di Carla Accardi, Walter De Maria, David Hammons, Klara Líden, Martin Kippenberger e Albert Oehlen annullano l’immagine, rendendo irrealizzabile per l’astante la modifica della superficie in un feticcio. La sezione “Word Versus Image” percorre le modalità con cui i frammenti testuali sono inseriti dentro al quadro: nelle opere di John Baldessari, Gene Beery, Karen Kilimnik, Pino Pascali (Lettera C, 1964) e Jim Shaw.

Come ho più volte scritto nei saggi sul Medialismo che vanno dal 1984 al ’93: ”la pittura stessa ha perso il suo ambito specifico ed è diventata un oggetto, un readymade”. Infatti, nelle opere incluse in “When Paintings Become Things”, la pittura diventa autonoma dalla superficie del quadro, “dopo molti secoli di concezione dell’atto di dipingere come rappresentazione del mondo esterno”. Le opere di Dadamaino, Jana Euler, Olivier Mosset, e Rosemarie Trockel sono tautologie di elementi reali o consistono in oggetti ordinari e semplici. In “Spelling Backwards”, le opere di Gerhard Richter e Josh Smith, tra gli altri, puntano a dimostrare che qualcosa come una ‘sostanza della pittura’ non esiste. “Die Hard, Stirb Langsam, Duri a morire” riunisce opere che raccontano una malinconia empatica per il mezzo pittorico e l’impossibilità, anche per artisti d’avanguardia come Marcel Broodthaers(Dix-neuf petits tableaux en pile, 1973), Asger Jorn e Kurt Schwitters (Natura morta con fiori e piatto di latta, 1914), di sfuggire alla segreta forza di seduzione (e astrazione) della pittura figurativa. Il rifiuto della pittura e “dell’industria culturale” in generale sono alla base dei quadri della serie “NO” di Boris Lurie, dell’arte autodistruttiva di Gustav Metzger, dei segni contro i musei d’arte di Henry Flynt e dei tagli sulla tela che Lucio Fontana considerava eventuali passaggi verso l’altrove. “Next to Nothing” si focalizza sul monocromo, la tela bianca e l’idea di traccia sulla superficie. I segni isolati e anonimi di Martin Barré, gli ultimi dipinti astratti di Francis Picabia(Soleils, 1949; Point,1951) “decorati” con semplici punti, i “quadri” realizzati in tessuto da Blinky Palermo e i “pours” di Lynda Benglis sono indizi di una tendenza all’essenzialità, che annulla o deride l’atto di dipingere. “Readymades Belong to Everyone” presenta appropriazioni sia della cultura mercantile che della storia dell’arte, esaminandole  come elementi facenti parte dello stesso ambito. Marcel Duchamp, Sturtevant, Ben Vautier e Andy Warhol, tra gli altri, sfidano con le loro opere l’idea di autorialità e de-costruiscono con le loro pratiche la nozione stessa di pittura. Una scelta di opere di Theaster Gates, Wade Guyton, Bruce Nauman, Lawrence Weiner e altri artisti, mette in scena al piano terra, nel cortile e sulle scale di Ca’ Corner della Regina, le trame coincidenti che costituiscono “l’emblema teoretico” della mostra “Stop Painting”.

L’assunto da cui parte la tematica espositiva, a detta dell’artista svizzero Peter Fischli, si coniuga così: “Lo spettro che riappare continuamente per narrare la storia della fine della pittura è un problema fantasma? E in caso affermativo, i fantasmi possono essere reali?”.

Col termine generico fantasma si indicano apparizioni paurose di esseri soprannaturali dalla vita sconosciuta e inafferrabile, i quali – solo in certi marginali aspetti – entrano in contatto con il mondo dei vivi. La rappresentazione banale che si dà della Fine della Pittura è quella di una figura retorica, vagamente umana, coperta completamente da un panno iconoclasta, con due buchi concettuali al posto degli occhi: aspetto che poco ha a che fare con la pratica dello “stop painting” dominante nel sistema artistico contemporaneo. Qui il fantasma è il vero e proprio simulacro d’un vivo, che si aggira soprattutto contro il bene comune in determinati luoghi dei Palazzi di Potere: spaventa gli artisti e li intimidisce ad esercitarsi con la pittura, parla con loro credendoli propri simili, svela i pericoli dell’essere retinico, i tesori, le colpe segrete, o chiede d’essere liberato dalla sua condanna (perfino facendo l’amore con i più rivoluzionari e radicali anti-artisti). Più propriamente, ahinoi, lo spettro non è il comunismo, come recitava il celebre Manifesto (1847-48, quindi un fantasma buono), ma è il liberismo e l’anarchismo duchampiano e post-duchampiano, che si presenta come Casa degli Spiriti Universali, luogo infestato dalla sua stessa dialettica della liberazione, prescindendo dalle figure evocate dallo spiritismo, che appartiene più alla tradizione borghese che popolare. Lo spettro dello Stop Painting, invece, pur appartenendo alla categoria dei fantasmi come sinonimo di immagine, ha un aspetto non più terrificante e presenta sovente la volontà di incutere liberazione. 

Questa credenza, per lo più confusa e non di rado irta di contraddizioni, deve essere ricondotta a una concezione pagano-borghese in cui, dopo la morte di Marcel Duchamp, sopravvive della sua arte non l’anima d’artista, come principio immortale, ma un simulacro sulla fine (Hans Belting, La fine della storia dell’arte o la libertà dell’arte,1983), un fantasma di morte della pittura e dell’arte retinica, un essere dalla vita depotenziata, destinato a dissolversi col tempo o a raggiungere per sempre il luogo del suo eterno soggiorno liberal. L’argomento può chiarirsi, relativamente, rifacendosi alle credenze che gli «anti-retinici accademici» avevano sui pittori, le anime dei defunti, che sovente tornavano nell’Immagine dagli Inferi delle Avanguardie Storiche. A ben guardare, anche i concettuali ortodossi, su questo argomento, non avevano idee precise: consideravano i pittori ora anime separate dal corpo, ora divinità infernali, ora geni tutelari dei trapassati, ora anime degli antenati, oggetti di culto e dispensatori di felicità.